Prospettive teologiche per il dialogo tra le culture e il pluralismo religioso
Le comunità cristiane delle origini hanno maturato una coscienza ecclesiale della fede a partire dall’evento della morte e risurrezione di Gesù, proclamato (nel kerygma) Signore e Messia (Kyrios e Christos). L’approccio al mistero di Gesù e alla sua missione è stato, inizialmente, economico-salvifico, cioè diretto a evidenziare l’esperienza di salvezza che il Padre ha operato nel Figlio per la potenza dello Spirito Santo. Gli autori del NT hanno creato diversi generi letterari per annunziare il messaggio della morte e risurrezione di Cristo: vangeli, epistole, testimonianze, atti, inni, lettere pastorali e parenesi sono al servizio del kerygma, l’annuncio del Cristo morto e risorto. La costante rimaneva l’esperienza del Cristo espressa nella regula fidei o tradizione viva della Chiesa.
L’espressione Gesù è il Signore è semplicemente un’invocazione, un annuncio fluido. Si era poi sviluppato, evoluto, cristallizzato, a motivo dei confronti con culture e tradizioni diverse, a contatto con il mondo ellenico, nonché con il giudaismo e le esperienze di fede delle comunità sparse fuori dal territorio di Gerusalemme. Sono importanti i contesti in cui la fede è stata testimoniata e vissuta. È lecito affermare che nei secoli I-III d.C. si è formata l’ortodossia, cioè la koinonia, paragonabile a quella zona dentro l’ottagono formato dal kerygma, dal depositum fidei (una prima evoluzione del kerygma), dalla testimonianza della Scrittura (soprattutto per la reinterpretazione cristologica dell’AT: Gesù è quel Messia atteso da Israele), dalla lex orandi (la preghiera liturgica della Chiesa, in particolare l’eucaristia e il battesimo), dal sensus fidelium (è il crisma posseduto dai credenti, cf. 1Gv 1,1; 2,20.29), dalla ratio (intelligenza della fede con la quale Paolo, Giovanni e gli altri apostoli interpretano gli eventi di Gesù e le nuove situazioni in cui si pone l’annuncio), dai segni dello Spirito nella storia (cf. la pentecoste, il sogno di Pietro, etc…) e dall’autorità apostolica e conciliare (cf. il concilio di Gerusalemme).
Certamente occorre prendere visione già delle diverse teologie e linee interpretative presenti nel NT e poi nelle comunità cristiane. Ciò lascia intendere una forte vivacità di pensiero, di idee, di esperienze del Cristo. Come pure il bisogno di nuove interpretazioni del Vangelo e della pasqua di Gesù. Il linguaggio biblico, poi, dovrà fare i conti con le culture del tempo. Il linguaggio non riguarda solo le parole e le traduzioni, bensì uno stile di vita, un vissuto di fede che s’incarna nelle Chiese attraverso le liturgie, le catechesi, la missione, il culto, l’etica, la testimonianza, i segni dei tempi, la visione della storia, l’attesa del Signore (parusìa), etc… Variano le terminologie, l’uso di parole e segni convenzionali, la semantica di alcuni vocaboli fondamentali, come ad esempio, quello di persona e sostanza. Difficile spiegare, soprattutto in ambito ellenistico, il significato della risurrezione della carne o il mistero dell’incarnazione o della passione di Cristo[1].
Di conseguenza, la possibilità di rileggere alcune immagini di Gesù nel cristianesimo primitivo richiede di assumere alcune premesse – o anche elementi o fattori – di ordine metodologico e di carattere storico, ermeneutico e teologico-culturale. Questi elementi-fattori porteranno alla formazione dell’ortodossia o anche koinonia, frutto del passaggio dal kerygma al dogma, nonché dell’incontro-scontro tra fede, ragione e cultura. Ci accorgeremo come una definizione dogmatica non è semplicemente un costrutto razionale o fideistico, bensì frutto del processo storico, teologico ed ermeneutico della fede nascente. «La storia dei dogmi è fatta dall’incontro del dato evangelico e della regola della fede con l’incessante interrogazione che emerge, di epoca in epoca, dalla coscienza e dalla ragione umana»[2].
1. Alle origini della fede cristiana: gli elementi o fattori della comunione
La considerazione di questi fattori sarà importante per comprendere il processo di evoluzione della fede e il passaggio dal kerygma – il semplice annuncio della passione, morte e risurrezione di Gesù – al dogma (elaborazioni sistematiche e dottrinali del messaggio genuino della pasqua all’interno delle comunità cristiane). Storia e fede camminano sempre insieme. L’evento Gesù è carico di significato escatologico.
Ci accorgeremo, inoltre, come i volti e le immagini di Gesù che prendono forma dagli scritti degli autori cristiani antichi, nonché dalla prassi liturgica del tempo, dai testi letterari, filosofici, teologici e spirituali, non necessariamente sono in contrasto. Pur non essendo sempre unanimi, soprattutto i Padri della Chiesa, all’interno dell’unica e viva tradizione di fede, evidenzieranno dimensioni ben precise del vissuto di Gesù e della fede trinitaria. Gli approcci cristologici alla figura di Gesù tenderanno a porre in risalto alcuni aspetti della salvezza come anche l’importanza della sua passione e il mistero stesso dell’incarnazione e della risurrezione, richiamando la sua identità filiale e divina. Questo lungo processo di rielaborazione della fede è noto, comunemente, come passaggio dal kerygma al dogma, cioè da una posizione più fluida a una più solida.
1.1. L’annuncio della fede o kerygma
La prima premessa (o fattore) riguarda il punto di partenza: il kerygma. È il semplice racconto di un evento: Gesù è risorto, è il Signore, il Cristo (cf. At 2,22-24.32-33.36). Come genere letterario è una narratio: con linguaggio semplice ed evocativo, diretto e non riflesso, si annuncia un fatto importante veramente accaduto. La fede nella risurrezione di Gesù si esprime a un livello molto fluido, sfumato, senza troppi puntellamenti dogmatici. Il kerygma o annuncio del Cristo morto e risorto è paragonabile, soprattutto per la comprensione dei suoi effetti, al boato provocato da un’esplosione. Gli effetti appaiono devastanti: è necessario, metaforicamente, correre ai ripari. Innanzi all’annuncio della pasqua bisogna prendere posizione, cioè convertirsi o, altrimenti, rifiutare la buona novella[3].
L’annuncio della pasqua è già una teologia: il Risorto è proclamato dal credente. La risurrezione diviene la formidabile sterzata che fa mutare le prospettive e i contenuti di qualsiasi approccio storico e antropologico alla figura e all’opera di Gesù, compresa la relazione con Dio. Nel discorso petrino (cf. At 2,14-41), ai vv. 22-28, è posto l’annuncio della risurrezione alla comunità d’Israele invitata ad ascoltare il kerygma del Cristo. In questo discorso si ha una designazione messianica di Gesù e l’approvazione del suo operato da parte di Dio come profeta escatologico. Attraverso il Nazareno, Dio stesso ha operato in mezzo a Israele azioni potenti (cf. Lc 5,17; 7,16; 8,39). Gesù è elevato alla destra di Dio: alla risurrezione, quindi, è correlata l’ascensione. Cristo è il glorificato. All’inizio della fede pasquale vi fu la narratio, il semplice racconto delle gesta salvifiche di Gesù. In seguito, si assisterà al processo di cristallizzazione della fede proprio attraverso le omologie, gli inni, le prime confessioni (cf. Gv 20,28). In At 10,37-38) abbiamo un esempio del contenuto del kerygma: al centro troneggia la persona di Gesù crocifisso e risorto. Egli morì per i nostri peccati, fu sepolto, risuscitò il terzo giorno, secondo le Scritture.
Nel kerygma si evidenziano questi elementi: la testimonianza per l’azione vivificante dello Spirito Santo; l’arrivo dei giorni ultimi in seguito all’effusione dello Spirito su Israele; la costituzione di Gesù come Signore e Messia; l’ascensione di Gesù al cielo alla destra di Dio; tali eventi rientrano nel piano di Dio, secondo le Scritture, per la salvezza dei nostri peccati; il Risorto è come il nuovo Mosè, come il Figlio dell’uomo che verrà alla fine dei tempi sulle nubi del cielo (cf. Dan 7); la salvezza è data a quanti credono alla Parola (cf. At 13,26). Si afferma un rapporto di continuità nella discontinuità – o anche di discontinuità nella continuità – tra l’esperienza di salvezza operata da Dio in mezzo a Israele e l’evento definitivo e nuovo della pasqua di Gesù. Il kerygma darà vita a formule e pronunciamenti sempre più evoluti, cristallizzati.
Si passerà dalla semplice narratio (Gesù è il Signore, è risorto) alle formule dottrinali più evolute (Gesù è il salvatore del mondo, il capo, l’agnello, il Figlio di Dio, il Logos). Ciò avverrà con l’uso dell’argumentatio e di formule concettuali definite propositio. Un esempio di argomentazione lì dove Paolo vuole affermare che in Cristo la giustizia antica della Torah è stata messa in ombra e che venuto il Messia è terminata la funzione della Legge (cf. Rm 3,7; Gal 3; 2Cor 3,9-11). Gli argomenti addotti per tale scopo sono di natura biblica, anche se il principio ermeneutico che muove l’intera riflessione è l’esperienza pasquale del Risorto sulla via di Damasco. Per la propositio si vuole fare riferimento alla ratio teologica. Si tratta, in quest’ultimo caso, della lettura teologica della storia in Cristo. La Lettera agli Ebrei, ad esempio, presenta dei passaggi intellettivi per far comprendere il superamento del sacerdozio levitico in Cristo. Dunque, mutato il sacerdozio, è cambiata anche la legge (cf. Eb 7,8).
1.2. La “Tradizione viva” o regula fidei
La seconda premessa è relativa al contesto ecclesiale e liturgico-sacramentale: la regola della fede è maturata nelle comunità vive che hanno fatto l’esperienza del Cristo crocifisso e risorto. I simboli battesimali, le preghiere eucaristiche e i vari inni liturgici ne sono uno esempio concreto e una testimonianza da non sottovalutare.
Il tessuto della fede cristiana è innanzitutto liturgico-battesimale, nonché eucaristico. Gli stessi inni liturgici che troviamo negli scritti paolini e deutero paolini non sarebbero comprensibili senza il riferimento alla prassi sacramentale delle comunità cristiane primitive (cf. Fil 2,6-11). È il caso di riconoscere lo stretto legame tra ortodossia e ortoprassi. Ben noto il detto: lex orandi, lex credendi, lex vivendi[4]. Si può parlare, così della “Tradizione viva” della Chiesa. Di là del valore apologetico e normativo del custodire e del trasmettere la fede, funzioni essenziali nella Chiesa, occorre domandarsi quale è il compito di ciascun credenti innanzi a questo impegno. Sì, perché quando parliamo della “Tradizione viva” della Chiesa intendiamo riferirci a quella pienezza della fede, nonché certezza di convinzione, sorretta dalla vita intera della comunità dei credenti. La Tradizione è viva in quanto portata da spiriti viventi e viventi nel tempo. Nella storia, infatti, i credenti incontrano dei problemi e acquisiscono delle risorse che li conducono a dare alla tradizione o alla verità ch’essa contiene le reazioni e le forme d’una realtà viva. Ciò comporta adattamento, reazione, crescita, fecondità, interpretazione, cioè una serie di processi ermeneutici e socio-culturali abbastanza complessi. La Tradizione è viva perché è tenuta da spiriti che ne vivono in una storia che è fatta d’attività, di problemi, di messe in discussione, di confronti, di nuovi apporti, di domande che esigono risposta.
Il punto di riferimento è il soggetto ecclesiale, cioè la Chiesa come organismo vivente. Però, la Chiesa non si limita affatto ad avere coscienza di se stessa, ma custodisce e realizza la memoria viva di quel che ha ricevuto e di cui il suo Sposo e Signore rinverdisce continuamente in lei la presenza e il vigore. La Chiesa non ha alcuna potenza creatrice di verità. Per questo, l’istinto soggettivo della fede deve sempre ricercare la propria via nel quadro oggettivo della verità, dei costumi, dei riti e dei comportamenti sui quali si accorda la Chiesa, questa comunione nello spazio che è anche comunione nel tempo[5]. Il contenuto della tradizione riguarda il Vangelo vissuto nella Chiesa come corpo vivente e tocca sia gli aspetti oggettivi del kerygma che quelli soggettivi.
Annunciare il Vangelo in un mondo che cambia vuol dire avvicinarsi al mistero della Parola attraverso il cuore pulsante della comunità che è lo Spirito di Cristo. Significa anche lasciarsi illuminare dalla regula fidei, dalla preghiera, dal vissuto liturgico di fede. Il carattere apostolico della tradizione non è qualcosa di statico o di meramente giuridico. Richiama lo stile di vita delle comunità missionarie nel tempo. La stessa lettura delle Scritture ha senso nel corpo della Chiesa e in riferimento a Cristo e al ministero della Parola. La tradizione viva della Chiesa ci offre il senso autentico del Vangelo e questi ne fonda la sua funzione[6].
1.3. Il depositum fidei
La terza è di carattere esclusivamente ermeneutico-teologico: l’identità e la missione di Gesù hanno assunto sempre un significato storico-salvifico per i credenti. Non troveremo negli scritti antichi degli studi sistematici sulla figura di Gesù. Il carattere economico-salvifico prevale sull’aspetto puramente dogmatico o sistematico della teologia come pensiero della fede o coscienza critica del vissuto di fede. Da qui la condizione di estrema fluidità – e quindi di fragilità – della fede nascente e dei vari tentativi d’inculturazione e di dialogo con le culture più disparate del tempo. Lì dove la regola della fede riceve una sua connotazione specifica – è il caso, ad esempio degli scritti di sant’Ireneo di Lione o di sant’Ippolito di Roma –, si tenderà comunque a far prevalere l’aspetto soteriologico su quello strettamente dogmatico. Saranno alcuni padri della Chiesa, tra cui proprio Ireneo di Lione, a parlare esplicitamente di “economia salvifica o divina”. La traduzione più moderna di tale espressione è quella di “teologia della storia”. La Scrittura si presenta come norma normans della vita delle comunità cristiane che hanno ricevuto il deposito della fede o tradizione viva degli apostoli[7] (cf. 1Tm 6,20-21; 2Tm 1,12-14; Gd 3).
Le lettere pastorali richiamano più volte il bisogno di custodire e di trasmettere il buon deposito (bonum depositum) della fede (cf. 1Tm 1,10; 6,3.20; Tt 2,1). Il termine greco, kalên parathêkên, lascia intendere che è un “bel deposito”. È la bellezza del Vangelo, lo splendore dell’annuncio del Crocifisso-Risorto. Le sane parole del deposito costituiscono la tradizione viva della Chiesa, la sana dottrina della fede.
L’immagine è proprio quella del depositum che, nel diritto romano antico, rappresentava una forma di contratto molto vincolante. In quanto, per esso, il depositario s’impegnava a custodire tale e quale l’oggetto affidatogli e a riconsegnarlo quando al depositante fosse piaciuto richiederlo. Il depositario disonesto o, comunque, infedele, che avesse alienato o si fosse pur minimamente servito a suo piacimento del deposito, era considerato come un ladro e punito con severità. Il principio giuridico del depositum era la bona fides in entrambi i contraenti. Paolo considera se stesso e Timoteo come depositari della verità del Vangelo. Essi sono custodi integri dell’annuncio in modo stabile e pieno. C’è una fedeltà a questa custodia che non deve venire meno, così come Paolo spera di restare fedele sino alla fine. A sigillo di garanzia vi è il dono dello Spirito, questa grande forza d’amore, di sapienza e di coraggio che gli anima il cuore e la mente.
L’atto del custodire non è qualcosa di passivo o di statico: perché lo Spirito è una persona viva che illumina, orienta, suggerisce, esorta, rivela, etc… La verità del Vangelo non è affidata a nessuna magia né a detentori di un culto arcaico o fossilizzato. È qualcosa che tocca il vissuto dei santi, degli apostoli, della Chiesa che è un corpo vivo. Gli strumenti umani e la stessa intelligenza non assicurano più di tanto la verità del Vangelo. Si è orientati dalla luce e dalla verità dello Spirito. È il principio della tradizione viva che nasce dalla Parola, anzi, che diviene il tessuto vivente della Parola. In effetti, Scrittura e Tradizione «costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa, e nell’adesione ad esso tutto il popolo santo, unito ai suoi pastori, persevera assiduamente nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione fraterna, nella frazione del pane e nelle orazioni (cf. At 2,42), in modo che, nel ritenere, praticare e professare la fede trasmessa, si stabilisca tra pastori e fedeli una singolare unità di spirito»[8].
1.4. La storia come locus theologicus
La quarta prende in seria considerazione i contesti storici e culturali, nonché religiosi e spirituali e geo-politici nei quali è avvenuto l’annuncio della pasqua. La storia stessa – non solo quella della Chiesa cattolica, ma altresì quella del mondo e dei popoli, delle culture e delle società limitrofe alle comunità cristiane – diviene un locus theologicus. Perché il contatto con il mondo e la società diviene uno sprone per i cristiani a pensare la fede, a sviluppare nuove categorie di pensiero, a cambiare i linguaggi, a integrarli con alcune categorie del tempo. C’è in atto uno scambio osmotico tra linguaggio della fede e linguaggio culturale del tempo. Così l’inculturazione della fede è strettamente legata all’evangelizzazione delle culture. C’è un dare e un avere, un donare e un ricevere che non umilia le culture né impoverisce l’esperienza di fede dei cristiani[9]. In quest’ottica sono da interpretare anche i concili ecumenici. Spesso, il dato scritturistico e l’esperienza viva del Cristo hanno dovuto fare i conti con le culture del tempo e le visioni religiose e socio-politiche in cui è avvenuto l’annuncio del Vangelo. La storia – quella ad ampio spettro, come pure quella particolare e locale – diviene luogo di salvezza, spazio in cui Dio continua a parlare e a offrire i suoi segni.
