La trasmissione della vita

La trasmissione della vita

Cooperatori dell’amore di Dio creatore

 

 

 

 

«Amando, tu rinneghi te stesso (poiché non c’è amore senza abnegazione), affermi un altro, ti doni a lui e tuttavia non perdi il tuo essere specifico; al contrario lo affermi a un livello superiore, ti elevi a una nuova perfezione»[1]; «Se Dio esiste (per me è diventato indubitabile), egli è necessariamente amore assoluto. Ma l’amore non è la caratteristica di Dio. Dio non sarebbe amore assoluto se fosse amore soltanto per l’altro, per il relativo, il corruttibile, il mondo […]. Dio è essere assoluto perché è atto sostanziale di amore […]. Dio, o la Verità, non solo ha amore, ma anzitutto “è amore, ó Theos ágápê éstín” (1Gv 4,8), cioè l’amore costituisce l’essenza di Dio, la sua propria natura»[2].

Se Dio è Amore sostanziale, come ci insegna la tradizione giovannea e sottolinea particolarmente la spiritualità cristiana non solo ortodossa, «chi è con l’Amore non può non amare»[3]. La conoscenza effettiva della Vita – e quindi della Verità – è pensabile nell’Amore. Chi realizza il dono dell’Amore come offerta di sé per l’altro, scopre il senso della Vita e diviene cooperatore dell’amore di Dio creatore. «La verità manifestata è amore. L’amore realizzato è bellezza. Il mio stesso amore è azione di Dio in me, e mia in Dio. Questa co-attività è il principio della mia partecipazione alla vita e all’essere divini, cioè all’amore sostanziale, perché l’assoluta veridicità di Dio si dischiude appunto nell’amore»[4].

L’amore coniugale non vive semplicemente dell’orgoglio di appagarsi della felicità dell’altro e non si nutre solamente di quello che il piacere e l’intimità possono rivelare, né può esaltarci per sempre a motivo delle spinte dell’eros e dell’energia fisica che sprigionano i nostri corpi. Prima ancora di sedurre e di attirare a sé, l’Amore sostanziale educa, permette di tirare fuori – ex-ducere – quel seme di vita che è in ciascuno di noi, affinché le nostre azioni partecipino dell’atto creativo divino. Non siamo noi ad aprirci alla Vita, è l’Amore che ci conduce verso un progetto più grande di noi, di quello che siamo o pensiamo.

«La sessualità è integrata e raggiunge la qualità della libertà e della fedeltà creativa quando trova il suo senso e il suo fine nell’amore umano e divino. La realtà biologica è solo la materia, che riceve la sua forma dall’amore (causa formalis). La realtà biologica umana non è indifferente all’amore. Essa trova il suo compimento, la sua verità nell’amore. L’amore non è importante solamente per la persona che conduce una normale vita sessuale; esso è essenziale qualunque sia lo stato di vita in cui la persona possa vivere […]. Dire che il sesso e l’eros hanno bisogno di redenzione significa dire che hanno bisogno di essere assunti in quell’amore che ha il carattere di dono ed è vissuto con gratitudine e con mutua stima. Niente rende gli uomini così gioiosi e liberi come questo amore integrato, anche se esso richiede il sacrificio di tutto ciò che si oppone all’integrazione […]. Il matrimonio non è né un rapporto contrattuale in vista di certi scopi né una comunione ordinata a certi scopi: è un’alleanza di amore. In tutti gli stati di vita la sessualità è sana se riposa sulla forza dell’amore; ma soprattutto il matrimonio è costituito come comunità di amore nella mutua donazione di sé che, per sua natura specifica, è feconda. I cristiani vedono tale fecondità come com-partecipazione nell’amore creativo di Dio. La genuina fecondità umana è la sovrabbondanza dell’amore»[5].

In questo  nostro breve contributo, metteremo in evidenza tre aspetti dell’amore coniugale e della cooperazione degli sposi al progetto di Dio[6]: l’amore e la crescita nell’amore sono all’origine del nostro essere persona e, quindi, dell’etica non solo sessuale (Chiamati ad amare); la fecondità o il potere creativo come caratteristica costante dell’amore coniugale (L’arte della vita e Il dono dei figli); la sfida educativa – soprattutto per la libertà – all’interno della famiglia (Il santuario della vita). L’amore – “amare ed essere amato” – è la risposta dell’uomo al problema dell’esistenza e al senso pieno della vita.

 

 

1. Chiamati ad amare

 

«Quando l’amore vi chiama, seguitelo. Benché le sue vie siano ardue e ripide. E quando le sue ali vi avvolgono, abbandonatevi a lui, anche se la spada nascosta tra le sue penne può ferirvi. E quando esso vi parla, credetegli, anche se la sua voce può infrangere i vostri sogni come il vento del nord quando devasta il proprio giardino. Poiché come l’amore vi incorona, così vi crocifigge. È ugualmente pronto sia a farvi fiorire che a potarvi […].

