Paolo De benedetti si chiede se dopo Auschwitz abbia ancora senso parlare di Dio dal momento che l’idolo metafisico è crollato[2]. L’Autore tenta un nuovo modo di parlare di Dio rifacendosi alla tradizione biblica ed ebraica. Il mistero di Dio, egli osserva, è una realtà dialettica: è presenza e assenza nello stesso tempo, è parola e silenzio. Dinanzi all’orrore della Shoah bisogna chiedersi ‘dov’è Dio’ (Elie Wiesel) oppure ‘Dov’è l’uomo’ (Primo Levi)? Le riflessioni di De Benedetti prendono le mosse da Paul Ricoeur[3], evidenziano il limite della antica sapienza della retribuzione come risposta al male (l’empio soffre e il giusto prospera), puntualizzando la distinzione tra “male commesso e male sofferto, tra peccato, sofferenza e morte, e tra questione del male e questione del peccato e della colpevolezza”[4]. Già il Libro di Giobbe manifesta che la vita sconfessa il paradigma della retribuzione (il giusto soffre e il malvagio prospera) e dinanzi a tale mistero bisogna solo riconoscere la nostra incapacità a comprendere. La mitologia ha affermato la preesistenza del male perché Dio non può creare nulla di buono come lui altrimenti ci sarebbe un altro Dio. Dalla “Bibbia viene una tentazione (e sappiamo, dai primi due capitoli del libro di Giobbe, che la grande tentazione viene da Dio, almeno come suo assenso): la tentazione di rifiutare di esserci, perché il peccato non basta a spiegare il nostro ‘esserci male’, e quindi in qualche modo a consolarlo. E’ una tentazione necessaria: chi non la prova prima o poi nella propria vita, non è più pio degli altri, ma forse soltanto più sordo al lamento del mondo”[5]. La sofferenza ingiusta grida a Dio (cf. Es 2,23) e il male rimanda al mistero della fragilità, evidenzia l’Autore, sia che si tratti del male come sofferenza, sia che si tratti del male come colpa. La fragilità è l’essenza stessa del creato. Dio stesso è fragile perché è Amore e noi siamo responsabili di Dio, cioè siamo responsabili della sua immagine che è in noi. Essa viene spenta quando prevale il male, la sofferenza, l’ingiustizia, la colpa, la morte, l’oblio.
Quale Dio? – Il linguaggio, essendo umano, è incapace a parlare di Dio che è Totalmente Altro. L’uomo però è immagine di Dio e per questo motivo, rileva De Benedetti, può parlare di Dio. La teologia rabbinica afferma che Dio non può distruggere il mondo, anche quando non gli piace, perché non è solo severità, ma anche misericordia, è padre e madre nello stesso tempo (cf. Is 46,3; 49,15; 66,13; Os 11,1-4). “Perciò il rapporto Dio-mondo rimane in una condizione di permanenza infelice, in quanto il mondo è così ricco di male da rendere totalmente problematica, anzi scandalosa, la sua coesistenza con Dio”[6]. Dio va ripensato a partire dalla sofferenza, mentre la teologia classica, cristiana ed ebraica, vedeva la questione in relazione al male (la teodicea cristiana). Quando si cerca di parlare di Dio, osserva De Benedetti, bisogna fare i conti con la dialettica parola-silenzio, che si acuisce quando si parla della realtà antidivina che è Auschwitz, l’antitesi del Sinai (E. Wiesel). Il Sinai è la rivelazione della volontà divina, mentre la Shoah è la negazione di ogni legge. Dinanzi al dramma del male nasce la negazione di Dio oppure un modo nuovo di parlare di Lui. L’Autore afferma che biblicamente emergono due prospettive in base alla categoria del riv e dello zimzum. Il riv è la contesa, la lite con Dio (cf. Gn 18,23-24; Ger 20,7.9; Gb 31,35) e attraversa come un filo rosso tutto il giudaismo, a partire dalla haggadà rabbinica fino al chassidismo, in cui assume la forma del processo a Dio. L’Eterno si sottomette a tutto ciò e ne esce perdente poiché viene condannato dal tribunale. Si può essere con Dio o contro Dio (E. Wiesel), ma non si può essere senza Dio; il no a Lui è pur sempre un sì che afferma un Dio nella