1.5. La “santa radice”: continuità nella discontinuità
La quinta premessa prova a focalizzare le radici giudaiche della vita di Gesù e la reinterpretazione cristologica delle Scritture presenti ai tempi di Gesù (più semplicemente l’AT o anche Primo Testamento). Attualmente, la ricerca storica su Gesù ha sottolineato proprio i suoi tratti giudaici[10].
Già gli scritti del NT (o anche Secondo Testamento) mettono in evidenza la rilettura cristologica dell’AT. Ci sono immagini, simboli, metafore, titoli del giudaismo antico che sono utilizzati per esprimere la missione e l’opera di Gesù, il Crocifisso-Risorto. Si assiste a una cristologizzazione della fede monoteistica e a una teologizzazione della cristologia. Così, Gesù è inteso non solo come il Servo, il Messia, il Signore, ma pure come il Figlio di Dio, nonché il Figlio dell’uomo. Senza questo recupero della radice ebraica del cristianesimo non avremmo la possibilità di conoscere l’identità e la missione di Gesù, come anche il ruolo della Chiesa, popolo di Dio, nel piano salvifico del Padre. A partire dalla santa radice dell’Israele di Dio, è possibile comprendere anche il ruolo della comunità cristiana nel mistero della salvezza.
Israele è il popolo eletto e svolge un ruolo decisivo per la salvezza di tutti i popoli. Perciò, la stessa Chiesa non potrà percepire la propria identità e originalità al di fuori della “santa radice” che è l’Israele di Dio (cf. Rm 11,16). L’apostolo delle genti considera la comunità dei credenti in Cristo come l’oleastro innestato sull’olivo e non, come apparirebbe naturale, la pianta buona innestata su quella selvatica. Di conseguenza, Paolo riconosce un ruolo centrale e fondamentale alla comunità giudaica in virtù della sua elezione. La comunità cristiana è, dunque, sostenuta, portata, dalla radice (cf. Rm 11,18). Vi è una priorità accordata a Israele che non può essere sottaciuta. Così, la stessa fede dei pagani è considerata quale strumento per suscitarne la gelosia, in ordine sia al ruolo che il popolo eletto continuerà ad avere nella storia, sia al futuro, escatologico innesto del popolo eletto sul proprio olivo (cf. Rm 11,24) nel tempo della finale reintegrazione dei due popoli (cf. Rm 11,25). Infatti, lo stesso rifiuto d’Israele diviene una condizione provvidenziale affinché la salvezza giunga a tutte le genti (cf. Rm 11,11). I pagani costituiranno, poi, il pungolo per l’ultima reintegrazione. È questo il misterioso disegno di Dio secondo Paolo a motivo della fedeltà all’alleanza. Perché i doni e la chiamata di Dio restano irrevocabili (cf. Rm 11,29).
La continuità tra la Chiesa nascente e Israele è manifesta, biblicamente, già nell’uso del linguaggio: per entrambi si riconosce l’uso dell’espressione “popolo di Dio”, “comunità radunata-convocata” (‘edah, in greco sunagôgê, e qahal, in greco ekklêsía). Il NT userà, per la comunità cristiana, il vocabolo ekklêsía per designare la comunità convocata da Dio mediante l’annuncio della fede pasquale (cf. 1Cor 1,2; 10,32; 11,16.22; 15,9; 15,9; 2Cor 1,1; Gal 1,13; 1Ts 2,14; 1Ts 1,4; 1Tm 3,5-15; At 20,28). Con i termini ebraici ‘am e gojî s’indicheranno, rispettivamente, il popolo eletto e gli altri popoli, resi in greco attraverso i vocaboli laós e éthnê, usati per qualificare il “popolo di Dio” (cf. 1Pt 2,10; Rm 9,25; 2Cor 6,16) da una parte e i pagani o le genti dall’altra. È giusto ritenere anche questo dato: il NT riconosce una certa continuità tra Israele e la Chiesa. Entrare nella Chiesa nascente significava, alle origini, partecipare della dignità d’Israele. Inoltre, come Israele, la comunità cristiana si percepirà quale popolo in cammino, in continuo esodo. La stessa scelta dei dodici diviene una realtà esplicativa e più che simbolico-formale per comprendere il rapporto tra il popolo di Abramo e i discepoli di Gesù Cristo. Vi è una continuità nell’unica alleanza tra Israele e Chiesa nascente. Entrambe le comunità sono il popolo “di Dio”.
Israele è proprietà di Dio, è il popolo che egli ha fatto e plasmato (cf. Is 43-44; Es 15,16), che ha acquistato per sé e preso per mano (cf. Ger 31,31; Eb 8,9), liberandolo dalla schiavitù d’Egitto (cf. Es 6,6; 15,13), destinandolo come sua eredità (cf. Dt 4,37). Israele è il popolo che Dio ha chiamato e separato da ogni altro popolo (cf. Lv 20,24-26), santificandolo per sé (cf. Lv 22,32-34). Vi è un rapporto singolare tra Israele e Dio ben espresso da metafore, simboli, segni, paragoni. Si tratta d’una relazione che è stata sperimentata come salvezza, liberazione, incontro, promessa, elezione, chiamata. Israele è “di Dio”, e Dio è il “Dio d’Israele”. Da qui le forti suggestioni del linguaggio biblico: Israele è il partner dell’alleanza, la vigna del Signore (cf. Is 5,1-7), il gregge (cf. Is 40,11), il servo (cf. Is 41,8), il figlio (cf. Os 11,1), la sposa (cf. Os 1-3) del Signore. Tuttavia, queste stesse immagini, sia nel NT che nella tradizione cristiana antica, saranno utilizzate per designare la Chiesa (cf. LG 6).
La profonda unità tra Israele e la Chiesa porta alcuni teologi a parlare d’una sola alleanza all’interno della quale s’allarga l’orizzonte storico di Gesù Cristo. Israele resta il popolo eletto, all’interno della cui alleanza si situerebbe l’evento Gesù Cristo come dilatazione dell’evento di grazia voluto da Dio nella chiamata d’Israele. Questa lettura dell’unica alleanza – secondo la quale Israele è la radice e la Chiesa l’albero con i suoi rami – presenta due grandi rischi: favorire la vecchia tesi della sostituzione (la Chiesa realizza compiutamente ciò che è implicito in Israele, e perciò ne prende il posto nel mistero della redenzione); ridurre la novità cristiana, cuore del Vangelo, a una dimensione puramente quantitativa della salvezza (Cristo è motivo dell’ingresso dei pagani nel mistero di Dio rispetto alla salvezza già avviata con Israele). La tesi dell’unicità dell’alleanza favorisce gli elementi di continuità tra la stirpe di Abramo e la comunità dei credenti in Cristo, però nega i fattori (storici, teologici, biblici, spirituali e culturali) di discontinuità dell’evento Cristo (passione, morte e risurrezione).
Occorre, allora, riconoscere una complessa manifestazione della storia della salvezza che intreccia la vocazione di Israele con la chiamata della Chiesa e il destino di tutti i popoli della terra. Ecco, dunque, il filo di continuità tra Israele e la comunità dei cristiani: vi è la “santa radice” come punto di origine, garanzia di un futuro e alimento e sostentamento per la vita presente. Certamente, la questione sul “come pensare” la relazione tra il popolo del patto e la comunità di Gesù è questione tutt’ora aperta che ha visto impegnati santi e teologi, Padri della Chiesa e uomini di pensiero d’ogni secolo e tradizione culturale. Un dato è certo fin dall’inizio: la memoria della Chiesa (la sua identità) si annullerebbe al di fuori della santa radice d’Israele. Perché Dio non ha divelto le radici dell’albero, ma ha solo tagliato alcuni rami secchi e senza vita. La radice (Israele) rimane, dunque, valida e santa (cf. Rm 11,16): essa rappresenta i patriarchi d’Israele, dai quali ha avuto inizio la storia della salvezza[11].
1.6. La parusìa
La sesta premessa o fattore assume la prospettiva escatologica di fondo che è il cuore – motore o aspetto dinamico – del cristianesimo nascente: i cristiani attesero l’avvento o manifestazione gloriosa del Signore risorto come qualcosa di imminente, di prossimo (è la parusìa). Né è prova il testo paolino della Prima Lettera ai Tessalonicesi. Il tempo (kairós) sembra accorciarsi: la salvezza è prossima. Successivamente, a questo processo di escatologizzazione del tempo e della storia, del vivere civile, politico e sociale – che farà cantare e gridare ai cristiani Maranathà, vieni Signore Gesù! –, subentrerà un dinamismo inverso, quello della de-escatologizzazione del tempo e dello stesso cristianesimo. Ne dà testimonianza la Seconda Lettera ai Tessalonicesi, ove i credenti in Cristo che vivono a Tessalonica sono chiamati sì a preparare l’avvento del Signore – il giorno della sua venuta – ma altresì a non trascurare l’impegno quotidiano, tra cui il lavoro, la giustizia, le opere buone. In questa dinamica o tensione occorre rileggere anche la Prima e la Seconda Lettera di Pietro[12].
1.7. La ratio o ragione teologica
La settima premessa pone attenzione alle sfide culturali dei primi tre secoli del cristianesimo nascente: in gioco c’è il concetto ellenistico di Logos – che in parte sarà assunto in ambito teologico –, come pure posizioni alquanto eterodosse circa la figura e l’opera di Gesù, con particolare attenzione alla gnosi, al docetismo, all’ebionismo, etc… Sarà attraverso l’uso della ratio o ragione teologica che si renderà sempre più organico e sistematico il messaggio o annuncio della salvezza compiutosi nella pasqua di Gesù e con Gesù. Infatti, si passerà dal primo annuncio (il semplice kerygma o narratio o anche racconto del Cristo morto e risorto) – forma fluida della fede nascente – a una vera e propria riflessione trinitaria, quindi organizzata, della vita e dell’opera di Gesù, il Figlio di Dio, in seno alle comunità ecclesiale (il dogma).
L’uso della ragione critica è da sempre testimoniata anche nelle Sacre Scritture: lo stesso Paolo mette in relazione con la tecnica della tipologia la figura di Cristo e quella di Adamo, o con riferimenti allegorici e simbolici al rapporto Israele-Chiesa. Conta molto, in questo contesto, l’autorità apostolica e conciliare, il fatto cioè che le comunità cristiane inizino a confrontarsi sugli elementi essenziali del kerygma attorno al quale strutturare la fede e cercare di raccogliere le testimonianze più importanti e autentiche (tradizione orale, vangeli, omelie, scritti, atti, etc…) per delimitare una sorta di canone cristiano (NT). I cristiani, poi, sono chiamati a “rendere ragione” – a “spiegare” o “motivare” – il perché della speranza viva che abita in loro (cf. 1Pt 3,14). La fede acquista una propria consapevolezza e ragionevolezza[13].
La Chiesa è questo spazio bellissimo della comunione (koinonia) nel quale possiamo muoverci a più livelli e profondità. C’è posto per tutti. Occorre scoprire il senso cattolico della fede: animati dall’unico Spirito. D’altronde, quando Paolo esorta Timoteo a prendere come modello le sane parole che ha udito da lui, fa riferimento alla fede e all’amore. Inizialmente, il termine “cattolico” stava a significare proprio l’unione “secondo il tutto”, cioè l’unione di fede e di amore[14]. Paolo è rimasto travolto da Cristo, dalla sua conoscenza, e ha raggiunto una nuova visione di vita. Infatti, reputa ogni cosa una perdita innanzi alla sublimità dell’esperienza di Cristo che è suo Signore (cf. Fil 3,8). Non avrebbe senso l’annuncio del Vangelo senza un coinvolgimento diretto nella vita di Cristo. D’altronde, per lui, è stata una conquista personale che incide nella storia di Timoteo e delle altre comunità cristiane. Anzi, la conoscenza del mistero di Cristo è divenuto la norma di vita per ogni uomo di buona volontà.
Il Vangelo non è questione di pochi: non riguarda solamente i presbìteri o l’episcopo. Non è una faccenda da “monaci” o da “esperti in maniera di fede”. È, invece, la passione d’ogni battezzato. Perché il Vangelo dev’essere custodito senza alterazioni fino al ritorno del Signore. Deposito e parola di Dio sono sullo stesso piano. Il loro insieme forma il Vangelo di Paolo e nasce dal kerygma, cioè dall’annuncio della morte e della risurrezione di Gesù Cristo. Tale annuncio non è astratto: avviene in una comunità, è qualcosa di attuale, di orale, nonché di scritto, e diviene una verità da una forza spirituale e da una carica normativa (nonché etica) irrinunciabili.
Il deposito della fede, la sua custodia e trasmissione, è l’altro modo per esaltare la sublimità della conoscenza di Cristo, per entrare nella profonda verità della salvezza.
1.8. Il culto “in spirito e verità”: l’azione dello Spirito Santo
L’ottava premessa o fattore considera il nuovo culto – “in spirito e verità” –, inaugurato dalla comunità apostolica[15], e la relativa condotta (ethos) derivante dall’incontro con il Signore e legato all’attesa della sua manifestazione in potenza. Assumono un ruolo molto importante l’azione dello Spirito Santo e la testimonianza dei primi martiri e dei santi. È la martyria o credibilità della fede (il pathos per Gesù). Il sangue dei martiri sarà considerato come il seme dei nuovi cristiani. Già il giorno di Pentecoste, così come raccontato dagli Atti degli apostoli, lascia intendere non solo il carattere universale della proposta di salvezza, ma anche il valore teologico della presenza-azione dello Spirito di Cristo e del Padre nelle comunità cristiane e nel mondo. Viene così a crearsi uno stretto legame tra Babele e Pentecoste: tra il tentativo umano ed ecclesiale – un’ideologia perniciosa – di quanti subiscono il fascino dell’Uno e della Totalità, a discapito della diversità e della ricchezza della differenza (di lingue, di popoli, di culture, di religioni), e la tentazione sempre umana e non solo ecclesiale di cedere a un pluralismo indistinto, a un relativismo senza sosta, che fa della fede cristiana qualcosa di iridescente, di vano.
L’unità nella diversità e la diversità nell’unità sono i due fuochi attorno ai quali si aggregano le riflessioni e le proposte teologiche delle comunità ecclesiali antiche.
2. Le sfide culturali
Le correnti teologiche dei primi tre secoli del cristianesimo sono abbastanza complesse e diversificate. Si affermano, infatti, oltre alle teologie del Logos (che mettono in evidenza la divinità di Gesù), anche teologie dal basso e movimenti sincretici interessati all’umanità di Gesù o, per contrario, volti a negarla. Il contesto in cui avvengono le riflessioni sul Cristo (natura, identità, missione) è quasi sempre ecclesiale: spesso l’eresia[16] nasce in seguito a un’errata interpretazione di una verità di fede manifestata durante un’omelia, in occasione d’una catechesi, etc… Comunque, dietro ogni visione eterodossa vi è sempre una concezione cosmologica e antropologica particolare, come pure una visione ben determinata della rivelazione e della concezione di Dio. A volte, s’incrociano questioni trinitarie e problematiche cristologiche, come anche visioni antropologiche e problematiche soteriologiche[17].
2.1. Le teologie del Logos e la cristologia pre-nicena
Le teologie del Logos riprendono, come testi di riferimento, soprattutto la letteratura giovannea e pongono attenzione al Verbo venuto nella carne e alla sua preesistenza, trovando agganci con l’AT e la letteratura sapienziale. Tuttavia, restava difficile il confronto tra la visione giudaico-cristiana del Logos-Verbum-Dabar-Sapienza e la visione ellenistica del Logos filosofico e della Sophia. Già in ambito giudaico, la Sapienza è solamente un attributo divino e non un’ipostasi, né riguarda l’essenza di Dio. In ambito filosofico, invece, il Logos è la ragione in quanto prima sostanza o causa del mondo (Eraclito). Il Verbum è la legge stessa del mondo. Si tratta di una legge divina che ordina il mondo. Nello stoicismo, il Logos è il principio attivo del mondo che anima, guida e ordina la materia, nonché il principio passivo. Per Plotino, invece, il Logos è la potenza del Nous divino, dell’intelletto divino come ordinatore del mondo.
Il Logos è emanazione dell’Uno e tende a essere presente in tutte le cose del mondo. Filone d’Alessandria offrirà una prima concezione personalizzata, ipostaticizzata, del Logos: il Verbo è una persona divina, un intermediario tra Dio e l’umanità, nonché il tramite della creazione, l’ombra di Dio, un’immagine quasi derivata delle cose create, il modello della creazione. Questo Logos è Gesù, il Verbo venuto nella carne. Così, le teologie cristiane del Logos nei primi tre secoli saranno alquanto tendenziose e dovranno confrontarsi con la cultura greca e la visione del mondo ellenistica. Queste teologie del Logos assumeranno tre possibili prospettive: dell’unicità-unità in e di Dio; la parità-uguaglianza tra il Verbo (Gesù) e il Padre; la partecipazione del Logos al genere umano. Non sempre questi tre punti saranno ben coordinati, suscitando molteplici errori. Alcuni autori cristiani antichi, riprendendo anche la visione del rigido monoteismo ebraico[18], e sostenuti dalla concezione filosofica del Logos come meditatore, vedranno in Gesù non il Figlio di Dio, bensì una sua emanazione o modo d’apparire, rifiutando di riconoscergli una pari dignità.