Come covoni di grano vi accoglie in sé. Vi scuote per rendervi spogli. Vi setaccia per liberarvi dalle reste. Vi macina fino all’estrema bianchezza. Vi impasta finché non siate cedevoli; e infine vi assegna al suo sacro fuoco perché diventiate pane sacro per la mensa di Dio.

Tutte queste cose saprà compiere l’amore per voi, di modo che voi possiate conoscere i segreti del vostro cuore e in questa conoscenza farvi frammento del cuore della Vita […].

L’amore non dona che se stesso e nulla prende se non da se stesso. L’amore non possiede né vorrebbe essere posseduto; poiché l’amore basta all’amore.

Quando amate non dovreste dire: “Dio è nel mio cuore”, ma piuttosto, “Io sono nel cuore di Dio”. E non pensate di poter voi condurre l’amore, poiché è l’amore che, si vi trova degni, condurrà voi. L’amore non ha altro desiderio che appagare se stesso»[7].

È, dunque, nella prospettiva dell’Amore sostanziale e trinitario – Deus caritas est[8] – che dobbiamo ripensare, soprattutto in questo tempo in cui predomina l’ideologia del relativismo e una certa dittatura della cultura dell’effimero e dell’immanenza[9], il significato autentico e originale della trasmissione della vita da parte dei coniugi. Si diventa cooperatori dell’amore trinitario perché è l’Amore stesso a chiamarci. Si può trasmettere la vita perché abitati da un amore più grande che ci orienta e guida. Non finiremo mai di ripetere abbastanza, e di comprendere a sufficienza, che questo nostro assomigliarci all’amore di Dio è un amore attivo a ciò che ci è già dato. L’amore di Dio passa in noi e ci fa esistere, essere persona, divenire autentici. L’Amore ci personalizza. Amiamo genuinamente solamente quando ci identifichiamo nell’Amore[10].

Se tutti siamo chiamati ad amare – perché è la vocazione dell’uomo creato a immagine e somiglianza della Trinità –, i coniugi sono interpellati ad amare in Dio, scambiandosi quel bene reciproco che il Signore stesso ha deposto nei loro cuori[11]. All’origine del loro conoscersi e incontrarsi non c’è semplicemente l’eros, bensì l’Agapé. È il Dio-Amore, la Trinità santa, a imbrigliare i desideri degli amanti e a elevare nella grazia la loro fame e sete[12]. Posti l’uno accanto all’altra, gli sposi si confidano i segreti del cuore in cui dimora l’Amore e si aprono a un progetto più grande di loro stessi, che va ben oltre quella storia che hanno vissuto e che li ha condotti fino al tempo presente, all’oggi. Solamente a partire da questa premessa dell’Amore, solido e non liquido, sostanziale e non relativo, trinitario e non egoistico, relazionale e non monadico, progettuale e non effimero[13] – capace di resistere alle fragilità dei legami affettivi –, è possibile affermare che i coniugi sono cooperatori dell’amore di Dio creatore nel momento in cui si aprono alla vita e la trasmettono attraverso la nascita biologica dei propri figli. Perché l’Amore ci precede e ci co-costituisce: è eternamente davanti a noi e sempre prima di ogni nostro incedere nella storia e nella compagnia degli uomini.

A partire da tale prospettiva, amare significa desiderare di generare e procreare: perché l’amore non trova il proprio significato nella brama di cose pronte per l’uso, belle e finite, ma nello stimolo a partecipare al divenire di tali cose. «L’amore non è amore del bello […] ma generazione e procreazione del bello»[14]. Solo così l’amore umano è simile alla trascendenza e non è che un altro nome per definire «l’impulso creativo che, in quanto tale, è carico di rischi, dal momento che nessuno può mai sapere dove andrà a finire tutta la creazione. In ogni amore, ci sono almeno due esseri, ciascuno dei quali è la grande incognita nelle equazioni dell’altro. È questo che fa percepire l’amore come un capriccio del destino: quello strano e misterioso futuro, impossibile da predire, prevenire o evitare, accelerare o arrestare. Amare significa offrirsi a quel destino, alla più sublime di tutte le condizioni umane, una condizione in cui paura e gioia si fondono in una miscela che non permette più ai suoi ingredienti di scindersi. E offrirsi a quel destino significa, in ultima analisi, l’accettazione della libertà nell’essere: quella libertà che è incarnata nell’Altro, il compagno in amore»[15].

L’impulso creativo che è in ciascuno di noi ci libera dall’isolamento dell’esistere e ci proietta in una relazione vitale attraverso la quale comprendiamo che esistere significa “esistere per gli altri”, fino a sperimentare, solo in parte, che è possibile comunicare e condividere la propria stessa esistenza[16]. Attraverso il rapporto di reciproca appartenenza, l’uomo e la donna sono posti l’uno di fronte all’altra e l’amore che li contrassegna – mediante l’attrattiva personale – non solo si esprime in modo unico e incomparabile, ma partecipa alla fecondità stessa della vita, alla generazione della specie[17].

