Il conflitto teologico. Ebrei e cristiani

M. Giuliani, Il conflitto teologico. Ebrei e cristiani (Il pellicano rosso – Nuova Serie 322), Morcelliana, Brescia 2021, pp. 293, euro 21.

L’autore di questo saggio è docente di Pensiero ebraico all’Università di Trento e ha già pubblicato altri studi dedicati alla filosofia, alla cultura e alla spiritualità ebraica. Le pagine e i capitoli di questo studio non offrono un bilancio storiografico circa la vastissima letteratura che riguarda le origini del giudaismo rabbinico e delle prime comunità cristiane e non intendono tracciare l’evoluzione dei rapporti tra questi due mondi, ma provano a rileggere il cambio di paradigma avvenuto nel Settanta dell’era volgare, nella consapevolezza vichiana che il senso di veritas, per la ricerca storica, è di natura politica e teologica (cf. p. 5). Le radici di “ciascun nuovo cominciamento” (giudaismo rabbinico e cristianesimo) sono in un evento politico che giunge a noi «già caricato di una serie complessa e divergente, dunque conflittuale, di interpretazioni che lo elevano immediatamente a cifra teologica, i cui significati religiosi sono così diversi e potenzialmente opposti da far assurgere quell’evento-cifra […] a confine, svolta e radicale cambiamento» (p. 6).  Così, è «in quell’evento che sono, ex post, viste le radici di ciascun nuovo cominciamento ed è nell’interpretazione di quel factum che, anche a distanza di decenni se non di secoli, viene scorta la risposta vera, l’autentico senso meta-storico di rivelazione e di a-létheia/veritas» (p. 6). È chiaro, che, come ricorda l’autore, «porre il significato politico-teologico dei fatti del 70 dell’era volgare al centro di una ricerca ermeneutica sul senso del conflitto, a sua volta teologico-politico, tra giudaismo e cristianesimo […] ha, come inevitabile seppur opinabile implicazione, l’escludere altri eventi storici che quei fatti hanno preceduto e seguito, e che sono l’oggetto delle narrazioni evangeliche/neotestamentarie» (p. 7).

L’evento scatenante del 70 dell’era volgare è, per i non addetti ai lavori, la distruzione del tempio di Gerusalemme, cuore della fede ebraica e archetipo antropo-teologico d’Israele che «fungeva da punto di arrivo e di ripartenza in ogni relazione dell’individuo con la collettività, dunque con l’identità politica, sociale e religiosa» (pp. 7-8). Il “tempio e la sua distruzione” sono, per Giuliani, il singolo evento storico che sta al centro «del più antico conflitto di interpretazioni della cultura occidentale» e che «funge da catalizzatore tra il nascente giudaismo e il nascente cristianesimo» (p. 8), nel senso che la caduta del tempio si offrì, e ancora s’offre, «a uno spettro di spiegazioni storiche e religiose» (p. 8) che mette in moto «diverse auto-rappresentazioni di senso contenenti nuovi nuclei teologici attorno ai quali si svilupperanno le correnti dei giudaismi post-70 ovvero dopo quella distruzione» (p. 8). Per Giuliani, «la tragedia nazionale della distruzione del tempio non poteva che essere inglobata – e dunque scomparire come tale – nella tragedia individuale di Gesù» (p. 14), quasi come una sorta di sovrapposizione della seconda alla prima che si manifesta nel sacrificio supremo. Così dicendo, «l’espiazione cristica dei peccati viene ad annullare l’espiazione templare così che la scomparsa del tempio perde addirittura l’aspetto di evento tragico e assume piuttosto la valenza di una riprova, di una conferma e di un sigillo storico: d’ora in avanti il simbolo ha ceduto alla realtà, il segno al significato vero, la profezia alla sua realizzazione. Il passaggio dal typos all’antitypos non è altro che questa dialettica dell’inveramento-compimento che trova nel tempio distrutto la prima emblematica conferma» (p. 14).

Sulla figura di Gesù, già nell’implicita cristologia biblica, sono trasferite le principali categorie legate allo scopo del tempio: «il peccato da espiare, la vittima animale (l’agnello, con tutta l’eco salvifica che si era accumulata a partire dai riti di Pèsach, la Pasqua ebraica), il sacrificio in quanto espiazione per mezzo del sangue, il ruolo mediatorio della kehunà ossia il sacerdozio, l’universalità dei sacrifici della festa di Sukkot» (pp. 14-15). In pratica, per Giuliani, «la sovrapposizione di Gesù con il tempio di Gerusalemme è stata il colpo di genio di quegli ebrei impazienti di vedere realizzato, almeno spiritualmente, un sogno messianico che con gli eventi del 70 non solo non si stava realizzando ma che veniva vieppiù allontanandosi a causa della sconfitta, dell’umiliazione e delle sofferenze inferte dai romani a Israele» (p. 15).