Spesso venivano rielaborate alcune dottrine contenute nella Lettera agli Ebrei e nel Libro dell’Apocalisse. Cristo è entrato definitivamente nella sfera celeste, della divinità di Dio. E, in veste di creatore e di redentore, egli è l’immagine (eikôn) del divino (cf. 2Cor 4,4; Col 1,15), il rivelatore di Dio, la sapienza (cf. 1Cor 1,24) di Dio (cf. Pr 8; Sap 7). Nelle forme basse di cristologia, invece, si nega sia la divinità che la nascita verginale di Gesù: il Nazareno è un uomo, un profeta eccezionale, dotato di poteri carismatici particolari. Gesù è inteso come il nuovo Adamo o quale vero profeta. Nel Pastore di Erma (140 d.C.) e nell’Ascensione di Isaia, la forma umana di Gesù quasi scompare e appare quella angelica. Si ha poi difficoltà a comprender il rapporto tra l’unicità di Dio e l’eventuale natura divina di Gesù. Per lo stesso Clemente di Roma (siamo nel primo secolo), Dio è soltanto il Padre, cioè Jhwh, nonché il creatore e il padrone (despóthes) del mondo. Di Gesù è messo in rilievo la funzione soteriologia. A volte, come nel Pastore di Erma, si confonde Gesù con lo Spirito Santo. Sicuramente, nel Pastore di Erma l’Iddio (o Theos) è un titolo che spetta solamente al Padre che è la fonte della divinità, il Principio senza principio, l’Origine di tutto. Si ha difficoltà nella mediazione dei linguaggi per la traduzione della fede. È forte la tensione tra evangelizzazione e inculturazione.
Strade più aperte per l’affermazione di una cristologia dall’alto si riscontrano in Oriente. Ignazio d’Antiochia, ad esempio, nelle sue lettere rivendica chiaramente la divinità e l’umanità di Cristo, preoccupato per le false dottrine che serpeggiavano in Asia Minore. Gesù Cristo, nostro Signore, è vero Dio e vero uomo, creatore e redentore, è Theós[19].
La dottrina del Logos troverà ampi sviluppi nella seconda metà del II secolo e nel secolo III, in un contesto alquanto polemico a motivo delle teorie gnostiche e marcionite.
Le teologie del Logos, che hanno evidenziato la funzione universale del Cristo cosmico, nei primi secoli del cristianesimo, costituiscono un originale tentativo – tuttora valido – d’elaborare una teologia della storia che tenga assieme sia la mediazione unica di Cristo, sia la volontà salvifica del Padre, sia il valore positivo delle culture altre sia delle tradizioni religiose più differenti.
Anche a partire dalla concezione del Logos è possibile giustificare il pluralismo religioso: dove c’è l’uomo c’è sempre Dio in azione! Cristo assume un significato per il mondo, un valore per tutta l’umanità e viceversa. La storia della salvezza riceve amplificazioni grazie a una possibile teologia della storia. Le età dell’universo costituiscono, nella teologia del Logos, pur se con accezioni diverse, degli stadi successivi dell’automanifestazione del Logos divino. Il Verbo eterno è attivo nel cosmo fin dall’inizio anche se il mistero della sua automanifestazione ha attraversato varie economie prima di raggiungere il suo culmine nell’incarnazione. In realtà, la storia delle religioni e dello stesso dialogo è stata una presa di posizione, positiva o negativa, sebbene inconscia, di fronte al Verbo di Dio veniente nella carne dell’uomo[20]. I padri della chiesa hanno cercato, anche se con forme differenti, nella storia salvifica anteriore al Cristo, l’azione del Logos che in certa misura comincia già a incarnarsi, evitando di far dirigere tutto da Dio dal cielo, e ritrovando il disegno salvifico già nel cuore dell’uomo e della storia. Certamente, la storia delle religioni, nel suo insieme, come pure nel caso del dialogo, deve essere integrata nella storia unica del dialogo tra Dio e il mondo che sfocia nell’incarnazione del Verbo. Tale evento non mortifica il dialogo con l’umanità, i popoli, le fedi, anzi, lo amplifica e lo rende vero, autentico. D’altronde, le teologie del Logos hanno voluto, soprattutto, affermare che la salvezza è stata accessibile a tutte le persone nel corso della storia e che è sempre salvezza in Gesù Cristo. Ciò vale anche per i giusti pagani, per quella ecclesia ab Abel che è presente nel primo giusto fino all’ultimo sulla faccia della terra!
2.2. Il Logos in ogni uomo (Lógos spermatikós)
La verità risulta essere, a questo punto, la forma storica che l’Amore si è data nel tempo. Questa verità è Cristo, il Verbo incarnato, il Logos ab aeterno che da sempre è presso il Padre ma pure presso gli uomini. Egli, infatti, semina la verità in ogni parte dell’universo. È sufficiente attingere dalla tradizione cristiana antica che ha vissuto lo sforzo, attraverso personaggi illustri, di collegare il significato dell’universale volontà salvifica del Padre con l’unica mediazione di Cristo. Il riferimento è, ad esempio, a Giustino, filosofo e martire della chiesa del secondo secolo. Egli ha affermato che il «Logos di Dio è in ogni uomo»[21]. Ma chi è questo Logos? È precisamente il Figlio di Dio nella sua funzione cosmologica, cioè nella sua relazione con l’universo. Il mondo procede dall’efficacia divina che è propria del Figlio in quanto forza, energia di Dio. È il Verbo energetico, il creatore e l’ordinatore del cosmo. Egli parla del Cristo già a partire dalla funzione cosmica (creatrice e organizzatrice) del Verbo. Il Cristo e il Verbo sono la stessa persona[22].
Indossando l’abito del filosofo, Giustino predicava la parola di Dio e credeva fermamente che nessun uomo è respinto dalla volontà salvifica di Dio o escluso dal piano divino di salvezza. La verità cristiana è, per Giustino, una realtà unitiva e non disgregante delle diverse culture e tradizioni religiose. Il Cristo costituisce il traguardo di chi si pone, sinceramente, alla ricerca della verità come vero filosofare. Il punto forza di questa sua tesi è nella considerazione di un dato cristologico e trinitario molto importante: uno è il Verbo del Padre che da sempre agisce nella storia dell’uomo. Si tratta di quel Logos che fu conosciuto in parte anche da Socrate e che, con la sua potenza, permise di scoprire il padre e il creatore dell’universo, il Dio ignoto che non era facile scoprire con la sola ragione[23]. L’ordinamento del mondo ha il suo centro in Cristo quale Logos e Nomos. Giustino conferma, come per la gran parte della tradizione cristiana antica, il Cristo come centro della storia della salvezza. Ciò che lo caratterizza è soprattutto la diffusa convinzione secondo la quale il Logos di Dio è in ogni uomo.
Il Verbo è presenza universale di Dio nell’uomo e nel cosmo. È una presenza maturata già prima dell’incarnazione. È una presenza atemporale. Egli scrive: «Sappiamo che sono stati odiati e uccisi anche coloro che hanno seguito le dottrine degli stoici – come pure, per certi aspetti, i poeti – per il fatto che hanno mostrato saggezza almeno nella formulazione del discorso etico, grazie al seme del Verbo che è innato in ogni razza umana»[24]. E ancora, a proposito dell’identità di Cristo, Giustino afferma: è «colui che era stato conosciuto in parte anche da Socrate» e che «era ed è il Verbo che è in ognuno e che per bocca dei profeti ha predetto ciò che sarebbe accaduto e che nella sua persona si è fatto simile a noi e ha insegnato queste cose»[25]. Il Verbo è da sempre presente nell’universo e nella storia dell’umanità. Certamente, non in pienezza, perché ciò avverrà con l’incarnazione. Tuttavia, attingendo alla visione medioplatonica, Giustino riconosce in ogni essere umano la potenzialità di percepire Dio e parte della sua verità. Giustino utilizza una categoria razionale e filosofica in ambito economico e trinitario, affermando, così, la presenza universale dei semi del Verbo di Dio, in vista d’una conoscenza totale del Verbo incarnato.
Questi semi sono in ogni uomo e orientano a Dio preparando le sue vie (cf. Is 40,3). Il Logos è in ogni etnia e in qualsiasi uomo. Il significato è sia teologico sia antropologico. Il seme del Verbo è seme di vita ed è piantato dentro il cuore dell’uomo. Dio ha penetrato l’uomo con la presenza fecondatrice del suo Verbo, rendendolo partecipe della sua natura divina. Questo principio della presenza universale del Verbo nell’uomo ha valore assoluto. Il Padre ha vivificato l’uomo ed è entrato in amplesso con lui sino a farsi uomo affinché ogni uomo conseguisse la piena conoscenza del vero Dio che lo aveva creato. In Cristo, Logos ab aeterno e Logos-sarx, il Padre dona la sua divinità gratuitamente. Il Verbo si è partecipato, per iniziativa del Padre, a tutto il genere umano, e coloro che hanno vissuto secondo il Verbo sono cristiani anche se furono ritenuti atei, come tra i greci Socrate ed Eraclito e quanti furono simili a lui[26] (Abramo, Anania, Azaria, Misaele, Elia, etc..). Dunque, secondo Giustino, è possibile essere stati cristiani prima di Cristo se, pur non conoscendo il Verbo nella carne, si visse nella rettitudine facendo fruttificare i semi di verità che per opera del Logos sono in ogni uomo. Il seme divino, che è in qualsiasi persona, è rivelato nel momento in cui si segue la via della verità o dell’amore, cioè la legge di giustizia che viene da Dio[27].
Le conseguenze di questo discorso sui semi del Verbo sono importanti: nessun uomo è tenuto lontano da Dio e nessuno è precluso dal suo piano salvifico; come vi furono cristiani prima di Cristo, pur senza aver conosciuto il Logos-sarx, è possibile che ci siano cristiani che non hanno conosciuto Cristo però sono tali perché praticano la giustizia e la carità. D’altronde, lo stesso Vaticano II ci ricorda che, con l’incarnazione, «il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo, ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo»[28].
Il Verbo, ancora, ci ha additato la via che conduce al Padre. Per questo il Verbo fu ed è in ogni uomo, di qualsiasi razza, religione e nazionalità. Giustino sembra riconoscere l’esistenza di un’economia di salvezza legata a una rivelazione naturale primitiva, anche se provvisoria e parziale.
In gioco c’è il significato della salvezza universale che il Padre offre in Cristo per la potenza dello Spirito a ogni uomo e donna di buona volontà. Questa mediazione universale del Logos non è svilita o depauperata con l’incarnazione, anzi è amplificata: perché il Cristo uomo rivela in modo chiaro, in quanto Parola nelle parole, la volontà del Padre. Inoltre, il dono dello Spirito permette di allargare l’orizzonte della salvezza che l’umano di Gesù sembra circoscrivere nel particolare storico del tempo e dello spazio. Lo Spirito che è all’opera dalle origini del mondo, fino al compimento della storia, è sempre lo Spirito del Figlio e del Padre: rivela, con gemiti inesprimibili, con ardore e muto silenzio, con moti dell’anima, la verità di Cristo e del Padre. Egli vive di una propria kenosis (abbassamento e svuotamento) fino al giorno della manifestazione gloriosa del Cristo. L’incarnazione, in quanto particolare della mediazione universale del Logos ab aeterno, lascia intendere molto bene la missione dello Spirito nella chiesa e nel mondo rispetto alla missione del Figlio. Sono due aspetti dell’unica economia salvifica! Vi è un ritmo trinitario della vita divina che si ripercuote all’interno della creazione, della rivelazione e della redenzione. Ci sono, nel mondo, diversi gradi di partecipazione alla vita del Logos. Si afferma una partecipazione differenziata al Logos[29].
2.3. Il Logos dell’alleanza (Lógos protreptikós)
Il tema della salvezza a tutte le genti e il ruolo della cultura e della filosofia fu caro anche a Clemente d’Alessandria. La sapienza delle genti, come lo stesso discorso filosofico sulla verità, è ispirata da Dio, è un riflesso della realtà divina e contiene semi di quella rivelazione primitiva accordata dal Verbo a uomini scelti. È compito del cristiano scoprire i semi del Verbo nelle arti, nella poesia, nella letteratura, nella filosofia. Clemente cerca di dare un significato universale ai valori cristiani e di recuperare il valore salvifico della filosofia[30]. Anche qui la domanda: chi è il Logos? La risposta è chiara: è il Figlio di Dio. Ogni manifestazione personale del Padre ha luogo attraverso il Logos. Noi pensiamo l’Ignoto, dirà Clemente, solo per grazia divina e per il Logos che da esso procede. Quella del pensatore alessandrino è una vera e propria teologia del Logos. Perché solamente l’azione personale del Logos introduce nel mondo divino. L’influenza personale del Logos si estende oltre la sapienza greca, la rivelazione biblica e raggiunge l’universo. L’uomo è dotato, comunque, di una propria ragione, di un logos umano, che attraverso un’intuizione naturale gli permette di scoprire il Dio unico e onnipotente. Tuttavia, solamente l’azione personale del Logos permette di entrare nel mistero del Padre. È grazie al Logos che i pagani hanno profetizzato.
In Clemente d’Alessandria è centrale una prospettiva: esiste un unico piano di salvezza che si realizza in tutti i tempi con tutte le generazioni e i popoli. La salvezza è solo una anche se prima di Cristo la sua realizzazione, nella storia, riveste molteplici modalità. Vi è un solo patto salvifico anche se diversi testamenti rivolti ai greci, ai giudei e ai cristiani. Ci sono molteplicità di espressioni che sono tenute assieme dall’unicità della fonte salvifica. Perché unico è il Signore operante nel mondo fin dalla creazione[31]. Significativa questa espressione: «Uno solo è il testamento, che dalla fondazione del mondo perdura fino a noi, benché sia stato interpretato come diverso nella distribuzione dei beni in rapporto alla diversità di genti e di tempi: è logico che vi sia un solo immutabile dono di salvezza da parte dell’unico Dio tramite l’unico Signore, dono che “in molti modi” (Eb 1,1) ci soccorre»[32].
Le diverse forme di rivelazione si riferiscono alle molteplici strade che conducono alla salvezza. L’unità non è data, dunque, nel framezzo, nella temporalità, bensì all’origine del piano salvifico e alla fine, nel compimento della storia. Il carattere progressivo della storia porta a rilevare dei segni di bontà, dei mezzi della verità, dei semi di bene, che Dio ha sparso dalla creazione in poi. Tra questi beni primari vi è anche la filosofia che svolge quasi un ruolo di mediazione per il piano di Dio. Non si tratta di un mezzo definitivo per la salvezza, ma di un aiuto (favore divino) necessario per i pagani. In tal senso, la filosofia rientra tra i testamenti e le alleanze[33]. L’azione redentiva di Cristo non è assolutamente messa in discussione, anzi, essa riceve maggior luce – amplificazioni – con il riconoscimento dei semi di bene e di verità che il Padre ha sparso nel mondo e nel cuore degli uomini. Clemente ribadisce di continuo l’origine divina della sapienza greca e, in modo particolare, della filosofia. Ciò soprattutto per liberare le comunità cristiane da un senso diffuso di particolarismo e di esclusivismo. Clemente tiene a cuore la sorte del mondo e dell’umanità, e favorisce l’incontro e il dialogo con le culture. Non condivide il pensiero di coloro che ostentano la superiorità della rivelazione cristiana e sviliscono a pieno il significato della sapienza greca.
Il cristiano deve servirsi del meglio della filosofia e delle discipline propedeutiche affinché Cristo raggiunga tutte le genti. Egli riconosce pure i limiti della filosofia greca ma non ne misconosce la funzione propedeutica alla salvezza. Nel pensiero greco, come nella cultura ellenistica in genere, ci sono semi di quella rivelazione primitiva che non è venuta mai meno nell’intimo più segreto dell’uomo. Così, anche nelle arti, come nella letteratura e nella poesia, si possono trovare i principi della prima rivelazione[34]. Anche dopo la venuta di Cristo, Clemente riconosce l’utilità e il valore della filosofia e delle arti.
«Prima della venuta del Signore la filosofia era necessaria ai Greci per giungere alla giustizia; ora diviene utile per giungere alla religione: essa è in certo modo una propedeutica per coloro che intendono conquistarsi la fede per via di dimostrazione razionale»[35].