 

 

2. L’arte della vita: il dono dei figli

 

«Eredità del Signore sono i figli, è sua ricompensa il frutto del grembo. Come frecce in mano a un guerriero sono i figli avuti in giovinezza. Beato l’uomo che ne ha piena la faretra: non dovrà vergognarsi quando verrà alla porta a trattare con i propri nemici» (Sal 127 [126],3-5).

I figli sono, essenzialmente, dono di Dio. L’unione dell’uomo e della donna ha il suo senso – certamente non esclusivo – ma tuttavia assai rilevante anche biblicamente, nella generazione della prole. Di fatti, la sterilità è segno di morte, di umiliazione, di sconfitta[18].

Nel Sal 127, i figli sono generalmente chiamati dono di Jhwh e nel Sal 128 sono indicati come una benedizione del timore di Jhwh (cf. vv. 1-4). Dio dona all’uomo la gioia di generare (cf. Sal 144,12). Per i genitori, i figli sono gloria e vanto, una gioia e un ottimo aiuto (cf. Sal 127,4). Il messaggio biblico è molto chiaro: la casa costruita con Dio è fonte di felicità e di sicurezza, così come la famiglia. La sorte dell’uomo è esaltata attraverso il coronamento dei figli, segno della divina benedizione: solo così si può guardare al futuro con serenità e sicurezza[19]. I figli sono come virgulti d’ulivo intorno alla mensa della casa e benedizione per il futuro: «Possa tu vedere i figli dei tuoi figli» (Sal 128,6). Il dono della generazione rientra nelle potenzialità espressive dell’uomo e costituisce la vera arte della vita – l’agire secondo Sapienza – che consiste nel vivere in comunione con Dio e, quindi, nel ricevere le sue benedizioni. Ogni vita è dono e compito, mistero e responsabilità. Il compito educativo dei genitori si ispira proprio al senso dell’arte della vita: non riguarda solamente l’istruzione, le attività operative, il lavoro, ma soprattutto la capacità di agire secondo il timore di Dio e di essere in grado di assumersi la responsabilità delle proprie azioni (cf. Pv 23,13; 30,33; Dt 21,18-21) e di trovare nella famiglia stessa il rifugio e la sicurezza per la propria vita (cf. Pv 14,26).

«L’amore coniugale richiede dagli sposi che essi conoscano convenientemente la loro missione di paternità responsabile, sulla quale oggi a buon diritto tanto si insiste e che va anch’essa esattamente compresa. Essa deve considerarsi sotto diversi aspetti legittimi e tra loro collegati. In rapporto ai processi biologici, paternità responsabile significa conoscenza e rispetto delle loro funzioni: l’intelligenza scopre, nel potere di dare la vita, leggi biologiche che riguardano la persona umana. In rapporto alle tendenze dell’istinto e delle passioni, la paternità responsabile significa il necessario dominio che la ragione e la volontà devono esercitare su di esse. In rapporto alle condizioni fisiche, economiche, psicologiche e sociali, la paternità responsabile si esercita, sia con la deliberazione ponderata e generosa di far crescere una famiglia numerosa, sia con la decisione, presa per gravi motivi e nel rispetto della legge morale, di evitare temporaneamente od anche a tempo indeterminato, una nuova nascita. Paternità responsabile comporta ancora e soprattutto un più profondo rapporto all’ordine morale chiamato oggettivo, stabilito da Dio e di cui la retta coscienza è vera interprete. L’esercizio responsabile della paternità implica dunque che i coniugi riconoscano i propri doveri verso Dio, verso se stessi, verso la famiglia e verso la società, in una giusta gerarchia dei valori. Nel compito di trasmettere la vita, essi non sono quindi liberi di procedere a proprio arbitrio, come se potessero determinare in modo del tutto autonomo le vie oneste da seguire, ma, al contrario, devono conformare il loro agire all’intenzione creatrice di Dio, espressa nella stessa natura del matrimonio e dei suoi atti, e manifestata dall’insegnamento costante della chiesa»[20].

Che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no, la nostra vita è un’opera d’arte. «Per viverla come esige l’arte della vita dobbiamo – come ogni artista, quale che sia la sua arte – porci delle sfide difficili […]. Dobbiamo scegliere obiettivi che siano (almeno nel momento in cui li scegliamo) ben oltre la nostra portata»[21]. Amare, in senso cristiano, significa vivere continuamente un esodo senza ritorno, uscendo da se stessi, rendendosi disponibili al sacrificio, alla rinuncia, all’affermazione del bene supremo e all’esercizio della libertà autentica che ci porta a donare tutto quello che siamo e abbiamo, senza trattenere nulla.