L’intuizione suggestiva di fondo di Giuliani è la seguente: vi fu un transfert che determinò la messianizzazione di Gesù da parte di un gruppo di ebrei, ossessionati dall’idea della redenzione messianica, fornendo una spiegazione al dramma teologico-politico cui avevano assistito. La narrativa di questo transfert fu resa possibile «dal meccanismo della profezia e della tecnica esegetica delle letture tipologiche e delle sovrapposizioni, meccanismo e tecnica che più tardi vennero esplicitamente elaborati come teologia della sostituzione e della nascita di un nuovo Israele, quello vero e appunto “redento”» (pp. 15-16). L’intero processo ermeneutico (narrativa del transfer) avvenne in buona fede ed ebbe successo perché diede una spiegazione alla tragedia della distruzione del tempio. Giuliani spiega il transfer con il bisogno provato dallo sparuto gruppo di ebrei messianici di trovare una risposta, di dare un senso (to make sens of it) a qualunque prezzo. Il sistema ermeneutico espiatorio che è quiescente nel NT trova una dettagliata ricomposizione nella Lettera agli ebrei che ha un forte impianto allegorico-sostitutivo (cf. pp. 17-18).

L’ipotesi del nostro autore è la seguente: pur non sapendo da quando, la morte di Gesù è stata collegata e riletta alla luce della distruzione del tempio di Gerusalemme, luogo molto caro allo stesso Nazareno. Gli ultimi giorni di Gesù, a detta dell’autore, si sono compiuti all’ombra del tempio per un processo più teologico che storico. Pèsach è, infatti, la festa della redenzione d’Israele celebrata intorno al simbolo dell’agnello sacrificato nel tempio, mentre Sukkot è la festa che s’allarga all’espiazione che Israele fa attraverso i settanta sacrifici prescritti per gli altrettanti popoli della terra, «la festa dunque dell’apertura ideale del tempio ai non-ebrei» (p. 20). Per leggere in chiave messianica la morte di Gesù, dunque, era necessario che la sua vita terrena finisse attorno a Gerusalemme. Giuliani ricorda che buona parte della passione di Gesù avviene nei pressi del tempio sia a livello simbolico sia a livello narrativo. Anche l’accusa trovata per incastrare Gesù è legata al tempio: distruggerlo e poi ricostruirlo in tre giorni. Rileggendo le fonti talmudiche a proposito della distruzione del tempio si fa strada un’interpretazione messianica della redenzione legata alla ricostruzione del tempio, anche se prendono forma nel NT interpretazioni spirituali e simboliche della redenzione che non appartengono alla concezione ebraica perché rileggono nella morte di Cristo una sorta di sacrificio espiatorio per tutti i popoli.

È possibile, per Giuliani, che alcune frange ebraiche dell’interpretazione messianica sostituzionista abbiano influenzato l’interpretazione della morte di Cristo come sacrificio sostitutivo. Di fatti, alcuni testi talmudici tardivi, che raccolgono tradizioni orali precedenti, abbinano la distruzione del tempio con la morte di un loro maestro. Il tempio resta lo sfondo storico e metastorico, ossia teologico, della morte di Gesù che è riletta come risposta e spiegazione religiosa alla distruzione del tempio. Solo prendendo in seria considerazione la distruzione del tempio come evento traumatico, ossia come uno shock religioso e politico, è possibile accettare quel processo narrativo di transfer avviato da alcuni ebrei. Il culto del tempio era stato il centro della vita religiosa e cultuale del popolo ebraico ed era stato anche il cuore della vita politica della comunità. La distruzione del tempio fu la catastrofe di cui non si poteva pensare la maggiore, l’evento che sa solo poteva azzerare non solo la ragione d’esistenza e la missione del popolo d’Israele, ma anche il mondo, «dato che si credeva tra gli ebrei che il mondo si reggesse sul servizio (‘avodà) che Israele rendeva a Dio nel tempio, per se stesso e in forma vicaria per il resto dei popoli. Tragedia nazionale e al contempo cosmica, cesura spazio-temporale che dalla dimensione geografico-storica si ripercuoteva in maniera quasi trigonometrica sugli assetti superni, data la diffusione della credenza che al tempio e alla Gerusalemme di quaggiù corrispondesse esattamente un tempio e una Gerusalemme di lassù (di ciò nel Nuovo Testamento vi è eco nel libro dell’Apocalisse)» (p. 31).