I filosofi hanno una missione divina in mezzo alle nazioni. La filosofia viene da Dio e costituisce, per il mondo greco, un’economia divina parallela, come fu anche per gli ebrei. Clemente non esita a definire la filosofia un’alleanza conclusa da Dio con le persone, una piattaforma verso la filosofia di Cristo[36]. Egli, ancora, non fa solo riferimento ai greci o ai retori antichi, ma anche ai popoli lontani, agli antichi saggi delle Indie. Le autentiche guide dell’umanità sono gli antichi filosofi che, veramente ispirati da Dio e influenzati dal Logos, hanno insegnato le verità divine alle nazioni. Egli cita, infatti, i gimnosofisti dell’India. Questi sono divisi in due categorie: i sarmani e i bramani. Il riferimento è, poi, ai seguaci di Buddha[37]. Per Clemente, dunque,
«la sapienza greca e la filosofia costituiscono un valido aiuto alla diffusione della fede; in essa sono contenuti i semi di quella verità che il Cristo, Logos di Dio, ha rivelato in modo pieno con la sua predicazione. Accogliendo il Vangelo e divenendo discepolo di Cristo, il pagano raggiungerà la pienezza di quella verità che già, in parte, possiede nella sua cultura. Questo non lo costringerà a rinnegare la “sua” cultura, ma solo a correggerla in quegli elementi che si sono allontanati dalla rivelazione originaria. Così il greco, divenendo cristiano, dovrà rimanere greco, il siriaco siriaco, come il semita semita»[38].
La filosofia è non semplicemente il pensiero stoico o platonico, né solo quello greco, ma tutto ciò che in ciascuna di queste dottrine è detto bene e insegna la giustizia con pia sapienza[39]. La filosofia di cui parla il nostro autore ha, dunque, un’accezione vastissima e, pur non riconoscendo alcuna forma di politeismo, lascia intendere il riferimento a un pensiero etico e religioso allo stesso tempo. Si riferisce, infatti, alla pietà e alla religiosità. La filosofia indica pure la pratica d’una vita onesta, ordinata, retta, come anche il perseguimento di valori, nonché l’aspirazione alla giustizia e alla saggezza.
È importante sottolineare che, per Clemente d’Alessandria, vi è piena identità tra il Logos fatto carne e il Logos non ancora incarnato. Il Logos attivo nella filosofia non è la ragione umana né l’intelletto agente. È il Verbo della vita. È in Gesù Cristo, il Logos incarnato, che la verità di Dio si è pienamente rivelata agli esseri umani[40]. Il Verbo del Padre, la buona lucerna, il Signore che reca la luce – la fede e la salvezza per tutti – ha operato ovunque, portando luce e verità. Così, il Logos è luce per gli uomini e non è nascosto per nessuno. È luce per tutti[41]. Da qui l’esortazione rivolta a tutti i pagani ad affidarsi a Gesù Cristo[42].
2.4. Il Logos rivelatore (Lógos émphutos)
Merita attenzione anche la proposta di sant’Ireneo, vescovo di Lione, le cui riflessioni hanno dato origine a un nuovo filone della teologia della storia. Per il vescovo di Lione, il messaggio cristiano è indissolubilmente legato alla storia della salvezza e la redenzione storica di Gesù Cristo forma il centro d’una linea che va dall’AT sino al ritorno finale di Cristo. Ireneo, infatti, non solo riconosce il significato storico dell’alleanza tra Dio e Israele, e sottolinea la centralità di Cristo, ma inserisce l’economia pre-mosaica all’interno della storia della salvezza, creando lo spazio per un valore salvifico delle religioni prebibliche. Cristo è il Logos rivelatore del Padre, il suo volto, colui che sin dall’origine è con il Padre. È lui che ha fatto vedere al genere umano la visione dei profeti e i diversi carismi, e i suoi ministeri e la glorificazione del Pare suo. Tutto ciò secondo una concatenazione e un ordine, in tempo utile.
Il Logos è dispensatore della grazia paterna in vista dell’utilità di tutti gli uomini. Egli ha compiuto tutta l’economia divina, mostrando Dio agli uomini e presentando gli uomini a Dio. Perché la gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo è la visione di Dio. E se la manifestazione di Dio mediante la creazione dà la vita a tutti coloro che vivono sulla terra, quanto più la manifestazione del Padre, che si fa tramite il Verbo, comunica la vita a coloro che vedono Dio[43]. È la filantropia divina a creare il mondo e gli uomini. L’economia delle manifestazioni divine, tramite il Verbo, rivela progressivamente il Padre. C’è una storia della salvezza che si compie a tappe, in modo progressivo. All’origine, però, vi è l’azione rivelatrice della Parola eterna. Il Figlio è il visibile del Padre (visibile Patris Filius), non soltanto il segno sacramentale del Padre – in quanto Logos incarnato – ma la manifestazione universale del Padre. In se stesso, il Padre è e rimane l’ignoto, l’inconoscibile, in tutte le economie. Il Padre è l’invisibile del Figlio e il Figlio è il visibile del Padre[44].
Tutte le manifestazioni divine avvengono mediante il Logos eterno[45]: Dio, colui che è, si è manifestato mediante il Figlio, che è nel Padre e ha in sé il Padre, perché il Padre rende testimonianza al Figlio e il Figlio annuncia il Padre. C’è una funzione cosmologica del Logos e una storica. Il Figlio, amministrando tutto con il Padre, conduce ogni cosa al proprio termine dall’inizio alla fine, e senza di lui nessuno può conoscere il Padre. In effetti, la conoscenza del Padre è il Figlio (agnitio enim Patri Filius) e la conoscenza del Figlio nel Padre è rivelata dal Figlio. Dalla totalità del tempo e non dall’incarnazione il Figlio rivela il Padre. Sin dall’inizio, il Figlio, presente alla sua creazione, rivela a tutti il Padre, a coloro cui vuole, quando vuole e come vuole. Ed è per questo che per tutti non c’è che un solo Padre, un solo Figlio e un solo Spirito[46].
L’ordine cosmico e l’ordine storico sono, nella funzione del Logos, strettamente correlati. Anzi, è lecito affermare che, per Ireneo, nell’ordine della creazione vige già una manifestazione storica e personale del Logos. Ogni essere umano ha – o può avere – una conoscenza personale di Dio. Ciò è sempre il frutto della grazia, della risposta all’iniziativa personale del Padre. L’incontro storico con il Logos avviene, secondo Ireneo, già nella creazione. L’ordine cosmico è già parte dell’economia salvifica. È evidente, nell’economia divina, l’universalità della funzione rivelatrice del Verbo.
«Infatti il Padre, che è invisibile, lo fa conoscere a tutti il Figlio, che è nel suo seno. Perciò lo conoscono coloro ai quali l’ha rivelato il Figlio»[47].
L’unica conoscenza divina passa attraverso il Figlio ed è, nello stesso tempo, sia creaturale sia storica. I due piani della rivelazione sono strettamente collegati. D’altronde, è soprattutto una dinamica occidentale quella di dividere il tempo della creazione dal tempo della redenzione o della rivelazione dall’ordine cosmo, come pure il naturale dal soprannaturale. Ireneo è chiaro: esiste una sola economia della salvezza al cui centro storico vi è il Logos venuto nella carne che da sempre è presso il Padre e che non viene mai meno nella sua funzione amplificata di illuminazione e di redenzione. La conoscenza di Dio conseguita attraverso la contemplazione dell’universo non può essere dissociata dall’attività rivelatrice personale del Verbo divino. La conoscenza del Padre attraverso il Figlio è concessa a tutti.
«Estendendosi il suo dominio su tutti, avrebbero dovuto conoscere il loro Signore e sapere che colui che li ha creati è il Signore di tutte le cose. Infatti, la sua invisibilità, essendo potente, offre a tutti una grande visione e percezione nella sua eccellenza potentissima e sovrana sull’universo. Perciò, sebbene “nessuno conosca il Padre tranne il Figlio, né il Figlio tranne il Padre e coloro ai quali il Figlio lo rivelerà” (cf. Mt 11,27), tuttavia tutti gli esseri conoscono questo, dal momento che il logos innato negli animi (ratio mentibus infixa per logos mentibus infixus) li muove e rivela loro [la verità] che c’è un solo Dio, Signore di tutte le cose»[48].
Sicuramente si tratta della presenza attiva del Verbo in ogni mente umana. È un’economia permanente la rivelazione del Padre da parte del Figlio: in tale continuità, l’ordine cosmico è solo una tappa, quella iniziale dal punto di vista storico. Dalla creazione si passa alla rivelazione dei due testamenti, fino alla pienezza del Verbo nella carne.
La manifestazione di Dio nell’economia antica è avvenuta sempre a opera del Figlio. Le teo-fanie sono, infatti, Logo-fanie. Il Verbo era presente nelle rivelazioni, nei segni dell’AT, come pure nelle profezie, negli oracoli profetici, negli eventi salvifici. Le stesse parole dei profeti sono parole di Cristo e assumono un valore tipologico perché sono tipi di cose future[49]. Sono quattro le alleanze che Dio ha stipulato con l’uomo attraverso il Verbo: una con Adamo, una per mezzo di Noè, un’altra tramite Mosè e l’ultima attraverso il Cristo venuto nella carne[50]. Certamente, Ireneo è convinto che il Logos ab aeterno è attivo in ognuna di queste alleanze[51]. Il Verbo che parlò a Mosè fu anche attivo negli eventi medesimi dell’esodo. Mosè non soltanto scrisse di Cristo, ma le sue parole sono parole di Cristo[52]. Per Ireneo è chiaro un dato dell’economia salvifica: la rivelazione divina del Cristo cosmico è sempre in atto e non si riduce con l’evento dell’incarnazione. È come se il Cristo anticipasse la sua incarnazione – la sua singolarità di rivelatore – negli eventi dell’AT e dello stesso ordine cosmico.
Certamente, per Ireneo, resta la differenza tra il Cristo annunciato e il Cristo donato, perché il Figlio incarnato, il Logos-sarx ha portato una novità totale, donando se stesso (omnem novitatem attulit seipsum afferens) che era stato annunciato[53]. Tuttavia, l’azione universale del Cristo cosmico ha una sua piena centralità anche dopo l’incarnazione. La Cristofania non annulla né sminuisce le Logofanie. La manifestazione umana del Cristo – che ebbe luogo una volta per tutte nello spazio e nel tempo – è un’ampia garanzia della novità del cristianesimo storico. Nell’economia antica il Logos era, in un certo senso, già visibile alla mente; poi, lo divenne in misura piena con l’incarnazione. Ci sono, quindi, due modalità con le quali il Verbo si rende visibile. La visibilità del Verbo secondo la carne corrisponde alla sua visibilità o conoscibilità essenziale secondo la mente. Così, sia la generazione eterna che quella temporale si coappartengono. Le due generazioni rimangono distinte anche se stanno in un rapporto di comunione e di partecipazione. Il Cristo storico è una Logofania sacramentale. L’assunzione della carne umana è la missione centrale del Figlio, il punto climax della rivelazione del Padre nel tempo o nella visibilità del Logos.
Ma quale è la novità del pensiero di Ireneo? Cristo è il capo di tutto l’universo e il senso di tutta la storia (sia quella che precede l’incarnazione sia quella successiva). Il Verbo del Padre è all’opera sin dall’aurora dell’umanità e sotto la sua azione l’umanità nasce, cresce e matura fino alla pienezza dei tempi. Con l’incarnazione del Verbo e con la sua opera redentrice, l’umanità diventa corpo di Cristo, e con lui e in lui s’incammina verso la visione del Padre. La ricapitolazione di tutte le cose – tema squisitamente paolino (cf. Ef 1,9-10) – avverrà, secondo Ireneo, alla fine del mondo e con la risurrezione finale[54]. Il Verbo del Padre, divenendo visibile e comprensibile, ha ricapitolato anche l’uomo. Egli spinge l’umanità verso la pienezza, il compimento. La ricapitolazione vive, dunque, di due momenti: nell’atto stesso dell’incarnazione del Verbo e nell’atto soteriologico conclusivo che coincide con la manifestazione gloriosa del Verbo e la risurrezione della carne. La storia della salvezza è segmentata nel tempo e nel mondo tramite l’incarnazione. Occorre prendere sul serio il duplice tratto della rivelazione del Logos: la sua invisibilità operante e la sua visibilità nell’incarnazione. Il Verbo agisce sempre, dall’eternità fino al compimento della storia. La ricapitolazione – già avvenuta con l’incarnazione (allo stato inaugurale, perché è piena solo in Cristo risorto) – ha tre significati. Il primo è salvifico o soteriologico (a cui l’umanità partecipa in spe). Il secondo è ontologico (perché tocca la carne del Verbo e in tale umanità ogni persona vivente). Il terzo è escatologico (perché apre all’attesa del futuro come risurrezione e manifestazione gloriosa di Dio).
Il Verbo ricapitola a motivo della sua incarnazione ed è il soggetto attivo di tale azione. Nella dimensione ontologica della ricapitolazione, rientrano tutti gli esseri umani, tutti i popoli, tutte le etnie, tutte le religioni, le tradizioni culturali, le credenze. È la lunga storia dell’umanità ad essere ricapitolata in modo silenzioso e pieno[55]. Il messaggio positivo di Ireneo, per noi oggi, è il seguente: esiste una rivelazione graduale attraverso la quale Dio ci salva e l’uomo riconosce il Verbo[56]. L’uomo, destinato alle altezze del Verbo e dello Spirito, fatto a immagine e somiglianza, richiede una lenta preparazione per passare dal fango informe alla forma divina. Noi siamo inseriti nella carne di Cristo. È inserita in questa carne tutta l’umanità, ogni popolo. Così, la storia – per Ireneo –, diversamente da autori antichi più pessimisti, tra cui Origene, non è la conseguenza del peccato, bensì historia salutis, storia della salvezza. Il tempo non è la nostra prigione, né costituisce una condanna per l’umanità, bensì lo spazio di salvezza che Dio ci concede. Il tempo misura anche la pazienza di Dio nei nostri confronti, come pur le sue azioni pedagogiche a favore dell’uomo che va di fretta e non riesce a riconoscerlo, perché distratto.
3. Visioni eterodosse: la definizione di “eresia”
«Eresia così dicesi dal greco “scelta”, cioè ognuno sceglie ciò “che gli par essere migliore”». È la definizione immediata che dava, tra il VI e VII secolo, il vescovo di Siviglia, sant’Isidoro. Mentre Raoul Manselli, un esperto di movimenti ereticali, poteva giustamente chiosare: «Se háiresis è scelta, ebbene l’eresia sarà la coscienza di questa scelta». In questo senso più moderno, l’eresia è una libera adesione a un credo comportamentale, etico, spirituale che, necessariamente, si contrappone a qualcosa di altrettanto categorico definito e definitivo da cui si distingue e dal quale riceve la connotazione negativa che la parola indubbiamente oggi implica. L’etimologia del termine “eresia”, dal greco αίρεσις (da αιρεομαι), che significa “afferro”, “prendo” ma anche “scelgo” (prendo una cosa in mio possesso), offre un ventaglio di interpretazioni sia in rapporto alla fede della Chiesa (il dogma), sia in ambito teologico (come pensiero, ipotesi), sia dal punto di vista etico (condotta, atteggiamento).
È sufficiente considerare alcune esortazioni che Paolo rivolse al giovane Timoteo, per comprendere che cosa sia l’esperienza del Cristo vivo e, di conseguenza, quali sono i limiti e gli effetti dell’eresia: «Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù» (2Tm 1,13). Paolo, con scaltrezza e altrettanta risolutezza, presenta a Timoteo, come esempio di fede, le sane parole (sanorum verborum) udite da lui. Non sono parole qualsiasi, né il frutto di un linguaggio artefatto o subdolo. Perché avvengono nella fede e nell’amore (in fide et in dilectione) di Cristo Gesù. Non sono le parole di certi uomini della politica che mirano a raggiungere dei risultati per scopi loschi o a vantaggio personale. Né di quelli ammaliatori del sacro che promettono felicità, successo e benessere attraverso la pratica di riti e formule magiche e superstiziose. Non ci troviamo neanche di fronte alla sapienza e alla cultura di retori e filosofi, o di teologi melensi e abili dialettici. Il riferimento è all’agapê, all’amore come dono di sé, della propria vita. Ciò che rende credibile il linguaggio di Paolo è l’esperienza del Cristo morto e risorto, l’essere a lui unito mediante la fede e l’amore ablativo, gratuito. Paolo sta sperimentando, a pelle, che cosa significhi vivere per Cristo e fare di lui il cuore del mondo.
Il modello in questione è Cristo stesso, il suo Vangelo, la sua croce. Non una teoria che si esprime con linguaggio concettuale, verboso e formale. Le sane parole non costituiscono semplicemente un orientamento teorico, bensì un vero metodo, cioè una strada da praticare, un sentiero da percorrere. Ci troviamo innanzi a un modello personale, e non culturale o sociologico. Il vissuto di Paolo, che s’ispira a quello di Cristo, è un sano esempio di come incarnare la fede e annunciare il Vangelo. Le sane parole non costituiscono un ideale a cui ispirarsi nella vita, per il quale si cercano criteri oggettivamente validi e per di più di carattere morale. Esse sono un punto di riferimento forte e compatto, sicuro, d’orientamento e di crescita. Rappresentano una sorta di pedagogia della fede. Infatti, Timoteo viene educato da Paolo a sviluppare una forte capacità critica ispirata al Vangelo, nonché incoraggiato all’autonomia e alla personalità nelle scelte della comunità, per una piena realizzazione del suo mandato. Tutto questo, però, passa per il vissuto di Paolo: l’esperienza di Cristo – il sàpere la realtà del Vangelo – gli ha permesso d’essere testimone più che maestro.