L’arte della vita, come partecipazione al potere creativo di Dio, non esime gli sposi da scelte difficili e coraggiose, dalla necessità di porre in essere atti di libertà e stili di vita radicati nel Vangelo e nei valori cristiani. Così, per gli sposi cristiani – e per tutti i coniugi – trasmettere la vita significa anche curare la vita, custodirla dal suo primo sorgere sino al suo compimento. Perché l’entrata, la permanenza e l’uscita dalla vita per la persona è sempre dono e compito – progetto – attraverso cui i coniugi partecipano all’amore creativo e trinitario. Se la Vita si è resa visibile in Cristo (cf. 1Gv 1,2), i coniugi non possono non avere lo sguardo rivolto verso di lui che è il Verbo della vita e prendere  coscienza che essi partecipano di quel dono trinitario che si è rivelato nella morte e risurrezione del Figlio di Dio. Da qui il bisogno di rispettare la natura e la finalità dell’atto matrimoniale[22], nella consapevolezza che il dono dell’amore coniugale, nel pieno rispetto del processo generativo, significa riconoscersi non arbitri delle sorgenti della vita umana, bensì ministri del disegno stabilito dal creatore. Non abbiamo noi, infatti, un potere illimitato e arbitrario – strumentale – sulle nostre facoltà generative[23]. È necessario trasmettere la vita in modo consapevole, attraverso una giusta ed equilibrata pianificazione familiare che tenga conto dei profondi cambiamenti culturali, sociali, politici, economici e psicologici tuttora in atto, come pure dello squilibrio e del divario tra Nord e Sud del mondo e dei diversi indici di natalità del pianeta Terra.

Creati a immagine e somiglianza della Trinità, siamo chiamati ad essere custodi del creato e testimoni dell’amore di Dio. Il dono dei figli, secondo questa prospettiva, apre a una comprensione più grande del senso della vita e dell’amore: «I vostri figli non sono i vostri figli. Sono i figli e le figlie dell’ardore che la Vita ha per se stessa. Essi vengono attraverso di voi, ma non da voi. E benché vivano con voi non vi appartengono. Potete dar loro il vostro amore ma non i vostri pensieri, poiché essi hanno i loro propri pensieri. Potete dar ricetto ai loro corpi ma non alle loro anime, poiché le loro anime dimorano nella casa del domani, che neppure in sogno vi è concesso di visitare. Potete sforzarvi di essere simili a loro, ma non cercate di rendere essi simili a voi. Poiché la vita non va mai indietro né indugia con l’ieri. Voi siete gli archi da cui i vostri figli come frecce vive sono scoccate»[24].

Il matrimonio avrà il carattere di vocazione nella misura in cui i coniugi si interrogano davanti a Dio per verificare se siano chiamati all’unione sponsale e se possiedono le qualità necessarie per farlo, aprendosi al dono della vita. I principali criteri di scelta non possono essere la ricchezza, il prestigio sociale o la bellezza esteriore, quanto piuttosto le qualità che permettono di contare su un amore fedele e responsabile, sul mutuo rispetto della coscienza e sull’assenza di ogni tipo di manipolazione che potesse sminuire la propria libertà interiore. Per chi vede il matrimonio come vocazione, una questione essenziale è se il partner sarà davvero un buon genitore per i figli sperati!

Per una giusta paternità e maternità responsabile, è bene riflettere e decidere insieme, consapevoli che la trasmissione della vita umana trascende la stessa fertilità biologica e l’istinto di sopravvivenza insito in ciascuno di noi. Certamente, la trasmissione responsabile della vita ha senso solo per coloro che considerano la vocazione parentale come un senso o fine intimo dell’alleanza coniugale e dell’amore matrimoniale. Per responsabilità s’intende «la capacità e la prontezza di fondo a rispondere insieme e prendere insieme una decisione su quanti bambini dovrebbero volere e a quali intervalli».

Quella dei coniugi sarà una responsabilità cristiana «se essi prendono una decisione che possa essere offerta a Dio come risposta grata alla sua chiamata e a tutti i suoi doni»[25], tenendo conto «sia del proprio bene personale che di quello dei figli, tanto di quelli nati che di quelli che si prevede nasceranno, valutando le condizioni di vita del proprio tempo e del proprio stato di vita, tanto nel loro aspetto materiale, che spirituale; e, infine, salvaguardando la scala dei valori del bene della comunità familiare, della società temporale e della stessa Chiesa. Questo giudizio in ultima analisi lo devono formulare, davanti a Dio, gli sposi stessi. Però nella loro linea di condotta i coniugi cristiani siano consapevoli che non possono procedere a loro arbitrio, ma devono sempre essere retti da una coscienza che sia con forme alla legge divina stessa; e siano docili al magistero della Chiesa, che interpreta in modo autentico quella legge alla luce del Vangelo. Tale legge divina manifesta il significato pieno dell’amore coniugale, lo protegge e lo conduce verso la sua perfezione veramente umana»[26].

 

 

3. Il santuario della vita: la sfida educativa

 

Se la Chiesa vive il difficile compito di annunciare il Vangelo della vita e di essere al servizio della vita[27], tale missione coinvolge l’intero popolo di Dio e in speciale modo i coniugi cristiani. In tal senso, la famiglia è il santuario della vita, la dimora in cui si educa alla cultura della vita. Dunque, decisiva è la responsabilità della famiglia. Si tratta di una «responsabilità che scaturisce dalla sua stessa natura – quella di essere comunità di vita e di amore, fondata sul matrimonio»[28] – e dalla sua «missione di custodire, rivelare e comunicare l’amore»[29]. In gioco c’è l’Agapé, quell’Amore divino – trinitario – per il quale i genitori sono costituiti collaboratori e quasi interpreti nel trasmettere la vita e nell’educarla secondo il progetto del Padre, fonte della vita.