sofferenza. Secondo lo zimzum (contrazione, En-Sof, il ritirarsi di Dio nel suo essere secondo Luria) il processo si svolge in Dio stesso. Il ritirarsi di Dio è l’esilio dalla sua onnipotenza con il suo dolore. Del Dio non-più potente parla la teologia post-Auschwitz, primo fra tutti Hans Jonas, analoga alla teologia cristiana della kenosis di Dio (K. Kitamori), del suo nascondimento (hester panim, nasconde il suo Volto), della sua eclisse (M. Buber), nascondimento reciproco dell’uomo e di Dio. Il nascondimento di Dio non va inteso come il nesso causale tra colpa e sterminio, ma come la passione di Dio, senza racchiudere l’indicibile in una soluzione dialettica, ma aperti sempre ai ‘doppi pensieri’. Alla luce della Shoah non è più possibile dire che Dio trae sempre il bene dal male, perché Egli è buono e veglia sempre su di noi. Tutto ciò non comporta la negazione della fede, ma la sua rivisitazione come alternanza di luce e tenebre (E. Fleischner), nel senso che, come suggerisce la tradizione ebraica non solo quella mistica, “in Dio c’è un lato di tenebra (sitrà achrà, ‘l’altro lato’), ossia in Dio c’è un contrasto tra bene e male che ha bisogno di redenzione”[7]. Non si tratta del contrasto tra giudizio e misericordia in Dio, ma del contrasto più profondo tra la sua bontà e la sua assenza, la sua accettabilità e la sua inaccettabilità, che manifesta l’infelicità divina.
Chi è come Te fra i muti? – Nonostante gli orrori della storia, come la Shoah, occorre parlare di Dio, consapevoli che il nostro linguaggio è mitico (non mitologico), cioè si serve dell’immaginazione. La Bibbia ci presenta un’immagine di Dio instabile, ambigua; una è quella maestosa del Sinai (cf. Es 19,9; 20,18), l’altra invece è impercettibile; è la voce del silenzio sottile percepita dal profeta Elia (cf. 1Re 19,12). I vari Maestri d’Israele hanno fatto una scelta fra queste due manifestazioni (rumorosa o silenziosa) oppure hanno accolto entrambe o hanno rifiutato entrambe. L’istituzione opta per la manifestazione divina fragorosa, mentre il misticismo privilegia quella silenziosa. De Benedetti osserva che il problema di oggi è che entrambe le voci si sono ammutolite (rav Arthur Cohen). Dio non ha parlato, non è intervenuto per salvare i bambini dalla crudeltà dei nazisti; secondo alcuni per salvare la libertà dell’uomo, secondo altri perché Dio è incompleto e la sua perfezione va accresciuta (cf. Zc 14,9), è lacerato, impotente dinanzi al male: “Fino a quando Dio non sarà compiuto e non arriverà – ‘se così si può dire’ – a quel compimento che consiste nel riunificarsi e nel salvare il mondo, non risponderà”[8]. Il silenzio di Dio determina il ‘forse’: “forse ho capito perché tace, forse non l’ho capito, forse fa bene a tacere, forse fa male. Insomma è un ‘forse’ mio e un ‘forse’ Suo”[9]. Il forse nasce anche dall’impossibilità di capire quello che vogliono dirci le vittime. Forse vogliono dirci che desiderano solo restare vive nella nostra memoria, dal momento che non sono state vive nella vita. De Benedetti tenta una risposta all’enigma partendo dalla vicenda dell’ebreo polacco residente in Italia, Schulim Vogelmann, che venne deportato con la moglie e la bimba Sissel e ritornò solo. Egli si risposò ed ebbe un figlio, Daniel, che scrisse un libretto solo per i suoi amici, intitolato Cinque piccole poesie per Sissel. La quarta strofa così recita: “Promettimi / che mi darai la mano / il giorno che arriverò da te. / Perché, sai, / un po’ di paura / mi è rimasta…”[10]. L’Autore sottolinea che la realtà ineffabile, le atrocità della Shoah, rimandano all’ineffabilità di Dio. Siamo costretti a parlare di Dio, a balbettare qualcosa su Lui (H. Jonas), credendo in Lui o litigando con Lui. La vita del mondo che verrà, di cui parlano i rabbini, serve a Dio per rispondere finalmente alle nostre domande, per salvarsi insieme a noi.