Le sane parole – la tradizione e la regula fidei (il Credo) – che Timoteo ha ricevuto e ascoltato da Paolo, e che questi gli ha consegnato nel cuore, nelle mente e nelle mani, lo rendono depositario della fede e del Vangelo, e lo impegnano senza tregua all’annuncio e alla difesa della verità, nonché alla consegna, alla trasmissione. A tale fine serve la strada già percorsa da Paolo. Ciò avverrà non semplicemente con la forza e il coraggio di Timoteo, o la sua capacità interpretativa, ma con l’ascolto e il sostegno dello Spirito Santo che abita in noi (cf. 2Tm 1,13-14). Paolo ha consegnato a Timoteo sane parole estratte dalla sua fede e dal suo amore per Gesù Cristo. Paolo affida a Timoteo il kerygma, il Vangelo della gloria esposto da lui con forza di fede (cf. 2Cor 4,13). Questo kerygma costituirà, d’ora in poi, il punto di riferimento di tutto il pensare e l’agire di Timoteo. Più che norma e modello, si tratterà di possedere e portare con sé ovunque, mediante una coscienza trasparente, che si apre alla voce dello Spirito, il mistero della fede (cf. 1Tm 3,9).
La vivacità della Parola dovrà confrontarsi con le situazioni ecclesiali e pastorali più disparate. E dovrà essere punto di riferimento, elemento critico e di discernimento per agire. C’è un annuncio vitale che Timoteo deve ricevere e trasmettere. Il Vangelo non è lettera morta. Appartiene alla tradizione viva della Chiesa, al vissuto dei suoi santi, dei testimoni della fede. Paolo è colui che ha parlato con la vita, lasciandosi guidare dallo Spirito. Così, altrettanto, Timoteo sarà colui che ascolterà e rielaborerà con la sua vita i contenuti del Vangelo. L’esistenza di Timoteo diventerà un’articolazione della fede, un insegnamento persuasivo, segno della bontà del suo insegnamento. Queste parole del Vangelo, poi, sono sane perché guariscono, salvano, permettono di conoscere Cristo e di farne esperienza nella fede come Signore o Salvatore. Sono parole che danno speranza, che orientano nel presente e permettono di trovare il senso delle cose, dell’intera realtà.
Si può divenire eretici in due modi: o non camminando con la Chiesa, quindi restando indietro, come nel caso dei giudeo-cristiani (ancorati ai precetti della Legge e incapaci di tenere il passo con la cristologia e con l’entrata dei gentili nella Chiesa; ovvero correndo troppo avanti in direzione sbagliata (cf. 2Gv 7s), come nel caso dei doceti e degli gnostici. In realtà, una dottrina sbagliata diventa veramente eresia quando subentra la volontà di dissidio, specialmente nel momento in cui una porzione della comunità si stacca, sbandierando come segno d’identità una dottrina che esula dall’ottagono della fede o koinonia (o regula fidei od ortodossia).
In prospettiva teologica, l’eresia indica, anzitutto, un’errata concezione della fede, la cui essenza consiste nel separare una o più verità singole dal contesto generale, arrivando con tale isolamento a una loro falsa comprensione, oppure alla negazione di un dogma. Già nel NT si delinea la tendenza di “falsi fratelli” a staccarsi dalla Chiesa per formarne una loro (cf. At 20,30; Col 2,18), aspetto che rimarrà, anche in seguito, sempre caratteristico dell’eresia[57].
I manuali di teologia – quelli classici –, ispirandosi alla teologia di san Tommaso d’Aquino, distinguono un’eresia materiale (quando si aderisca a un’eresia oggettiva, senza per altro aver coscienza di essa) e un’eresia formale (quando ostinatamente e con malizia si aderisca a un’eresia oggettiva). Di fatti, si parla di peccato d’eresia che è altra cosa rispetto al delitto di eresia quando si conservi per sé senza esprimerla l’errata intelligenza o la negazione di un dogma. Chi è caduto nell’eresia in maniera giuridicamente constatabile non appartiene più in senso pieno alla Chiesa[58].
Il contesto in cui si può parlare di eresia è sicuramente ecclesiale: perché l’eresia esiste solamente presso i battezzati che pure intendono rimanere cristiani, e fa riferimento alla tradizione viva della Chiesa, cioè a quel processo non solo ermeneutico, ma pure teologico, spirituale, storico-culturale, nonché liturgico e filosofico (intelligenza critica della fede), attraverso cui si è formata la regula fidei. È fondamentale approfondire il pensiero di chi viene dichiarato eretico o si comporta come tale, perché tutto il cristianesimo è ancora contenuto virtualmente nell’eresia, o nel concetto globale di fede cristiana posseduto dall’eretico. L’eresia può restare anche solamente un fatto verbale, in quanto si limita ad essere un errato non conformismo rispetto alla terminologia della Chiesa e, dunque, senza arrivare allo scisma. È possibile, dal punto di vista storico, guardando anche indietro, nella vita delle comunità cristiane, che non solo l’eresia sia solo verbale, ma che attualizzi una parte importante ed essenziale della dottrina della Chiesa, magari con modi estremi. In tale prospettiva, le attualizzazioni eretiche della fede cristiana possono costituire un forte stimolo per lo sviluppo della prassi teologica e del pensiero cristiano. Questa lettura positiva e paradossale dell’eresia è tipicamente paolina[59]. Infatti, l’apostolo delle genti rilegge l’eresia, per coloro che negano il Vangelo di Gesù Cristo, nell’ottica della storia della salvezza, trovando l’occasione per rinnovare l’annuncio del Vangelo o kerygma. Necessità nella quale la colpa indebita dell’uomo che mutila e limita la verità di Dio rimane pur sempre avvolta nella volontà di Dio per la sua piena rivelazione nella Chiesa.
L’eresia è un modo attraverso il quale la verità di Dio emerge per via di negazione, per reductio ad absurdum. Così, di fronte all’eresia, la Chiesa non deve limitarsi a difendere in modo statico il possesso permanente delle proprie verità da lei già adeguatamente colte. Attraverso le eresie, infatti, anche la Chiesa apprende più profondamente il significato delle sue stesse verità, sentendo le obiezioni ad esse e respingendole appunto come contraddittorie alla sua verità e alla sua comprensione di sé, ancora in divenire. Attraverso il contatto con gli eretici, la Chiesa scopre di non essere la Verità, ma di essere posseduta dal Cristo che è la Verità, ed è favorita nel recuperare un rapporto vero, vivo, esperienziale con il Vangelo.
Per necessità di sintesi, è conveniente segnalare in modo schematico questi movimenti eretici o comunque gruppi cristiani con tendenze eterodosse. Molto dipende dal contesto culturale e religioso d’origine.
a) Gli ebioniti: il significato è abbastanza oscuro, forse si riferisce all’ebraico e indica i poveri. L’ebionismo è la designazione riferita, nella Chiesa antica, agli appartenenti al giudeo-cristianesimo, caratterizzati dall’osservanza della Torah, dalla grande stima per l’apostolo Giacomo, dal rifiuto dell’apostolo Paolo, ma anche del culto sacrificale. In questo gruppo, che nel vicino oriente durò fino al V secolo, si trovano anche delle influenze gnostiche a sfondo dualista. Gli ebioniti sottolineavano soprattutto l’umanità di Gesù e la sua messianicità. Cristo è principalmente un profeta e non proprio il figlio di Dio. Insieme agli ebioniti si richiamano, per tale tendenza, gli elxaiti, seguaci di Elxai, termine di provenienza semitica che significa forza nascosta. Gli elxaiti sono noti a Origene e Ippolito di Roma. Si ha come punto di riferimento una cristologia del battesimo di Gesù.
b) I doceti: il cui nome deriva dal greco dokein (“sembrare”), formano una corrente di pensiero cristologico per la quale la corporeità terrena di Gesù sarebbe stata soltanto parvenza e illusione dei sensi. Così, anche la croce sarebbe stata una sofferenza apparente e in vista di ingannare i non credenti. Il docetisimo non era una dottrina completa tesa a costruire una setta, bensì il tentativo di spiegare l’unione del Logos divino, immortale e incapace di soffrire, con un uomo. Comparve già a partire dal tempo apostolico (cf. 1Gv 4,2s.; 2Gv 7) in molte varietà. Qualche gnostico sembra aver asserito un corpo etereo e celeste a Gesù.
La formulazione dogmatica del Concilio di Calcedonia (451) rende impossibili le opinioni docete. In effetti, è giusto parlare di tendenza doceta come tentativo di sminuire l’umanità di Gesù a favore della sua divinità, o anche per la difficoltà nell’interpretare e spiegare il significato dell’incarnazione del Verbo (l’unione ipostatica) e lo scandalo della croce. Molte volte, docetismo e gnosticismo seguono uno stesso percorso culturale e teologico. Contro gli approcci doceti e gnostici, famoso diventerà l’adagio di Tertulliano: «Caro cardo salutis» o vero, «la carne [di Cristo] è il cardine [centro-perno-cerniera] della salvezza»[60]. La carne di Cristo è al centro del grande disegno divino che va dalla creazione alla salvezza. Forte sarà il legame tra incarnazione, redenzione, risurrezione e vita sacramentale all’interno della Chiesa.
c) Gli gnostici: derivano dalla gnosi, movimento storico-sincretico precristiano sviluppatosi negli ambienti cristiani dei secoli II e III. Lo gnosticismo è una tendenza dello spirito umano che ricerca il senso della vita nella conoscenza. Fonti letterarie ci provengono dagli stessi Padri della Chiesa che confutarono tale movimento (Giustino, Ireneo, Ippolito, Clemente) e da testi originali ritrovati a Nag-Hammadi (Egitto) nelle scoperte del 1945, tra cui il Vangelo di verità. Lo gnostico esperisce la salvezza mediante la conoscenza o gnosi di Dio, ponendosi le domande essenziali dell’esistenza: “Chi siamo, che cosa siamo diventati; dove siamo, dove siamo stati precipitati, dove tendiamo, dove siamo purificati; che cosa è la generazione, che cosa è la rigenerazione?”. Si afferma una conoscenza perfetta mediante una rivelazione privata e un’illuminazione che avviene da maestro a discepolo. La salvezza è il ritorno dello gnostico all’io originale e al principio divino che lo costituisce, pur se decaduto nel mondo materiale. Lo gnostico sa di non appartenere al mondo e che in lui solo l’uomo interiore e spirituale è capace di salvezza: egli è luce prigioniera della materia. Lo gnosticismo, come eresia cristiana, si costituisce a motivo dell’incontro tra gnosi greca e gnosi giudaica.
Nel II secolo, in ambito cristiano, lo gnosticismo si afferma con due figure illustri: Valentino di Alessandria e Marcione di Sinope. Se quest’ultimo sarà ricordato per il rifiuto dell’AT e per l’adesione parziale al canone del NT, Valentino farà strada per la sua dottrina del pleroma e dei trenta eoni, tratta dall’esegesi allegorica dei testi biblici. Cristo è l’ultimo eone, Sophia, che è stato espluso dal mondo del pleroma (pienezza della divinità) e buttato nel mondo del kenoma (mondo della materia o del vuoto). Tra i due mondi vige l’horos (l’orizzonte). La salvezza consiste nel risalire dal kenoma al pleroma, liberandosi della materia e di tutto ciò che è corporeo. Di conseguenza, la gnosi cristiana nega sia l’incarnazione che la crocifissione, nonché la risurrezione della carne. Nella gnosi vige una visione cosmologica molto particolare: la salvezza è nella luce, nell’uscita dalla materia. Gli esseri umani si suddividono in tre categorie: i materiali o hylici (destinati al fuoco eterno); i pneumatici o spirituali (destinati alla salvezza in quanto eletti); gli psichici (il cui destino è incerto a motivo delle loro inclinazioni e volontà),
La gnosi ebbe una grande diffusione nel cristianesimo antico soprattutto perché puntava su una rivelazione privata, personale, facendo leva sugli stati d’animo dei credenti e sulle questioni esistenziali della vita. Molte tendenze gnostiche sono ancora vive in mezzo a noi, soprattutto quando si predica la salvezza delle anime e si mette da parte il cuore della fede cristiana che è la risurrezione nella carne! Il successo della gnosi antica è dovuto anche al fatto di aver indagato il mistero di Dio in sé: “Cosa fa Dio dentro di sé? Come vive in solitudine?”. Da qui la teoria dei trenta eoni: Dio produce – per via di emanazione, quindi per decadenza e degradazione – altri esseri divini (è forte il riferimento a Plotino e alla sua teoria dell’Uno-Logos-Nous). Quanto più ci si allontana dal Dio in sé, l’Uno, tanto più si diventa deboli e si è soggetti a decadere. Questo è stato il destino di Sophia che, in ambito cristiano, è identificato con Gesù Cristo. La gnosi creerà il mito del redentore redento: Cristo è Sophia che si libererà dalla materia per ritornare ad essere pura luce e illuminare tutti gli uomini eletti. Molti tratti gnostici sono pure doceti: si nega l’incarnazione, la passione, tutto ciò che è l’umano di Gesù[61].
d) Gli adozionisti: sono coloro che negano la divinità di Gesù e affermano solamente la sua umanità. Cristo è stato soltanto un uomo, anche se un figlio contraddistinto da Dio in maniera particolare, anzi unica, e perciò “adottato”. L’adozionismo fa parte della corrente sorta nel I secolo del monarchianismo, la quale, seriamente preoccupata della fedeltà al monoteismo, non accettava la venuta di Dio stesso nella sua creazione nell’incarnazione (sono menzionati, oltre a giudeo-cristiani della prima ora, nel III sec. Paolo di Samosata; nell’VIII sec. Elipando di Toledo, Felice di Urgel e altri). Un testo biblico di riferimento per gli adozionisti è quello del battesimo di Gesù al fiume Giordano: è lì che Cristo viene adottato dal Padre.
e) I monarchiani: sono coloro che professano la dottrina dell’unica causa prima. Il monarchianismo è un concetto attestato in Tertulliano che serve da denominazione collettiva per tutti gli sforzi che cercano di mettere d’accordo la fede giudaica, che fu anche la fede di Gesù, nell’unicità di Dio con la concezione cristiana della divina Trinità. Questo concetto non può né deve essere inteso a priori come designazione di un’eresia, poiché Dio nella tradizione di fede dei Padri è l’unica, invisibile, causa prima d’ogni realtà non divina. Forme di monarchianismo rifiutate dalla Chiesa sono, oltre all’adozionismo, il moralismo del patripassianismo, secondo il quale Dio Padre avrebbe sofferto sulla croce nel modus del Figlio.
f) I subordinazionisti: sono coloro che professano la dottrina del subordinazionismo che è relativa al dogma della Trinità (sec. II-IV). Nella visione subordinazionistica, il Logos divino e lo Spirito Santo non sono consustanziali con il Padre (homooúsios), ma soltanto forze divine, mediante le quali il Padre agisce secondo l’economia della salvezza sulla creazione e sulla storia. Il subordinazionsimo è un tentativo di chiarimento nella controversia con il modalismo e il sabellianismo, particolarmente marcato nell’arianesimo e negli pneumatomachi. Dopo i concili di Nicea (325) e di Costantinopoli (383) non fu più sostenibile in senso ortodosso.
La tendenza subordinazionista fu favorita dallo schema teologico di Teofilo d’Antiochia (secolo II). Egli, investigando in modo critico-sistematico la vita intradivina del Verbo, pensò ai due modi di esistenza del Logos. Nel Padre, il Verbo rimane inespresso e immanente (impersonale), come il pensiero e la ragione sono nella mente. Invece, nell’atto della creazione, il Verbo è promanato dalla mente divina acquisendo una forma d’espressione ad extra, come quando il pensiero si manifesta in parole. La teoria del Logos interiore, se male interpretata, afferma l’impersonalità del Verbo in Dio e la sua costituzione solo nel momento in cui viene proferito.
Anche la dottrina di Origene favorì una visione subordinazionista nel legame infratrinitario. Origene, però, riprese la categoria ontologica della consustanzialità. Il Padre resta incomprensibile: egli si rivela solo nel Logos, figura espressa della sostanza e sussistenza dell’Iddio. È la volontà del Padre a dare sussistenza a tutto. Il Figlio è l’immagine del Padre perché fa tutto ciò che fa il Padre. La generazione del Figlio è ab aeterno: il rapporto con il Padre è caratterizzato dall’unità di sostanza (omoousios). Così, il Logos è coeterno con il Padre, ma il significato è diverso, poiché il Dio (l’Iddio) non si può comunicare se non attraverso il Verbo. Il Pare è l’ingenerato, il Principio senza principio, l’Origine, la Fontalità, l’Iddio. Il Figlio è solamente Dio. Il Padre è al di là di ogni idea e concetto di sostanza. Il Padre è innascibile, ingenerato e nel conoscere è maggiore del Figlio, perché è dal Figlio conosciuto. Sia il Figlio che lo Spirito procedono dal Padre in modo diverso. Il primo per generazione spirituale che non altera la natura del Padre né la consustanzialità con il Figlio. Confuso sulla processione dello Spirito, Origene sottolineò che è increato, consustanziale al Padre e al Figlio. Partecipare allo Spirito Santo è la stessa cosa che partecipare del Padre e del Figlio, poiché la Trinità è tutta una e incorporea. Lo schema subordinazionista appare evidente nel rapporto di Dio con il mondo: il Padre (l’Iddio, l’Origo omnium divinitatis, il Principio) raggiunge tutti gli esseri, perché partecipa a tutti l’essere che egli è. Il Figlio (consustanziale, generato e non emanato) si relaziona solo alle creature razionali conferendo il Logos che egli è. Lo Spirito (increato e consustanziale) è comunicato solo ai santi. Lo schema subordinazionista è evidente: il Figlio è minore del Padre, e lo Spirito è ancora inferiore rispetto al Padre e al Figlio[62].