Giuliani, citando lo studio di J. Neusner (Il giudaismo nei primi secoli del cristianesimo), ricorda che ogni partito o gruppo farisaico di quel tempo dovette affrontare il problema, l’unico che contasse teologicamente e politicamente: la distruzione del tempio. Si riconosce, a questo punto, una traccia di consapevolezza della dimensione cosmica di quella catastrofe nel Vangelo di Matteo che offre un’interpretazione cristologica con il riferimento al velo del tempio. La lacerazione del velo del tempio indicherà (cf. altresì Eb 9,12; 10,20) la soppressione dell’antico culto mosaico e l’accesso aperto dal cristo al santuario escatologico. Con la sua morte, Cristo ha interrotto e sostituito una volta per tutte i sacrifici del tempio. Così dicendo, «tutta la tragedia ebraica è qui riassunta, sussunta e sublimata […] nel sacrificio cristico, alla luce della quale non solo perde la sua dimensione di tragedia ma si eleva a sua volta a cifra di natura soteriologica, di portata escatologica: il venir meno del tempio terrestre significa, in Cristo, l’accesso al santuario escatologico» (p. 34).

Con la rottura da cima a fondo in due del velo, afferma Giuliani, si annuncia la fine del giudaismo storico, «quello che appunto aveva nel tempio il suo fulcro religioso e sociale, politico e teologico» (p. 34). Tuttavia, se quel cuore antico si fermò, cominciò a battere uno nuovo, il culto in spirito e verità annunciato da Cristo. La fine del tempio non è solo la fine del giudaismo, ma segna anche l’inizio di un “dopo” inteso come realizzazione di un “prima”: dall’antico Israele si passa al vero e nuovo Israele, dottrina consolidata a metà del quinto secolo d.C. Il vero popolo di Dio è la Chiesa (cf. sant’Agostino, p. 39). Giuliani, giustamente, evidenzia alcuni pronunciamenti di autori cristiani antichi (padri e teologici) che reinterpretano la Bibbia alla luce dell’adversus Judaeos (cf. p. 39).

Il sostituzionismo sembra essere la radice stessa, per certi aspetti, del cristianesimo più che il frutto di una sua dottrina. Tale approccio alle Scritture è ancora vivo, ricorda Giuliani, nelle riflessioni post-Vaticano II. L’indurimento dello scontro cristiano-ebraico si accentuò nel basso medioevo e continuò nell’età moderna, portando con sé questo paradosso: mentre gli ebrei tendevano progressivamente a integrarsi de facto sul piano culturale e politico nella società in cui vivevano, rivendicando de jure solo un’irriducibile diversità religiosa e il diritto di auto-organizzarsi socialmente (attraverso i tribunali rabbinici), i cristiani tendevano a stigmatizzare quell’irriducibilità come una minaccia per l’unità e il benessere della società che avevano un’identità cristiana. «Il passaggio dall’antigiudaismo medievale di matrice religiosa all’antisemitismo moderno con pretese scientifiche sembra seguire questa metamorfosi, questo cambio di paradigma nelle ragioni e nelle motivazioni di quelle politiche pur restando il bersaglio invariato» (p. 53). Giuliani fa notare che nell’età moderna, fino al XIX secolo, ci fu un crescendo di sentimenti antiebraici in tutta Europa, contrappuntato da frequenti conversioni alla fede cristiana nella versione sia riformata sia cattolica (cf. pp. 62-65).  La stessa Shoa, in pieno XX secolo, fu il culmine della lunga storia di antigiudaismo di matrice teologica cristiana.

Nella terza parte del suo volume, Giuliani analizza modelli negativi e icone positive della relazione tra ebrei e cristiani, soffermandosi anche su alcuni modelli ebraici di relazione con i cristiani, con riferimento a F. Rosenzweig in particolare.

L’ultima parte del volume è dedicata alla ricerca di nuovi paradigmi tra ebrei e cristiani e si conclude con questo auspicio: «Sforziamoci di portare il messia nel mondo, invece di discutere se si tratti della prima o della seconda sua venuta» (p. 280). Ebrei e cristiani «possono oggi andare oltre la tolleranza e instaurare un paradigma di vero riconoscimento teologico, capace come tale di affermare non solo l’altro da sé ma anche il diverso e il non complementare a sé, lo straniero religioso, colui che non partecipa in alcun modo della tradizione biblica o che si situa fuori dall’alleanza abramica/sinaitica […]. Dio ha molti inviati, e chi siamo noi per dire chi stia lavorando per il Regno e chi no?» (p. 279).

Il modello del pluralismo è l’unico possibile oggi che permetta di superare quello dell’approvazione/disapprovazione: nel pluralismo incontriamo la piena intensità di posizioni distinte testimoniando l’unicità non distorta dalle nostre passioni. Si tratta di fare spazio agli assoluti degli altri senza rinunciare al nostro, perché il pluralismo non è una forma di relativismo e può avvenire soltanto nell’apertura all’altro, al dialogo.

[Edoardo Scognamiglio].

 

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