Dove abita il dolore di Dio? – De Benedetti parte dal riferimento allo Jad wa-Shem, il memoriale della Shoah a Gerusalemme, in particolare alla Galleria dei bambini. Qui, nel buio totale si accendono delle piccole luci come se fossero delle stelle, “mentre una voce dice i ‘nomi’, l’età, la provenienza del milione e mezzo di bambini ebrei uccisi nella Shoà. E’ una straziante discesa agli inferi che più di ogni altra esperienza ci avvicina a quella ineffabilità del male – sottolinea l’Autore – di cui parla Wiesel, e lascia – in chi percorre quel cammino – il senso di un’immensa irreparabilità, di un baratro che neppure la giustizia di Dio – ‘se così si può dire’ – riesce a colmare. L’irreparabilità di vite non vissute e ridotte a ‘nomi’. ‘Dire’ questi nomi è nello stesso tempo il segno della nostra totale impotenza di fronte al male, e l’atto più religioso che possiamo compiere. Impotenza perché la Shoà, di questi bambini, ci ha lasciato soltanto (e non sempre il nome). Ma il nome, e più che mai a Jad wa-Shem, significa vittoria contro il nulla: una piccola vittoria, un seme di ricordo, che ci consente di affermare davanti all’ombra di Hitler: ‘Questo bambino è esistito’. E tuttavia la sua piccola storia è quasi sempre sparita, come non avvenuta, e la sua grande storia di persona adulta e ricca di eventi non è mai iniziata”[11]. La Galleria dei bambini costituisce l’opposto della benedizione di Dio ad Abramo (cf. Gn 15,5) e per dire i nomi di quelle stelle occorrono due anni. Quei bambini oggi costituiscono la corte celeste di Dio; essi sono scesi nel silenzio e in questo modo lo lodano, ma si tratta di una lode che non consola l’Eterno (cf. Ger 31,15; Mt 2,18). Il nome preserva dall’oblio e separa il non più dal non essere; è una forma di sopravvivenza (E. L. Fackenheim). La sopravvivenza, osserva De Benedetti, è continuare a nascere, è dare esistenza agli uccisi. Nel caso della Shoah il ricordo è un dovere assoluto di restituzione del non vissuto; la loro esistenza è una replica a Hitler, è l’unica risposta alla richiesta di Dio di essere consolato. Il ricordo per i non ebrei, in particolare per i cristiani, è un richiamo alla teshuvah (conversione), per una morte che il terzo giorno non ha avuto la resurrezione, morte causata dai battezzati. Jad wa-Shem costituisce per i cristiani, afferma De Benedetti, l’ottavo sacramento, che fa sperimentare la Shoah e introduce alla corte di Dio, nel Santo dei Santi. L’Altissimo però ha consumato le parole e resta nel silenzio. I gentili per entrare nell’alleanza devono compiere il percorso sacramentale dello Jad wa-Shem che costituisce il luogo del dolore di Dio, perché l’Eterno e Auschwitz sono contrapposti, non vanno insieme, causano ansietà e disperazione; sono una domanda che non conosce risposta (E. Wiesel).
di Lucia Antinucci
Paolo De Benedetti (Asti, 23 dicembre 1927 – Asti, 11 dicembre 2016) teologo e biblista italiano, nato in una famiglia di religione ebraica. E’stato docente di Giudaismo alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano e di Antico Testamento agli Istituti di scienze religiose delle università di Urbino e Trento[1].
[1] Tra le sue opere cf. La morte di Mosè e altri esempi (Bompiani 1978, Morcelliana 2005); Ciò che tarda avverrà (Qiqajon 1992); E il loro grido salì a Dio. Commento all’Esodo (Morcelliana 2002); Nonsense e altro (Scheiwiller, 2002); Teologia degli animali (Morcelliana 2007); Il filo d’erba (Morcelliana 2009). Nel giugno del 2011 ha ricevuto nell’ambito del Festival Internazionale della Cultura ebraica di Casale Monferrato il Premio OyOyOy!, prima di lui assegnato a Emanuele Luzzati, David Grossman, Abraham Yehoshua e Amos Oz.
[2] Cf. P. DE BENEDETTI, Quale Dio? Una domanda dalla storia, Morcelliana, Brescia 1996, 9-10.
[3] Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia 1993.
[4] DE BENEDETTI, Quale Dio?, 13.
[5] Ivi 20-21.
[6] Ivi 29.
[7] Ivi 49.
[8] Ivi 60.
[9] Ivi 61.
[10] Citata in ivi 63.
[11] Ivi 66-67.
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