«È quindi l’amore che si fa gratuità, accoglienza, donazione: nella famiglia ciascuno è riconosciuto, rispettato e onorato perché è persona e, se qualcuno ha più bisogno, più intensa e più vigile è la cura nei suoi confronti. La famiglia è chiamata in causa nell’intero arco di esistenza dei suoi membri, dalla nascita alla morte»[30]. Essa è veramente «il santuario della vita […], il luogo in cui la vita, dono di Dio, può essere adeguatamente accolta e protetta contro i molteplici attacchi a cui è esposta, e può svilupparsi secondo le esigenze di un’autentica crescita umana»[31]. Per questo, «determinante e insostituibile è il ruolo della famiglia nel costruire la cultura della vita. Come chiesa domestica, la famiglia è chiamata ad annunciare, celebrare e servire il Vangelo della vita. È un compito che riguarda innanzitutto i coniugi, chiamati ad essere trasmettitori della vita, sulla base di una sempre rinnovata consapevolezza del senso della generazione, come evento privilegiato nel quale si manifesta che la vita umana è un dono ricevuto per essere a sua volta donato. Nella procreazione di una nuova vita i genitori avvertono che il figlio “se è frutto della loro reciproca donazione d’amore, è, a sua volta, un dono per ambedue, un dono che scaturisce dal dono»[32].

È soprattutto attraverso l’educazione dei figli che la famiglia assolve la sua missione di annunciare il Vangelo della vita. «Con la parola e con l’esempio, nella quotidianità dei rapporti e delle scelte e mediante gesti e segni concreti, i genitori iniziano i loro figli alla libertà autentica, che si realizza nel dono sincero di sé, e coltivano in loro il rispetto dell’altro, il senso della giustizia, l’accoglienza cordiale, il dialogo, il servizio generoso, la solidarietà e ogni altro valore che aiuti a vivere la vita come un dono. L’opera educativa dei genitori cristiani deve farsi servizio alla fede dei figli e aiuto loro offerto perché adempiano la vocazione ricevuta da Dio. Rientra nella missione educativa dei genitori insegnare e testimoniare ai figli il vero senso del soffrire e del morire: lo potranno fare se sapranno essere attenti ad ogni sofferenza che trovano intorno a sé e, prima ancora, se sapranno sviluppare atteggiamenti di vicinanza, assistenza e condivisione verso malati e anziani nell’ambito familiare»[33].

Da non sottovalutare, in tale ottica, la fecondità dell’amore coniugale come servizio della famiglia alla vita in senso più ampio. La fecondità non è unicamente biologica né il servizio familiare alla vita si riduce ai figli dell’unità familiare. L’una e l’altra si aprono a orizzonti più vasti per abbracciare ogni realtà e situazione che abbiano bisogno di un’attenzione d’amore e di un servizio di donazione sia materno che paterno. In quest’ottica, la famiglia cristiana è aperta e impegnata per le cause dei più bisognosi. L’impegno della famiglia per la vita non può non tener conto dell’opzione preferenziale per i poveri richiamata più volte da Giovanni Paolo II[34]. Così, le politiche familiari che intendano ispirarsi alla visione cristiana della famiglia dovranno riflettere questa opzione preferenziale per le famiglie povere ed emarginate, in modo particolare per le famiglie di etnie emarginate dal punto di vista culturale, sociale, economico, politico, nonché per quelle ridotte alla povertà e con soggetti disabili fisici o psichici, per le famiglie con soggetti tossicodipendenti, carcerati, per le famiglie con anziani che subiscono emarginazione, per le famiglie di emigranti, profughi ed esiliati.

Formare alla cultura della vita significa prendere sul serio la sfida educativa della libertà ad ampio raggio e intenderla come il dinamismo stesso della vita, cioè come testimonianza di amore vero e disinteressato per i figli[35]. Educare al senso  cristiano della libertà significa formare alla scelta del bene più grande, autodeterminandosi nell’amore. In tal senso, la libertà è esse causa sui e la persona, nella sua unità reale, è il mediatore di se stessa, delle proprie scelte di vita. Là dove la libertà è realmente compresa, essa non è la facoltà di fare questo o quello, bensì la facoltà di decidere di sé e di fare se stesso, cioè di autopossedersi. È questa la sfida più urgente da proporre soprattutto alle nuove generazioni e a partire dall’ambito familiare: educare al senso della libertà sostanziale come autopossesso e autodeterminazione[36]. Siamo liberi nella misura in cui scegliamo il bene più grande e agiamo secondo la vocazione ricevuta. La libertà non è un semplice dato particolare della nostra esistenza, bensì un qualcosa che ci co-costituisce, proprio come l’Amore. È una libertà trascendentale nella quale sperimentiamo il nostro essere storia e facciamo il nostro vissuto[37]. Tuttavia, si tratta sempre di una libertà relativa: nella quale ci troviamo e che ci è stata donata. È, la nostra, una libertà creaturale, non onnipotente, che deve fare i conti con la fragilità, i limiti, e cercare di scoprire la stessa liminalità dell’esistenza come risorsa.