La fluidità del discorso trinitario in teologia si complicava per la mancata definizione dei termini persona (hypostasis), natura (physis) e sostanza-essenza (ousia). Tuttavia, era iniziato un vero e proprio processo d’inculturazione della fede (rapporto tra kerygma e culture, in particolar modo con l’ellenismo) e di evangelizzazione della culture.
g) I modalisti: sono chiamati così tutti coloro che, a proposito della Trinità e della sua rivelazione, credono nel Dio unico la cui trinità consiste esclusivamente nei suoi modi operativi verso l’esterno. A partire dal XIX sec., il concetto di modalismo fu applicato specificamente per gli assertori del patripassianismo e del sabellianismo. Nella discussione odierna, vi sono alcuni teologi che hanno richiamato l’attenzione su tale problematica, tra cui K. Barth, K. Rahner e J. Moltmann.
h) I sabelliani: sono i seguaci della dottrina di Sabellio, un patripassiano che, per difendere la monarchia monoteista, contro le speculazioni sul Logos e le ipostasi, vede nel Figlio e nello Spirito i due modi con i quali il Padre, Dio dell’AT, si è manifestato nella storia. Sabellio, insieme ai suoi seguaci, modificò la dottrina patripassiana di Noeto di Smirne (verso il 170) nel senso che l’unico Dio si sarebbe, appunto, rivelato nell’AT come Padre, nell’incarnazione come Figlio e nella comunità apostolica come Spirito Santo. Il vescovo Callisto (siamo verso il 217-222 d.C.), che dovette difendersi dal sospetto di patripassianismo, escluse Sabellio dalla comunità dei cristiani di Roma.
i) I patripassiani: sono i diffusori del patripassianismo il cui termine è di origine latina e fu impiegato in senso polemico per combattere il modalismo di cui sopra. I principali rappresentanti di questa eresia furono Noeto di Smirne verso il 170 e Prassea verso il 189-198 a Roma. Prassea insegnò che i Tre (Padre, Spirito, Cristo) sono la realtà divina in Gesù. Con il termine “figlio” si indica soltanto la carne di Gesù: così, nella passione ha patito soltanto la carne di Gesù, mentre il Padre-Spirito ha con-patito. In gioco vi era il tema della passibilità di Dio.
l) I pneumatomachi o macedoniani: sono così definiti da alcuni teologi greci del IV secolo coloro che contestano la divinità dello Spirito Santo. Da qui l’appellativo “pneumatomachi”, mentre il termine “macedoniani” stava a indicare i seguaci del vescovo Macedonio di Costantinopoli (morto nella seconda metà del IV sec.) che non era ufficialmente un pneumatomaco, tuttavia la sua dottrina fu interpretata in modo eterodosso dai suoi discepoli. Questi infatti, non riconoscevano una piena personalità divina allo Spirito. È chiaro che tale eresia si sviluppò in seguito all’arianesimo.
m) Gli ariani: sono i seguaci del presbitero di Alessandria, Ario il quale negò la divinità di Cristo. Questi è, per Ario, solo una creatura umana e quindi non è generato dal Padre, bensì creato nel tempo. Ovviamente, l’arianesimo ebbe sviluppi abbastanza complessi. Il maggiore avversario di Ario, che apparteneva alla scuola teologica di Antiochia – attenta quest’ultima all’umanità di Gesù e a un’esegesi soprattutto verbale e letterale della Scrittura –, fu Atanasio di Alessandria, morto nel 373. Il concilio di Nicea (325) definirà in modo solenne la dottrina della consustanzialità: il Figlio è della stessa sostanza del Padre. Tuttavia, l’ambiguità del termine consustanziale, precedentemente rifiutato, darà origine a forme medie di arianesimo.
n) I monofisiti: sono coloro che professano la dottrina dell’unica natura in Cristo. Dopo l’incarnazione, la natura umana del Verbo sarebbe stata assorbita dalla natura divina come una goccia che cade viene a unirsi alle acque dell’oceano, o come una goccia di miele viene sciolta nell’oceano. Era questa la teoria di Eutiche, archimandrita di un monastero di Costantinopoli alla metà del V secolo. Con il Concilio di Calcedonia (451) si chiarirà il significato dell’unione delle due nature in Cristo e si parlerà di ipostasi in termini più precisi rispetto al vocabolo physis (natura o sostanza).
o) I monoteliti: sono coloro che professano la dottrina dell’esistenza di una sola volontà in Cristo, negando anche la volontà umana. Questa concezione è sorta nel VII secolo nell’impero romano d’oriente, per conciliare gli assertori del monofisismo con i sostenitori del Concilio di Calcedonia. Nell’ambiente che circondava il patriarca Sergio di Costantinopoli si ricorse (dal 618 d.C.) a una discussione del VI secolo su un’unica forza operante (energia) in Gesù Cristo e si parlava sì di due nature, ma di un solo modo d’azione. Questa dottrina fu chiamata “monoenergismo”. Essa ebbe un effetto riconciliante nelle trattative per l’unione con le Chiese che rifiutavano Calcedonia. Nel 633, Sergio proibì di parlare di una o di due energie. Tuttavia, poiché aveva espresso l’opinione che la dizione di due energie suggerisse due volontà contraddittorie in Gesù Cristo, affermò implicitamente un’unica volontà. Papa Onorio, informato da Sergio, prese personalmente posizione a favore di un’unica volontà in Gesù Cristo, cosicché da allora si discusse sulla volontà (thelêma) anziché sulle energie. In modo più sistematico, il terzo Concilio di Costantinopoli (680-681) insegnò che in Gesù Cristo ci sono due attività naturali (con Calcedonia: senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili) e due volontà naturali, che non stanno in contrapposizione reciproca, dal momento che la volontà umana è subordinata a quella divina.
p) Gli apollinaristi: il termine richiama l’interpretazione dottrinale della cristologia monofisita di Apollinare, vescovo di Laodicea (siamo nel IV secolo). Secondo Apollinare, Gesù Cristo possedeva una sola natura, che consisteva nella divinità del Logos e nella carne umana. A Cristo veniva negata l’anima razionale a motivo del peccato originale. Al posto della parte spirituale dell’anima sarebbe invece subentrata la forza di volontà, radicalmente non peccatrice, del Logos divino.
q) I montanisti: formano un movimento carismatico e profetico che prende il nome dal frigio Montano (metà del II secolo). Il montanismo era caratterizzato da una profezia estatica nella quale le profetesse e i profeti, in quanto annunciatori e interpreti, forse anche incarnazioni dello Spirito Santo, annunciavano l’obbligo di un digiuno rigoroso, l’impossibilità di una remissione di peccati gravi e un alto valore del martirio, forse pure un’imminente fine del mondo. Tertulliano appartenne per lungo tempo a tale movimento che sviluppò una propria gerarchia.
r) I nestoriani: sono i seguaci di Nestorio, patriarca di Costantinopoli (morto verso il 451), secondo il in Gesù Cristo coabitavano due figli o persone in un’unità soltanto esteriore o morale (attraverso il prosopon unionis). Così, Cristo non sarebbe né vero Dio né vero uomo. La difficoltà di Nestorio riguardava il come – il modo in cui – il Verbo aveva assunto la natura umana. Questa dottrina fu condannata dal Concilio di Efeso (431) grazie all’intervento, non sempre chiaro, di Cirillo di Alessandria. Nestorio, in verità, avrebbe voluto salvaguardare sia l’integrità della natura umana di Gesù, sia l’unità della persona del Figlio, però evitando una mescolanza tra le due nature. In quanto esponente della scuola teologica di Antiochia, usò la formulazione dell’assunzione dell’uomo da parte del Logos e dell’inabitazione del Logos nell’uomo. Il linguaggio di Cirillo, comunque, restava impreciso e ambiguo. Infatti, egli parlava di un’unica natura in Gesù Cristo. Restava da chiarire il significato di natura (physis o hyostasis). Le Chiese nestoriane, ancora oggi esistenti, parlano in cristologia di due nature, di due ipostasi e di una persona in Gesù Cristo.
s) I pelagiani: sono i discepoli di Pelagio, secondo la cui dottrina, il peccato originale non ha nessuna influenza ontologica sull’uomo. Pelagio, teologo laico britannico, morto prima del 431, era un sostenitore del libero arbitrio, come pure un asceta, intento a liberare i cristiani da ogni forma di fatalismo e di pessimismo. Per cui, egli sosteneva che l’uomo, con le sue sole forze, sarebbe stato capace di non commettere il male, senza l’aiuto della grazia divina. In verità, più che negare il peccato di Adamo, ne riduceva il valore degli effetti sul genere umano: quello di Adamo è stato solo un peccato d’imitazione, un cattivo esempio per noi. La condanna di Pelagio, per la quale molto si deve ad Agostino, non contribuì per nulla a una più esatta comprensione del rapporto fra grazia e libertà. Anzi, inaugurava una nuova stagione di riflessioni su un tema così delicato[63].
3. Alcune definizioni conciliari: da Nicea a Calcedonia
Appare alquanto riduttivo presentare in modo schematico e sintetico i risultati più importanti di alcuni concilii ecumenici. A noi preme, in quest’ultima parte della riflessione, rilevare come nel processo ermeneutico della fede i Padri della Chiesa e gli autori cristiani antichi hanno elaborato un proprio metodo teologico assieme a un modo particolare di fare esegesi. Vige una lettura ecclesiale delle Scritture, cioè alla luce della Tradizione viva della Chiesa. Inoltre, i Padri cercavano il Cristo nelle Scritture[64].
Nel Concilio di Nicea, ad esempio, la Trinità narrata viene anche confessata. La crisi inaugurata da Ario, presbitero di Alessandria (morto nel 336 d.C.), è il segno concreto che il racconto della Trinità è entrato nell’intricato processo dell’interpretazione storica, con la difficoltà a conservare la propria identità e purezza semantica. La teologia si fa ermeneutica e, in caso di dottrine fuorvianti, l’ermeneutica pretende il riconoscimento dello statuto teologico. Ario negherà la divinità di Gesù, cioè la consustanzialità divina. La sua riflessione teologica tende a salvaguardare l’unicità di Dio e s’aggancia al rigido monoteismo ebraico. Da qui la proposta di un pensiero cristologico dal basso nell’orizzonte profetico-messianico. Fino a che punto Gesù è Figlio di Dio? Quali conseguenze in lui e in Dio produce la sua condizione celeste? La tensione riguarda il difficile rapporto tra umanità e divinità in Cristo. La tensione è sempre più forte e, nel tentativo di conciliare l’essere vero Dio di Dio e l’essere vero Dio di Gesù, Ario sceglie la via più semplice, cioè il rifiuto di uno dei due termini. Così, Ario negherà l’essere vero Dio di Gesù, favorendo il primato dell’essere vero Dio di Dio. Ario sembra salvaguardare l’unicità assoluta del Padre.
Ci troviamo innanzi a una forma di monarchia trascendente. La formazione culturale di Ario – che è stato alla scuola di Luciano d’Antiochia – rientra in quella della teologia del Logos che riconosce nel Dio unico l’ingenerato, il senza principio, l’eterno, e che afferma nel Verbo una condizione ontologica diversa dal Padre. Lo schema cristologico del Logos-sarx è alquanto fuorviante o incompleto perché non considera l’anima razionale nell’uomo di Gesù. Il Verbo vive nella sua medesima condizione la storia di Gesù, soggetto al divenire e al pathos, solidale in tutto con la sarx, riducendosi a non essere né vero Dio, né vero uomo, ma un intermediario teo-antropico. Il vero Dio assolutamente unico è il Padre; il Figlio è tutto dalla parte delle creature. Così, il Verbo non esiste dall’eternità con il Padre, è creato dal nulla, non si può predicare la sua naturale figliolanza dal Padre, bensì ha cominciato a esistere per un atto della volontà del Padre. Infine, il Verbo è soggetto per natura al mutamento fisico-morale.
Una particolare esegesi biblica aiutava Ario e i suoi seguaci a sostenere tale teoria. Il ricorso era a quei passi biblici che palesemente dicevano l’inferiorità del Figlio rispetto al Padre (cf. Gv 14,28; 17,3; Mc 10,18), che pronunciavano una certa ignoranza e limite della condizione di Cristo (cf. Mc 13,32; Gv 11,33.39), un uso metaforico della figliolanza divina uguale per tutti gli uomini (cf. 1Cor 8,6; Gv 1,12; Dt 14,1; Is 1,2; Pr 8,22), l’idea della creazione, generazione come cambiamento o fermo nella sfera dell’umano (cf. Col 1,15; At 2,36; Eb 1,4; 3,1). Il simbolo niceno, di là delle problematiche sulle sue origini e manipolazioni rispetto al suo contenuto, strutturato in modo trinitario e in due sezioni, confessa Gesù Cristo come “unigenito dal Padre”, “generato, non creato”, “figlio di Dio”, “cioè della stessa sostanza” (omoousion [di una sola sostanza con il]). La prima giunta antiariana è nel “cioè” che permette di meglio comprendere l’interpretazione definitiva del “generato dal Padre”[65]. Il Figlio partecipa totalmente dell’essenza divina. È “da Dio” non come tutte le cose (cf. 1Cor 8,6), ma a modo di Dio, cioè dalla stessa sostanza. L’identità di Gesù è precisata ricorrendo alla teologia del quarto Vangelo (“Dio da Dio”, “Luce da Luce”). Tuttavia, solo parte del linguaggio è di tipo economico-salvifico, cioè pasquale (“un solo Signore”). Il termine omoousion afferma la generazione autentica dal Padre. Il Figlio di Dio non ha alcuna somiglianza con le creature create: è totalmente simile al Padre, non deriva da altra persona o ipostasi. Nel “cioè” si vuole raccogliere l’uguaglianza o l’equivalenza tra il linguaggi biblico e quello ellenistico. Il Figlio e il Padre coesistono dall’eternità. Il Padre genera eternamente. “Dio vero da Dio vero” significa che non solo il Padre è vero Dio, ma anche il Figlio, in tutti i sensi. Il Figlio è altresì “vero uomo”: la sua venuta nella carne è per motivi soteriologici. Perché l’incanazione è “per la nostra salvezza”. Ario ruba ai cristiani il “salvatore” negando la sua umanità vera: il Figlio è venuto a salvare l’uomo tutto intero e, per questo, ha assunto un’umanità completa, salvando tutto ciò che ha assunto e divinizzando l’uomo. Vi è un’intrinseca appartenenza tra la soteriologia, il Cristo pro nobis e la cristologia (il Cristo pro sibi).
Il Concilio di Nicea segna la rottura con la cultura pagana ellenizzando il kerygma con strutture linguistiche e deellenizzando la fede quanto a falsi contenuti. Il Figlio è generato ab aeterno! Il rifiuto della cultura greca riguarda la comprensione cosmologica del Logos del medio-platonismo. Omoousion significa che il Figlio si mantiene sul medesimo grado d’essere dell’unico Dio, rompendo con la prospettiva medio e neoplatonica. Omoousion è l’attualizzazione della fede pasquale, la cristalizzazione dell’esperienza della pasqua in un contesto ben determinato, il rispetto della legge dell’incarnazione del Verbo, l’attraversamento della densità della storia da parte del Vangelo e della medesima fede ecclesiale. Omoousion esprime altresì la necessità di tradurre in linguaggio l’esperienza di fede del Cristo morto e risorto. A Nicea abbiamo l’esempio pratico di una possibile sintesi – non priva di tensioni – tra inculturazione della fede ed evangelizzazione delle culture. Il rapporto tra fede e cultura, teologia e storia, ermeneutica e kerygma, è sempre bipolare e si afferma, positivamente, mediante la fusione d’orizzonti. Nicea riprende l’originario paradosso della fede: Dio viene alla persona come Dio! È il mistero dell’incarnazione.
Certamente, il linguaggio utilizzato a Nicea non è privo di conflitti. Il termine omoousion fu esplicitamente condannato al sinodo d’Antiochia nel 268. Perché fu usato in senso monarchiano da Paolo di Samosata. La ricezione di questo termine provocò notevoli confusioni: essendo un aggettivo greco derivante da ousia, presenta più significati: somiglianza nell’essere tra esseri diversi, di grado o di modo d’essere[66]. È chiaro, dunque, che Nicea non pose fine alle controversie in seno alla Chiesa sia per l’ambito trinitario della fede che per quello cristologico. Sant’Atanasio e sant’Ilario di Poitiers molto si adoperarono per una comprensione più chiara di questo primo concilio ecumenico e per l’esclusione di equivoci dogmatici[67].
Un altro esempio di incontro-scontro tra fede e ragione, kerygma e storia, nonché di inculturazione della fede e di evangelizzazione delle culture, ci è dato dal simbolo niceno-costantinopolitano (del 381). Questo simbolo costituisce una delle poche fibre che ha tenuto insieme il tessuto stracciato della veste cristiana. Ne abbiamo notizie, per la prima volta, al Concilio di Calcedonia, nel 451[68]. Le circostanze dubbie della sua redazione non riducono l’ampio respiro ecumenico e di fede universale che tuttora gode. È interessante mettere in rilievo la dimensione pneumatologica e quella liturgico-cultuale. In questo simbolo non si afferma esplicitamente che lo Spirito Santo è Dio, bensì che è “Signore e dà la vita [vivificante]”. Si segue una struttura battesimale che riprende l’ortodossia di Nicea. Uno degli obiettivi di questo simbolo fu di inserire la dottrina dello Spirito Santo sul piano divino, così come era avvenuto a Nicea per il Figlio.