Il senso del generare è un’esperienza autentica di libertà e ci permette di comprendere che la vita non ha origine semplicemente da altra vita, bensì dall’Amore trinitario. L’amore dei coniugi dà la vita facendo nascere: e se è l’amore a far nascere, allora il dono dell’origine non è un abbandono, bensì un meraviglioso progetto di vita. È la relazione nell’amore ad aprirci al senso autentico della vita e della libertà. L’amore è auto-comunicazione del bene: educare alla vita e alla libertà significa, all’interno della famiglia, formare alla gratuità, cioè alla capacità di riconoscere il bene all’origine e come origine della nostra stessa esistenza. Si tratta altresì di testimoniare e di far capire ai propri figli – come a ogni persona d’altronde – che il bene è reale quando la libertà è suscitata, rispettata, alimentata, fino ad essere feconda e a trovare un senso di pienezza[38]. Il bene è reale quando genera comunione: perché fa incontrare le persone nella loro identità profonda e nel senso della loro vita, stabilendo legami irriducibili. La famiglia, dunque, santuario della vita, piccola Chiesa domestica, è anche l’irrinunciabile spazio di umanizzazione e di reciprocità comunionale, ove la libertà è sperimentata come “dono e compito” di sé per l’altro, e l’amore è vissuto come risposta al problema dell’esistenza umana: “Amo perché sono amato”.

 

P. Edoardo Scognamiglio, Ofm Conv.


[1] V.S. Solov’ëv, La Sofia. L’Eterna sapienza mediatrice tra Dio e il mondo, a cura di E. Treu, Cinisello Balsamo (Milano) 1997, 31.

[2] P.A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, a cura di N. Valentini, Cinisello Balsamo (Milano) 2011, 82.

[3] Ivi 85.

[4] Ivi 86.

[5] B. Häring, Liberi e fedeli in Cristo. Teologia morale per preti e laici. II. La verità vi farà liberi (Gv8,32), Cinisello Balsamo (Milano) 1989, 606-607.

[6] A tal proposito, afferma il Concilio Vaticano II: Dio, «volendo comunicare all’uomo una speciale partecipazione nella sua opera creatrice, benedisse l’uomo e la donna, dicendo loro: “crescete e moltiplicatevi” (Gen 1,28). Di conseguenza un amore coniugale vero e ben compreso e tutta la struttura familiare che ne nasce tendono, senza trascurare gli altri fini del matrimonio, a rendere i coniugi disponibili a cooperare coraggiosamente con l’amore del Creatore e del Salvatore che attraverso di loro continuamente dilata e arricchisce la sua famiglia. I coniugi sappiano di essere cooperatori dell’amore di Dio Creatore e quasi suoi interpreti nel compito di trasmettere la vita umana e di educarla; ciò deve essere considerato come missione loro propria» (GS 50).

[7] K. Gibran, Il Profeta, in Id., Tutte le poesie e i racconti, a cura di T. Pisanti, Roma 1993, 62-63.

[8] Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus caritas est (25-12-2005), n. 6 (EV 23,1550): «L’amore comprende la totalità dell’esistenza in ogni sua dimensione, anche in quella del tempo. Non potrebbe essere diversamente, perché la sua promessa mira al definitivo: l’amore mira all’eternità. Sì, amore è “estasi”, ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio».

[9] «Abbandonandosi al relativismo e allo scetticismo», spesso l’uomo «va alla ricerca di una illusoria libertà al di fuori della stessa verità»: (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor [6-8-1993], n. 1: EV 13,2534).

[10] Per approfondire l’aspetto della personalizzazione dell’essere umano attraverso l’amore divino, cf. E. Scognamiglio, Il volto dell’uomo. II. La risposta e le domande, Cinisello Balsamo (Milano) 2008.

[11] L’amore coniugale è «prima di tutto amore pienamente umano, vale a dire sensibile e spirituale. Non è quindi semplice trasporto di istinto e di sentimento, ma anche e principalmente è atto della volontà libera, destinato non solo a mantenersi, ma anche ad accrescersi mediante le gioie e i dolori della vita quotidiana; così che gli sposi diventino un cuor solo e un’anima sola, e raggiungano insieme la loro perfezione umana. È poi amore totale, vale a dire una forma tutta speciale di amicizia personale, in cui gli sposi generosamente condividono ogni cosa, senza indebite riserve o calcoli egoistici. Chi ama davvero il proprio consorte, non lo ama soltanto per quanto riceve da lui, ma per se stesso, lieto di poterlo arricchire del dono di sé. È ancora amore fedele ed esclusivo fino alla morte. Così infatti lo concepiscono lo sposo e la sposa nel giorno in cui assumono liberamente e in piena consapevolezza l’impegno del vincolo matrimoniale. Fedeltà che può talvolta essere difficile, ma che sia sempre possibile, e sempre nobile e meritoria, nessuno lo può negare. L’esempio di tanti sposi attraverso i secoli dimostra non solo che essa è consentanea alla natura del matrimonio, ma altresì che da essa, come da una sorgente, scaturisce una intima e duratura felicità. È infine amore fecondo, che non si esaurisce tutto nella comunione dei coniugi, ma è destinato a continuarsi, suscitando nuove vite. “Il matrimonio e l’amore coniugale sono ordinati per loro natura alla procreazione ed educazione della prole. I figli infatti sono il preziosissimo dono del matrimonio e contribuiscono moltissimo al bene degli stessi genitori”»: (Paolo VI, Lettera enciclica Humanae vitae [25-7-1968], n. 9: EV 3,595).

[12] Benedetto  XVI, Lettera enciclica Deus caritas est (25-12-2005), n. 10 (EV 23,1555): «L’eros di Dio per l’uomo […] è insieme totalmente agape. Non soltanto perché viene donato del tutto gratuitamente, senza alcun merito precedente, ma anche perché è amore che perdona».

[13] L’amore liquido è privo di prospettive a lungo termine e di progettualità: si accontenta di relazioni part-time e tende a considerare i figli come oggetto di consumo emotivo. Ogni relazione, nella coppia, deve essere intrapresa in piena coscienza e con giudizio, senza improvvisazioni e per una componente semplicemente emotiva, secondo la logica dell’amore a prima vista o istantaneo. Su tale aspetto, cf. Z. Bauman, Liquid Love. On the Frailty of Human Bonds, Cambridge-Oxford 2003 [Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, a cura di S. Minucci, Roma-Bari 2006]. Belle anche le riflessioni di E. Fromm, The Art of Loving [1957], London 1995 [L’arte di amare, a cura di M. Damiani, Milano 2009].

[14] Platone, Simposio, 206D-E, in Id., Tutte le opere, II, a cura di E.V. Maltese e altri, Roma 1997, 395-397.

[15] Bauman, Amore liquido, 11.

[16] E. Lévinass, Etica e infinito. Il volto dell’altro come alterità etica e traccia dell’infinito [1982], Roma 1984.

[17] «L’amore coniugale rivela massimamente la sua vera natura e nobiltà quando è considerato nella sua sorgente suprema, Dio, che è “Amore”, che è il Padre “da cui ogni paternità, in cielo e in terra, trae il suo nome”. Il matrimonio non è quindi effetto del caso o prodotto della evoluzione di inconsce forze naturali: è stato sapientemente e provvidenzialmente istituito da Dio creatore per realizzare nell’umanità il suo disegno di amore. Per mezzo della reciproca donazione personale, loro propria ed esclusiva, gli sposi tendono alla comunione delle loro persone, con la quale si perfezionano a vicenda, per collaborare con Dio alla generazione e alla educazione di nuove vite. Per i battezzati, poi, il matrimonio riveste la dignità di segno sacramentale della grazia, in quanto rappresenta l’unione di Cristo e della chiesa»: (Paolo VI, Lettera enciclica Humanae vitae [25-7-1968], n. 8: EV 3,594).

[18] La sterilità di Rebecca, ad esempio, è superata solo dopo una particolare preghiera rivolta a Dio da Isacco (cf. Gen 25,21). Ciò è avvenuto anche per Rachele, la sposa promessa di Giacobbe, la quale dubita in un primo momento per via della sua mancanza di progenie. La sua richiesta avviene con un tono drammatico: «Rachele, vedendo che non le era concesso di procreare figli a Giacobbe, divenne gelosa della sorella e disse a Giacobbe: “Dammi dei figli, se no io muoio!”. Giacobbe s’irritò contro Rachele e disse: “Tengo forse io il posto di Dio, il quale ti ha negato il frutto del grembo?”» (Gen 30,1-2).

[19] Cf. H.W. Wolff, Antropologia dell’Antico Testamento, Brescia 1993, 227-237.

[20] Paolo VI, Lettera enciclica Humanae vitae [25-7-1968], n. 10: EV 3,596.

[21] Z. Bauman, L’arte della vita, Roma-Bari 2009, 27.