Il sorgere delle eresie pneumatiste è uno dei primi frutti dell’arianesimo radicale della seconda generazione ariana che trova esponenti nel diacono siriano Aezio e in Eunomio. Il rapporto di non somiglianza tra il Padre e il Figlio stabilisce anche la differenza dello Spirito Santo, secondo una legge di degradazione trinitaria. Come il Figlio è inferiore al Padre, così lo Spirito è inferiore al Figlio. L’unità divina è fondata su un rapporto di ineguaglianza. La divinità dello Spirito Santo fu compromessa anche dai tropici egiziani, fedeli che argomentavano sui tropi, figure di parole impiegate dalla Scrittura, parlando di generazione anche per lo Spirito o di creazione, relegandolo nella sfera dell’umano o del divino. Contro di questi, Atanasio dimostrerà che lo Spirito Santo non è né angelo né una creatura umana, poiché ha prerogative divine: viene da Dio (cf. 1Cor 2,12), riempie l’universo (cf. Sap 1,7), è unico come il Padre e il Figlio (cf. 1Cor 12,4-6), svolge le attività proprie di Dio (cf. 1Cor 6,11; Tt 3,5-6; Sal 103,30). La divinità è mostrata altresì dalle relazioni trinitarie. Il Padre, infatti, agisce inseparabilmente dal suo Verbo e dallo Spirito Santo. Inoltre, si attinge alla fede battesimale così come dimostra san Basilio[69].
Non vogliamo qui entrare in merito alla discussione sul Filioque, ma solamente riaffermare lo stretto legame tra teologia ed ermeneutica: il pensiero della fede, la ragionevolezza del credere, si confronta con i nuovi contesti culturali e con tutte le forme di pluralismo presenti in un determinato luogo e nelle diverse città abitate dai cristiani. Il Logos cristiano diverrà una meravigliosa sintesi di come possono convivere assieme culture, tradizioni, religioni, spiritualità diverse. Ciò esula strettamente dalle prospettive del dialogo interreligioso, tuttavia ne richiama le premesse o i prodromi proprio a partire dalle teologie del Logos e dal kerygma. In tal senso, il pensiero cristiano ha sempre cercato un respiro universale.
4. Rilievi conclusivi
La teologia cristiana non può rinunciare al tentativo di motivare il pluralismo partendo dalla natura simbolica di Dio o dall’amore sorgivo e relazionale della Trinità. È qui la radice cristiana d’una possibile giustificazione del pluralismo e, quindi, del dialogo interreligioso. Le teologie del Logos, che hanno evidenziato la funzione universale del Cristo cosmico, nei primi secoli del cristianesimo, costituiscono un originale tentativo – tuttora valido – d’elaborare una teologia della storia che tenga assieme sia la mediazione unica di Cristo, sia la volontà salvifica del Padre, sia il valore positivo delle culture altre, sia delle tradizioni religiose più differenti.
Anche a partire dalla concezione del Logos è possibile giustificare il pluralismo religioso: dove c’è l’uomo c’è sempre Dio in azione! Cristo assume un significato per il mondo, un valore per tutta l’umanità e viceversa. La storia della salvezza riceve amplificazioni grazie a una possibile teologia della storia. Le età dell’universo costituiscono, nella teologia del Logos, pur se con accezioni diverse, degli stadi successivi dell’automanifestazione del Logos divino. Il Verbo eterno è attivo nel cosmo fin dall’inizio anche se il mistero della sua automanifestazione ha attraversato varie economie prima di raggiungere il suo culmine nell’incarnazione. In realtà, la storia delle religioni e dello stesso dialogo è stata una presa di posizione, positiva o negativa, sebbene inconscia, di fronte al Verbo di Dio veniente nella carne dell’uomo[70].
I Padri della Chiesa hanno cercato, anche se con forme differenti, nella storia salvifica anteriore al Cristo, l’azione del Logos che in certa misura comincia già a incarnarsi, evitando di far dirigere tutto da Dio dal cielo, e ritrovando il disegno salvifico già nel cuore dell’uomo e della storia. Certamente, la storia delle religioni, nel suo insieme, come pure nel caso del dialogo, deve essere integrata nella storia unica del dialogo tra Dio e il mondo che sfocia nell’incarnazione del Verbo. Tale evento non mortifica il dialogo con l’umanità, i popoli, le fedi, anzi, lo amplifica e lo rende vero, autentico. D’altronde, le teologie del Logos hanno voluto, soprattutto, affermare che la salvezza è stata accessibile a tutte le persone nel corso della storia e che è sempre salvezza in Gesù Cristo. Ciò vale anche per i giusti pagani, per quella ecclesia ab Abel che è presente nel primo giusto fino all’ultimo sulla faccia della terra!
Certamente, le definizione dogmatiche hanno il difficile compito di farci comprendere che indietro non si può tornare: esse garantiscono l’eliminazione di qualsiasi processo regressivo nell’approfondimento della fede e del kerygma primitivo. Nel dialogo con le culture, i popoli, le religioni, il cristianesimo si fa portavoce della grande verità ricevuta e consegnata nei secoli: nel Verbo incarnato, vero Dio e vero uomo, il Padre parla e si rivela all’umanità per la potenza dello Spirito Santo e attraverso quella forma storica, se pur debole e fragile, che è la Chiesa. Nell’umano di Gesù, quindi, abbiamo la massima amplificazione del donarsi di Dio nella storia[71]. Le religioni e le tradizioni culturali e spirituali sono un segno della pienezza – «di quel raggio di verità»[72] – di quell’Amore-Crocifisso che sempre parla, per vie misteriose, all’uomo e alla società di ogni tempo e luogo.
Occorre evitare, soprattutto oggi, nell’ambito pluralistico e della dittatura-ideologia del relativismo, un ingenuo ritorno alla gnosi, ai miti gnostici. Si dimentica spesso che Gesù, il Cristo, è la forma definitiva di Dio nella storia. Egli è il volto del Padre, il simbolo reale differenziato di Dio. Egli è l’unione ipostatica, l’autoespressione del Dio in sé. Per quanto volto storico, frammentato, culturalmente e socialmente condizionato, è l’immagine del Dio invisibile. Non è pensabile – dal momento dell’incarnazione – nessun Logos ab aeterno che non sia il Logos-sarx.
Cristo è il simbolo personale del Padre, il suo volto, cioè la perfetta mediazione e rivelazione (piena e assoluta). È reale proprio perché personale. Differenziato in virtù dell’unione ipostatica, cioè situato tra oggettività e soggettività, immanenza e trascendenza. Si differenzia da ogni altro simbolo di mediazione in virtù dell’Io umano (personalità umana o centro umano-psicologico d’azione) che è unito all’Io divino, alla persona del Figlio (soggetto d’attribuzione di ogni attività di Gesù). L’unicità di Gesù Cristo è nell’unione ipostatica: egli rivela Dio come Padre dell’Unigenito. La differenza di Gesù rispetto ad altri simboli è ontologica: riguarda il suo essere Figlio unigenito (generato dal Padre). Il Verbo eterno, infatti, non è una rivelazione qualsiasi del mistero di Dio, ma il volto del Padre[73]. La mediazione di Cristo è unica perché rivela Dio come Padre e il segreto dell’umanità che consiste nella filiazione. L’umano rivelato da Gesù è filiale. Per cui, Gesù, in quanto simbolo reale differenziato di Dio, è portatore di una differenza di natura e di grado. Di natura, perché può rivelare come Figlio; di grado, perché il suo umano è redento, cioè libero da qualsiasi ombra o deviazione.
Nel Verbo fatto carne vi è piena identificazione tra Parola-messaggio-contenuto e rivelazione-comunicazione-linguaggio. Vi è perfetta adesione – una linea retta – tra il Dio che si rivela e il Dio rivelato. Ciò determina sia la differenza di natura (perché il Logos-sarx è il contenuto della comunicazione) si di grado (perché il Logos-sarx è la forma, il linguaggio, della comunicazione). Non ci sono variazioni, né angoli di divergenza tra colui che parla e comunica un contenuto e colui che ascolta e riceve il messaggio. Si può, giustamente, parlare di differenza sostanziale tra la rivelazione di Cristo – nella sua stessa mediazione – e ogni altra forma religiosa di rivelazione e di mediazione. Ciò è espresso in maniera meno astratto, ma sempre con rigore, attraverso la categoria del volto: Cristo è il volto del Padre (cf. Gv 14,9-11) e non un simbolo o segno qualsiasi del divino metacosmico. Il senso proprio della rivelazione cristiana è la paternità di Dio in Gesù Cristo suo Figlio. Così, si può dire che il cristianesimo è la persona di Gesù Cristo. Questa verità i Padri della Chiesa l’avevano compresa meglio di noi!
Prof. Edoardo Scognamiglio, Ofm Conv.
Docente di Dialogo interreligioso presso la PUU (Città del Vaticano)
Docente di Cristologia presso la PFTIM – Sez. San Tommaso d’Aquino (Napoli)
[1] Cf. L. Padovese, Lo scandalo della croce. La polemica anticristiana nei primi secoli, EDB, Roma 1988.
[2] B. Sesboüé, Il punto di partenza, in Id. (ed.), Storia dei dogmi. I. Il Dio della salvezza. I-VIII. Dio, la Trinità, il Cristo, l’economia di salvezza, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1996, 19.
[3] Per approfondimenti storico-critici, filologici e teologici, cf. i rimandi bibliografici e le considerazioni presenti in E. Scognamiglio, La Trinità nella passione del mondo. Approccio storico-critico, narrativo e simbolico, Paoline Editoriale Libri, Milano 2000, 167-184; 220-226.
[4] Cf. J.N.D. Kelly, I simboli della fede della chiesa antica. Nascita, evoluzione, uso del credo, EDB, Napoli 1987.
[5] Cf. Y.M.-J. Congar, La tradizione viva della Chiesa (a cura di A. Francavilla), San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2003, pp. 84-86.
[6] La coscienza trinitaria della Chiesa è situata alle origini della fede battesimale, in quella confessione simbolica che permetteva all’iniziato o catecumeno di diventare credente e di ricevere la salvezza, donando alla fede stessa un’espressione più completa: «Credi in Dio Padre? Credi in Gesù Cristo, il figlio di Dio, che s’incarnò, e morì, ed è risuscitato? Credi nello Spirito Santo di Dio?» (Ireneo di Lione, Contro le eresie IV,33). Tra i nuclei simbolici della fede antica, presenti nel NT, si ricordano quelli binari (cf. 1Cor 8,6; Rm 4,24; 1Pt 1,21) e quelli ternari (cf. 2Cor 1,21-22; 12,4-5; 13,13; 1Pt 1,2), nonché quelli cristologici (cf. Rm 1,3-4; 8,34; 1Tm 3,16; 2Tm 2,8). Cf. anche Tertulliano, Adversus Praxean II,1; Ireneo, Dimostrazione della predicazione apostolica VI; Pseudo-Ippolito, Tradizione apostolica, XXI; Cirillo di Gerusalemme, Catechesi XIX,2-9; 20,2-4; Agostino d’Ippona, De baptismo XIII; Didachè VII,1; Giustino, Apologia I,61,8.
[7] Cf. E. Scognamiglio, «Annunzia la Parola». Lectio divina sulla Seconda Lettera a Timoteo, Paoline Editoriale Libri, Milano 2008; Id., «Il mistero della pietà». Lectio divina sulla Prima Lettera a Timoteo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2009.
[8] Cf. DV 10.
[9] Cf. J. Gnilka, I primi cristiani. Origini e inizio della chiesa, Paideia Editrice, Brescia 2000, 273-382.
[10] Per un resoconto sull’attuale ricerca, cf. almeno E. Scognamiglio, Vere e false inchieste sul cristianesimo, in Asprenas 56 (1/2 2009) 91,112; G. Gaeta, Il Gesù moderno, G. Einaudi Editore, Torino 2009.
[11] Circa il rapporto Chiesa-Israele, cf. i contributi e i rimandi bibliografici presenti nel numero monografico dedicato all’ebraismo di Credere oggi 135 (3/2002).
[12] Cf. E. Scognamiglio, Il ritorno del Signore. Lectio divina sulla Seconda Lettera di Pietro, Paoline Editoriale Libri, Milano 2007.
[13] Cf. E. Scognamiglio, Testimoni del Risorto. Lectio divina sulla Prima Lettera di Pietro, Paoline Editoriale Libri, Milano 2006.
[14] Cf. J.B. Bauer, Das Verständnis der Tradition in der Patristik, in Kairos 20 (1978) 193-208; E. Scognamiglio, Catholica. Cum ecclesia et cum mundo, Edizioni Messaggero, Padova 2004.
[15] È sufficiente rileggere il racconto dell’incontro tra Gesù e la Samaritana al pozzo di Sichar (cf. Gv 4) per comprendere il significato del culto “in spirito e verità”, come anche il valore della teologia del tempio che è presente nel vangelo di Luca. Il culto “in spirito e verità” ritorna anche nella concezione paolina dell’uomo e della vita nuova in Cristo, come pure in riferimento all’azione dello Spirito Santo nel credente. In 1Pt 2,4-5 troviamo l’immagine delle pietre vive e dell’edificio spirituale. Cf. R. Schnackenburg, Il messaggio morale del Nuovo Testamento. I. Da Gesù alla chiesa primitiva, Paideia Editrice, Brescia 1989; Id., Il messaggio morale del Nuovo Testamento. II. I primi predicatori cristiani, Paideia Editrice, Brescia 1990.
[16] In realtà, il termine eresia è inadeguato: conviene parlare di visioni eterodosse, almeno fino al 325, anno della celebrazione dei primo concilio ecumenico, quello di Nicea, dove avremo ufficialmente delle dichiarazioni dogmatiche ufficiali e di valore universale.
[17] Per questa parte, cf. E. Scognamiglio, Dia-Logos. I. Prospettive. Verso una pedagogia del dialogo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2009.
[18] Atenagora, ad esempio, è preoccupato dell’unità di Dio e, nel suo discorso apologetico-speculativo sulla Trinità, sottolinea l’unione tra il Padre e il Figlio con stile giovanneo: tutto è stato fatto per mezzo del Logos. Il Figlio è nel Padre e il Padre è nel Figlio per l’unità e la potenza dello Spirito. Il Figlio è intelletto (Nous) e ragione (Logos) del Padre (cf. Atenagora, Supplica X).
[19] Cf. Ignazio d’Antiochia, Agli Efesini VII,2. Per questo martire, coloro che minacciano la comunione con la Chiesa sono negatori della Trinità: l’unità dei cristiani è intesa come unità con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Cf. ivi III,3-5; 9,1-2. Un’affermazione corrente dell’Epistola di Barnaba, coeva a sant’Ignazio e al Pastore, riguarda proprio la divinità reale di Gesù: l’umanità del Nazareno è il “vaso dello Spirito”, mentre lo Spirito indica la sua natura divina. Cf. Epistola di Barnaba VII,3; XI,9.
[20] Cf. K. Rahner, Problemi di cristologia d’oggi, in Id., Saggi di cristologia e di mariologia, Roma 1965, 3-91.
[21] Giustino, Seconda apologia X,8.
[22] «Il Figlio di Dio, il solo che sia chiamato propriamente Figlio, esistendo il Verbo con lui, generato prima della creazione, quando all’inizio creò e ordinò tutte le cose, è chiamato Cristo perché è unto e Dio ha ordinato l’universo per mezzo di lui»: (ivi VI,3). Il Verbo non è, per Giustino, l’anima platonica del mondo. L’esistenza del Verbo è legata all’unico Dio. Perché il Padre agisce attraverso il Figlio. Tutte le manifestazioni divine nel mondo hanno luogo attraverso di lui. Ciò vale sia per la manifestazione cosmica e creaturale di Dio sia per la sua rivelazione personale. La manifestazione di Dio nel Verbo è già avvenuta in modo universale, cosmica, prima dell’incarnazione. Cristo è il primogenito di Dio, il suo Verbo, al quale tutti gli uomini partecipano. Il seme del Verbo è innato in tutto il genere umano (cf. ivi VIII,1).
[23] Cf. ivi X,6.
[24] Ivi VIII,1.
[25] Ivi X,8.
[26] Cf. Giustino, Prima apologia 46,2-3.
[27] Cf. ivi 44,10.
[28] GS 22.
[29] Giustino sembra riconoscere, attraverso le sue sparse affermazioni sulla funzione creatrice e illuminatrice del Logos, tre tipi di conoscenza religiosa: quella delle nazioni, quella ebraica e quella cristiana. La fonte unica di tali conoscenze è sempre e solo il Logos, e la differenza tra i vari tipi di conoscenza religiosa si collega alle varie forme di partecipazione del Logos. Tuttavia, il Verbo interviene sempre e comunque in tutto il cosmo e in tutta la storia degli esseri umani. Chiunque ha conosciuto la Verità e ha vissuto rettamente, pur senza conoscere il Cristo, partecipa della sua salvezza. Perché il Logos non è il prodotto della ragione umana, bensì la persona del Verbo, cioè la dunamis del Padre ineffabile.
[30] Cf. Clemente d’Alessandria, Stromata I,1,11,1-2.
[31] Cf. ivi I,5,29,4-7; IV; V,6,35,1; VI,7,58,2.10; VII,2,7,6.16; Id., Protrettico I,8,3; Id., Pedagogo III,8,43,2.
[32] Clemente d’Alessandria, Stromata VI,13,106,3-4.
[33] Cf. Clemente d’Alessandria, Pedagogo I,4-5.20.
[34] Cf. Clemente d’Alessandria, Stromata V-VI.
[35] Ivi I,5,28,1. Cf. anche ivi I,20.
[36] Cf. ivi VI,8.
[37] Cf. ivi I,15.
[38] C. Noce, La sapienza delle genti in Clemente Alessandrino, in Parola spirito e vita 26 (2/1992) 201-214, qui 213.
[39] Cf. Clemente d’Alessandria, Stromata I,7.
[40] Cf. Clemente d’Alessandria, Protrettico I,6-7.
[41] Cf. ivi VIII,80; IX,84.88.
[42] Cf. ivi XII,120-122.
[43] Cf. Ireneo di Lione, Contro le eresie IV,20,6-7.
[44] Cf. ivi IV,6,6.
[45] Cf. ivi III,6,2.
[46] Cf. ivi IV,6,7.
[47] Ivi III,11,6.
[48] Ivi II,6,1.
[49] Cf. Ireneo di Lione, Dimostrazione apostolica XII.
[50] Cf. Ireneo di Lione, Contro le eresie III,11,8.
[51] Cf. ivi III,15,3; IV,5,3; Ireneo di Lione, Dimostrazione apostolica XLIV.
[52] Cf. Ireneo di Lione, Contro le eresie IV,20,12.
[53] Cf. ivi IV,34,1.
[54] Cf. ivi I,10,1; III,16,6; IV,33,15.
[55] Cf. E. Scognamiglio, Ecco, io faccio nuove tutte le cose. Avvento di Dio, futuro dell’uomo e destino del mondo, Edizioni Messaggero, Padova 2002, 275-284.
[56] «Stante l’intima solidarietà fra la creazione e la salvezza portata da Gesù Cristo, non stupisce che il Nuovo Testamento anticipi la mediazione al momento stesso della creazione. Il mediatore della redenzione è il mediatore della creazione. I grandi inni del corpus paolino (Col 1; Ef 1; Eb 1) sono altrettante pietre miliari di questo movimento di ritorno all’origine, che si protende oltre la fondazione del mondo, fino al principio eterno antecedente ogni principio, per scoprirvi il Cristo in cui siamo eletti (Ef 1,4) […]. La creazione è così la prima missione del Figlio e dello Spirito, quelli che Ireneo chiamava le due mani del Padre. Ma il medesimo inno della lettera agli Efesini, non contento di risalire verso l’Alfa, compie anche il movimento di discesa verso l’Omega […]. La solidarietà dei due movimenti è evidente: colui che è alla fine deve essere anche al principio, e reciprocamente. Il racconto storico di Gesù si trova universalizzato attraverso le categorie della fine e del principio. Il Mediatore della salvezza rimane il mediatore del compimento di tutte le cose. Egli ha esercitato all’inizio una mediazione creatrice, ed eserciterà alla fine una mediazione ri-creatrice. Tutto sussiste in lui, tutto sarà definitivamente restaurato, riconciliato e compiuto in lui, mediante lui e per lui. Il racconto totale della salvezza è un racconto cristocentrico […]. Come il momento dell’Alfa proviene dall’eternità di Dio, così il momento dell’Omega vi fa ritorno»: (B. Sesboüé, Gesù Cristo l’unico mediatore. Saggio sulla redenzione e la salvezza. II. I racconti della salvezza: soteriologia narrativa, San Paolo, Cinisello Balsamo [Milano] 1994, 379).
[57] Cf. K. Rahner, Che cos’è l’eresia?, Paideia, Brescia 1964, pp. 10-30. Rahner così definisce l’eretico: «Sotto il profilo giuridico-ecclesiastico, eretico è definito colui che, dopo il battesimo, e conservando il nome di cristiano, ostinatamente si rifiuta o pone in dubbio una delle verità che nella fede divina e cattolica si devono credere» (ivi, p. 29). Per una bibliografia più completa sul tema dell’eresia, cf. F. Carcione, Le eresie. Trinità e incarnazione nella Chiesa antica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1992, pp. 217-220.
[58] Cf. DS 1351; 3802.
[59] In realtà, più che di eretici, Paolo parla di oppositori in modo abbastanza ampio, cioè come coloro che si oppongono al Vangelo, alla sua parola, alla sua dottrina. A volte questi oppositori (falsi apostoli o superapostoli) sono esterni, altre volte, invece, interni alla comunità, e prendono di mira un pensiero particolare di Paolo o mettono in dubbio la sua vocazione apostolica. Cf. almeno 1Cor 1,12; 2Cor 10,7; 11,13-15; 12,7-11. In Tit 3,10 troviamo l’espressione hairetikón ánthropon, nel senso di un uomo contenzioso che doveva essere evitato. Solo nelle lettere di Giovanni troviamo qualcosa che si avvicina all’eresia nel senso nostro. Comunque, Paolo è costretto a correggere gli errori sia in Galazia sia a Corinto. I galati avevano creduto ai giudeo-cristiani, secondo i quali un convertito dal paganesimo doveva essere circonciso e osservare la Torah. Paolo oppone a questa convinzione prima di tutto la sua autorità apostolica, tale da non essere contraddetta nemmeno da una presunta rivelazione angelica (cf. Gal 1,8-9). Questa autorità viene confermata con l’appello al “concilio” di Gerusalemme (cf. Gal 2,6-10). Segue il ricorso alle Scritture. Gli argomenti più forti, però, sono la reductio ad absurdum: se la giustificazione viene dalla legge, ne seguirebbe che Cristo è morto invano (cf. Gal 2,21). Nella comunità di Corinto troviamo il primo caso di scomunica (cf. 1Cor 5,5), di un incestuoso il cui corpo viene consegnato a Satana perché sia salvo nel giorno del giudizio. È una pena medicinale per una colpa morale, non per motivi di fede. Nel capitolo 15 di 1Cor troviamo alcuni criteri molto chiari per distinguere il vero dal falso nella fede. Alcuni in quella comunità non credevano nella risurrezione dei morti o la interpretavano spiritualmente. Non erano necessariamente gnostici, bastava la mentalità greca per spiegare un tale dubbio. Paolo confuta questo errore attingendo non alla sapienza umana, ma annunciando il Vangelo di Gesù Cristo, cioè il kerygma. Cristo è risorto, quindi la risurrezione è possibile! Cristo è risorto secondo le Scritture. Per un culto indebito agli angeli, così come ci testimoniano la Lettera agli Ebrei e ai Colossesi, si afferma la potenza cosmica di Cristo attraverso un inno liturgico.
[60] Il testo di Tertulliano continua così: «La carne è lavata perché lavata perché l’anima sia purificata; la carne è una perché l’anima sia consacrata; la carne è consegnata perché l’anima sia fortificata; la carne è ombreggiata dall’imposizione delle mani perché l’anima sia illuminata dallo Spirito; la carne è nutrita dal corpo e dal sangue di Cristo perché l’anima sia saziata di Dio. Non possono essere separate nella ricompensa perché il servizio le riunisce» (Tertulliano, La risurrezione della carne VIII).
[61] Fiumi d’inchiostro sono stati versati per descrivere il fenomeno della gnosi fin dal suo origine e in rapporto al cristianesimo. La bibliografia in proposito è sterminata, cf. almeno M. Simonetti, Cristianesimo antico e cultura greca, Borla, Roma 1983; Id., Studi sulla cristologia del II e III secolo, Borla, Roma 1993; A. Orbe, La teologia dei secoli II e III, I-II, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1995.
[62] Cf. Teofilo d’Antiochia, Ad Autolycum I,7; II,10.15.18.22; Origene, De principiis I,2,6-8; II,4.6.10; VI,64; Id., Contra Celsum VII,17.
[63] Circa la polemica Agostino-Pelagio, cf. E. Scognamiglio, Il volto dell’uomo. Saggio di antropologia trinitaria. II. La risposta e le domande, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2008, 250-320. Per la parte storica e cristologica, cf. almeno A. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della chiesa. I/1. Dall’età apostolica al concilio di Calcedonia (451), Paideia, Brescia 1982; A. Orbe (cur.), Il Cristo. I. Testi teologici e spirituali dal I al IV secolo, Mondadori, Firenze 1985; M. Simonetti (cur.), Il Cristo. II. Testi teologici e spirituali in lingua greca dal IV al VII secolo, Mondadori, Firenze 1986; H. Jedin e altri, Atlante universale di storia della chiesa, Piemme-LEV, Casale Monferrato (Alessandria)-Città del Vaticano 1991; M. Gronchi, Trattato su Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore, Queriniana, Brescia 2008. Sempre attuali le riflessioni di J. Dupuis, Introduzione alla cristologia, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1994, 122-160.
[64] Cf. H. De Lubac, Exégèse médiévale. Les quatre sens de l’Ecriture, I-V, Aubier, Paris 1959.
[65] Cf. DS 125-126.
[66] A Nicea, il linguaggio filosofico resta alquanto ambiguo. Ad esempio, i termini ousia e hypostasis appaiono come sinonimo. Invece, nella ricezione latina, substantia era il termine adoperato per tradurre sia ousia sia hypostasis. Manca ancora un vero processo di fissazione terminologica. Ad esempio, i latini affermavano, per la Trinità, una sostanza o natura (substantia o anche essentia) e tre persone (prosopa). Per tali questioni, cf. Agostino d’Ippona, De Trinitate VII,4,7; IX; Basilio di Cesarea, Lettere 214; Gregorio di Nazianzo, Discorso XXX,19; XXXIX.
[67] Il ricordo corre alla terminologia incerta, all’eresia di Macedonio e dei pneumatomachi, negatori della divinità dello Spirito Santo; nonché ad Apollinare di Laodicea che non riconosceva alla natura umana di Gesù l’anima razionale, Il riferimento è altresì alle controversie cristologiche di Nestorio, di Eutiche (Concilio di Efeso, 431; Concilio di Calcedonia, 451). Cf. Atanasio, Secondo discorso contro gli ariani LXIX-LXX.
[68] Il Concilio di Calcedonia dovrà chiarire la distinzione tra divinità e umanità in Gesù Cristo, visto che, precedentemente, il Concilio di Efeso (431) esplicitò il significato dell’incarnazione in termini di unione nell’ipostasi del Verbo. Calcedonia completò Efeso e costituì un progresso dal punto di vista terminologico. Un monaco di Costantinopoi, Eutiche, pur ammettendo che il Cristo proviene “da” (ek) due nature, rifiutava, però, di riconoscere che egli rimane “in” (en) due nature dopo il processo dell’unione. Eutiche intendeva, per unione, una sorta di “mescolanza” (chrasis) tra le due nature. Di conseguenza, per Eutiche, l’umano di Gesù Cristo viene assorbito nel divino dopo l’unione. Così, il Cristo non sarebbe più consustanziale a noi nell’umanità dopo l’unione. Appellandosi a frasi e a espressioni ambigue dello stesso Cirillo d’Alessandria, Eutiche ribadirà che dopo il processo di unione, in Cristo, vi è una sola natura. In pericolo è posto, ancora una volta, la realtà dell’unica mediazione di Cristo tra Dio e l’umanità. Il Concilio di Calcedonia affermerà che Gesù Cristo è consustanziale al Padre secondo la volontà e a noi nell’umanità. La natura umana di Gesù Cristo mantiene la sua integrità e autenticità dopo l’unione. Nel mistero di Cristo coesistono unità e distinzione. Si pone una netta distinzione tra i concetti di persona (hypostasis, prosòpon) e natura (physis). Lo stesso signore e Cristo, il Figlio unigenito, è uno in due nature “senza confusione e mutamento” (contro Eutiche), “senza divisione e separazione” (contro Nestorio). “In” due nature vuol sottolineare il perdurare della dualità dopo l’unione. Cristo non è soltanto “da” due nature, bensì “in” due nature: l’unione ipostatica del Verbo con l’umanità mantiene l’alterità dell’umanità all’interno della stessa persona. La distinzione della natura perdura e si mantengono le proprietà di ciascuna natura. Le due nature, inoltre, non sono l’una accanto all’altra, come se si trattasse di soggetti sussistenti diversi: ciò che appartiene a ciascuna delle due nature è salvaguardato, essendo confluito in un’unica persona (prosòpon) e ipostasi (hypostasis). Cristo agisce, in altre parole, sia come Dio sia come uomo nello stesso tempo. La fede, fino a ora espressa con un linguaggio funzionale molto vicino al NT, viene riproposta con un linguaggio filosofico, con formule ontologiche. In realtà, l’approccio funzionale alla cristologia e quello ontologico non sono in contrasto: semplicemente si completano. L’essere di Gesù Cristo in se stesso, la sua identità, è il necessario fondamento della sua azione salvifica verso di noi (funzionalità). Gesù Cristo, infatti, può essere il nostro Salvatore (pro nobis) a causa del chi è in se stesso (pro sibi). C’è, quindi, un rapporto di mutua interdipendenza tra funzione e ontologia. Lo sviluppo ontologico della cristologia segue lo stesso processo della fede, evolvendosi in un linguaggio sempre più cristallizzato. Cf. DS 300-302.
[69] Cf. Atanasio, Lettera a Serapione I,4-25; III,1; Basilio di Cesarea, De Spiritu sancto XXVII,68.
[70] Cf. K. Rahner, Problemi di cristologia d’oggi, in Id., Saggi di cristologia e di mariologia, Roma 1965, 3-91.
[71] Non abbiamo qui la possibilità di approfondire il Concilio di Calcedonia (451) ove, in modo sempre più progressivo, si chiarirà il rapporto tra la natura umana e la natura divina in Gesù Cristo attraverso la categoria ontologica dell’unione ipostatica. Già il Concilio di Efeso (431) metterà in evidenza la vera umanizzazione del Verbo. Ad Efeso, infatti, come a Nicea, si tentò di comprendere come il Figlio di Dio si è fatto uomo. È la prospettiva dall’alto. A Nicea, invece, si volle spiegare, a partire dal basso, come Gesù Cristo sia veramente Figlio di Dio. Con le tesi nestoriane si pone in discussione la vera unità divino-umana di Gesù Criso. Nestorio presenta una cristologia dell’homo assumptus. Nestorio parla semplicemente di congiunzione tra la natura umana e la natura divina del Verbo. Egli suppone due soggetti concretamente distinti nel Verbo. Perciò, l’unione è solo morale. Nestorio rifiuta il realismo dell’incarnazione. Il Verbo di Dio appare nel soggetto umano dell’homo assumptus come in qualsiasi altro. L’uomo Gesù non è, quindi, identico al Verbo di Dio fattosi uomo, né il Verbo è diventato uomo in maniera personale. Il Verbo è presente e operante nell’uomo Gesù come in un tempio e operante in lui. Si perde, quindi, la categoria della mediazione di Cristo nella sua umanità. La stessa morte sulla croce di Gesù non è più quella del Figlio di Dio. Così, nelle sue prediche, Nestorio potrà affermare che Maria non è la madre di Dio, bensì solo dell’uomo Gesù, del Cristo (christotokos e non theotokos). Cirillo d’Alessandria, in risposta a Nestorio, anche se con un linguaggio abbastanza ambiguo, affermò che il simbolo di Nicea attribuì in maniera personale al Figlio di Dio, l’Unigenito, identificato personalmente con Gesù Cristo, gli eventi che riguardano la vita umana di Gesù. La fede cristologica del NT dovrà fare i conti con il reale divenire del Figlio di Dio. La frase-chiave usata da Cirillo nella sua Seconda Lettera a Nestorio per esplicare il vero significato dell’incarnazione del Figlio di Dio (cf. Gv 1,14) consiste nell’affermare che il Verbo di Dio ha unito a sé l’umanità di Gesù “secondo l’ipostasi” (henòsis kath’hypostasin). Non si parla di congiunzione (sunapheia): Gesù non è la personificazione morale del Verbo di Dio (prosòpon). Esiste una relazione vera, reale, ontologica, personale, tra l’identità del Verbo e la persona di Gesù. Il Verbo di Dio ha personalmente assunto la carne umana di Gesù. Il concetto di unione ipostatica non è ancora chiaro. Maggiori esplicitazioni si avranno con il Concilio di Calcedonia (451). Ad Efeso, infatti, restò l’ambiguità tra hypostasis e physis, in particolare, alcune formulazioni di Cirillo d’Alessandria potevano apparire fuorvianti, come, ad esempio, “unica natura di Dio incarnata (mia physis tou theou sesarkomenè), o anche “unità della natura” (henòsis physikè). Occorreva rivedere il linguaggio per salvaguardare la vera consistenza e l’autenticità dell’umanità di Gesù. Nel processo dell’unione ipostatica la natura umana di Gesù non si smarrisce, non si perde, né scompare o viene assorbita da quella divina. Dopo l’unione, Gesù rimane veramente uomo. Cf. DS 250-264.
[72] NA 2.
[73] Cf. almeno Origene, Omelia sul salmo 66 II: «La luce del Padre è la luce del Figlio. Chi vede il Padre, vede anche il Figlio; e chi vede il Figlio, vede anche il Padre: lì non vi è nessuna diversità tra splendore e splendore, l’uno e l’altro sono splendore»; Id., Omelia sul salmo 139 XIV: «Che cos’è il volto di Dio, se non Cristo?».
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