[22] «Questi atti, con i quali gli sposi si uniscono in casta intimità e per mezzo dei quali si trasmette la vita umana, sono, come ha ricordato il recente concilio, “onesti e degni”, e non cessano di essere legittimi se, per cause mai dipendenti dalla volontà dei coniugi, sono previsti infecondi, perché rimangono ordinati ad esprimere e consolidare la loro unione. Infatti, come l’esperienza attesta, non da ogni incontro coniugale segue una nuova vita. Dio ha sapientemente disposto leggi e ritmi naturali di fecondità che già di per sé distanziano il susseguirsi delle nascite. Ma, richiamando gli uomini all’osservanza delle norme della legge naturale, interpretata dalla sua costante dottrina, la chiesa insegna che qualsiasi: atto matrimoniale deve rimanere aperto alla trasmissione della vita. Tale dottrina, più volte esposta dal magistero della chiesa, è fondata sulla connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo. Infatti, per la sua intima struttura, l’atto coniugale, mentre unisce con profondissimo vincolo gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite, secondo leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna. Salvaguardando ambedue questi aspetti essenziali, unitivo e procreativo, l’atto coniugale conserva integralmente il senso di mutuo e vero amore ed il suo ordinamento all’altissima vocazione dell’uomo alla paternità. Noi pensiamo che gli uomini del nostro tempo sono particolarmente in grado di afferrare quanto questa dottrina sia consentanea alla ragione umana»: (Paolo VI, Lettera enciclica Humanae vitae [25-7-1968], n. 11: EV 3,597).

[23] Cf. ivi 13: EV 3,599.

[24] Gibran, Il Profeta, 63-64.

[25] Häring, Liberi e fedeli in Cristo, II, 627.

[26] GS 50.

[27] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Evangelium vitae (25-3-1995), n. 79 (EV 14,2429-2432): «Siamo il popolo della vita perché Dio, nel suo amore gratuito, ci ha donato il Vangelo della vita e da questo stesso Vangelo noi siamo stati trasformati e salvati. Siamo stati riconquistati dall’“autore della vita” (At 3,15) a prezzo del suo sangue prezioso (cf. 1Cor 6,20; 7,23; 1Pt 1,19) e mediante il lavacro battesimale siamo stati inseriti in lui (cf. Rm 6,4-5; Col 2,12), come rami che dall’unico albero traggono linfa e fecondità (cf. Gv 15,5). Rinnovati interiormente dalla grazia dello Spirito, “che è Signore e dà la vita”, siamo diventati un popolo per la vita e come tali siamo chiamati a comportarci. Siamo mandati: essere al servizio della vita non è per noi un vanto, ma un dovere, che nasce dalla coscienza di essere “il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le sue opere meravigliose” (1Pt 2,9). Nel nostro cammino ci guida e ci sostiene la legge dell’amore: è l’amore di cui è sorgente e modello il Figlio di Dio fatto uomo, che “morendo ha dato la vita al mondo”. Siamo mandati come popolo. L’impegno a servizio della vita grava su tutti e su ciascuno. È una responsabilità propriamente “ecclesiale”, che esige l’azione concertata e generosa di tutti i membri e di tutte le articolazioni della comunità cristiana. Il compito comunitario però non elimina né diminuisce la responsabilità della singola persona, alla quale è rivolto il comando del Signore a “farsi prossimo” di ogni uomo: “Và e anche tu fa’ lo stesso” (Lc 10,37). Tutti insieme sentiamo il dovere di annunciare il Vangelo della vita, di celebrarlo nella liturgia e nell’intera esistenza, di servirlo con le diverse iniziative e strutture di sostegno e di promozione».

[28] Ivi 92: EV 14,2472.

[29] Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale Familiaris consortio (22-11-1981), n. 17: EV 7,1581.

[30] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Evangelium vitae (25-3-1995), n. 92: EV 14,2472-2473.

[31] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Centesimus annus (1-5-1991), n. 39: EV 13,199.

[32] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Evangelium vitae (25-3-1995), n. 92: EV 14,2473-2474.

[33] Ivi: EV 14,2475.

[34] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Familiaris consortio (22-11-1981), n. 47: EV 7,1673-1674.

[35] Si tratta di intendere l’educazione come testimonianza dell’amore creativo e della fedeltà coniugale. Cf. T. Goffi – G. Piana (edd.), Corso di morale. III. Koinonia. Etica della vita sociale, Brescia 1991,328-332; Comitato per il progetto culturale della Cei (cur.), La sfida educativa. Rapporto-proposta sull’educazione, prefazione di C. Ruini, Roma-Bari 2009, 3-24.

[36] Cf. K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di cristianesimo, Cinisello Balsamo (Milano) 1990, 59-64.

[37] Potremmo dire che la famiglia svolge, come ruolo educativo, un servizio alla libertà che non può accettare alcuna forma di individualismo sostenibile, mentre è in grado di condividere una certa forma di personalismo sostenibile. La libertà è – energia di – adesione a dei valori fondamentali e non è una realtà estrinseca al soggetto, bensì intima a noi stessi. La libertà non è semplicemente l’affermazione della propria autonomia ma energia di adesione a valori essenziali. Non è la libertà, in senso kantiano, emancipazione da certi valori. Questo modo di pensare e di agire ha generato una certa ipertrofia della libertà come autonomia, determinando la stessa libertà come “revocabilità di tutte le scelte”. In proposito, cf. U. Galimberti, Senza l’amore la profezia è morta. Il prete oggi, a cura di G. Pasquale, Assisi (Perugia) 2010, 99-100.

[38] Cf. R. Mancini, L’uomo e la comunità, Magnano (Biella) 2004, 73-102.

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