E. Scognamiglio, “Un certo Gesù”. Saggio di cristologia dialogica. 1. Alla ricerca di un metodo, (Collana La fede in dialogo), Effatà Editrice, Cantalupa (Torino) 2022, pp. 253, euro 24.
Il presente saggio intende gettare le fondamenta di un nuovo progetto teologico che s’ispiri ai temi cari a papa Francesco: la fratellanza universale, il pluralismo interreligioso, l’inclusivismo interculturale e transculturale. Fin dall’introduzione, l’autore dichiara l’intendimento di scrivere un saggio di cristologia, in cui “il linguaggio, i contenuti, le metodologie di ricerca e le applicazioni all’intelligenza della fede” siano dialogici, perché Gesù “nella sua concretezza umana è una persona dialogica completamente rivolta verso di noi e pienamente in relazione con ill Padre”. In consonanza con il “principio dialogico dell’incarnazione” l’autore assume il “dialogo” come necessario rimedio ai “mali del nostro tempo”, denunciati nell’arguta analisi socio-storica (cf. p. 7). Egli interpreta biblicamente il “principio dell’unione ipostatica”, al di là della declinazione dottrinale calcedonese, alla luce del grande “mistero dell’incarnazione” come la “compassione di Gesù, radicato nel Padre e pienamente rivolto verso di noi”. Anche il “principio dialogico dell’incarnazione”, delle due nature in Cristo unite nella persona del Verbo, è interpretato sul piano pastorale, riconoscendo “il valore dell’altro senza sacrificare il proprio”. Esso non si risolve in un amartiocentrismo, ma è manifestazione della rivelazione “eccedente” dell’Amore di Dio, che si dona liberamente in Cristo Gesù. Per l’autore, le aggettivazioni – “filiale, agapico, kenotico, diakonico, divino e dialogico” – dell’umano di Gesù non realizzano una «soddisfazione normativa, ma rendono l’uomo artefice della sua stessa libertà» (pp. 8-9). Inoltre, in consonanza con l’approccio storico-critico, Scognamiglio si confronta con i maggiori teologi europei che hanno segnato il Novecento, ma anche con quelli ortodossi, rivelando la sua sensibilità ecumenica. Per la sua formazione al dialogo interreligioso, egli trova congeniale assumere il metodo dialogico, interrelazionale, transculturale e interdisciplinare per leggere in forma inclusiva il “mistero e la vita di Gesù nei diversi contesti socio-culturali e geo-politici”. L’attenzione alle teologie del “genitivo” (teologia della liberazione, africana, asiatica, femminista, pluralista,) e alle forme del linguaggio teologico, reso possibile “dal Mistero che illumina la conoscenza”, trovano il loro comune denominatore nella categoria di “persona”, che l’autore collega alla tipologia biblica del “volto”.
Il titolo del saggio è desunto dall’istruttoria che il procuratore romano della Giudea, Porcio Festo, porta a termine nell’esaminare le accuse contro Paolo, che sosteneva “un certo Gesù essere vivo”, dopo la sua morte in croce (cf. At 25,19). L’indefinito titolo cristologico proferito da Festo, “un certo Gesù”, che Paolo “sosteneva essere vivo”, è un vero e proprio kerygma. Quel titolo, infatti, oggi come allora è la cifra della marginalità, del riduzionismo, dello svilimento cristologico incapace di dare vigore all’“essere vivo” della risurrezione come “ragione ultima e forza quotidiana della nostra speranza”. Pertanto, una cristologia dialogica non può non partire dal kerygma della “passione, della morte e risurrezione di Gesù”, che apre in chiave dialogica gli orizzonti della fraternità universale, del pluralismo religioso e dell’inclusivismo interculturale e transculturale.
Il primo capitolo del volume si apre con alcuni urgenti interrogativi linguistici: “come parlare di Gesù oggi?”. Dopo averne illustrato le premesse filosofiche (Gadamer), l’autore chiarisce che il linguaggio biblico dei Vangeli costituisce un genere letterario nuovo: memoria della fede con valore storico retrospettivo e trasparenza oggettiva verso il presente. Scognamiglio s’interroga sulla “dicibilità” dell’annuncio di Gesù Cristo, sulla pertinenza del linguaggio delle accademie teologiche e sui loro metodi, sulla semantizzazione e la traducibilità del kerygma e delle definizioni dogmatiche per favorire l’intelligenza della fede nella storia. Per l’autore, l’alternativa non è tra “cristianesimo dogmatico o a-dogmatico”, ma come afferma Christoph Theobald, occorre riallineare la «forma dell’esistenza cristiana con il contenuto della fede» (nota 5 p. 26). Sul versante “dell’intelligenza della fede e del vissuto ecclesiale”, è necessario riandare alle considerazioni del padre Marie-Dominique Chenu e di Karl Rahner, riprese da papa Benedetto XVI, per cui «la dottrina va approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo […] una cosa è il deposito della fede, cioè la verità contenuta nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate, conservando a esse lo stesso senso e la stessa portata» (nota 10 p. 29). Il teologo, nella sua ricerca, è chiamato a «ritornare alle verità centrali della fede nell’esplorazione della realtà e della storia, per generare processi affinché la Chiesa diventi una comunità e contribuisca a far nascere una nuova umanità […]; il rapporto tra fede e ragione non può essere relegato in un sistema organico di verità dottrinali che si vanno affermando ed elencando per deduzione» (p. 31).
Scognamiglio ci ricorda che il Concilio Vaticano II ha statuito due importanti principi quanto al metodo teologico: la gerarchia delle verità; e la distinzione tra verità centrali e verità periferiche. Inoltre, la tradizione stessa della Chiesa è viva perché la salvezza avvenuta in Cristo è una realtà dinamica. «Una definizione dogmatica è un punto fermo nella coscienza ecclesiale, che ammette nuovi itinerari di ricerca e di approfondimenti, senza mai distaccarsi dalla verità fondamentale della nostra fede. La tradizione è “vita che trasmette vita” e non meccanica ripetizione di una dottrina: nasce proprio come segno dell’eccedenza del Vangelo rispetto al testo scritto delle Scritture e vive della creatività dello Spirito e degli stimoli che riceve anche dalla storia e dal vissuto delle Chiese». Da qui l’autore propone di superare la questione del rapporto tra il Gesù della storia e il Cristo della fede per «investire nuove energie e studi nel dibattito ambientale e nella crisi ecologica, nel tema della giustizia, della fraternità e amicizia sociale, nella sfida dell’accoglienza dei popoli soggetti a migrazione, nel dialogo tra le religioni e nell’incontro con i non credenti» (pp. 35-36).
In consonanza con le indicazioni del convegno di Firenze (2015), l’autore individua sei scenari per attuare il “cambiamento d’epoca”, auspicato da papa Francesco. Il primo è l’autonomia del mondo o la “secolarizzazione”. La Chiesa è chiamata a ricollocarsi nel tessuto della secolarizzazione e della desecolarizzazione. Il mondo, uscito dalla rivoluzione industriale ed entrato nell’era elettronico-digitale, scopre la sua autonomia dai principi religiosi, afferma la sua aconfessionale laicità e si affida sempre più al potere della tecnica. Il processo di secolarizzazione modella le democrazie costituzionali moderne, che proclamano l’aconfessionalità degli stati ed elaborano legislazioni, che spingono la libertà religiosa sempre più nella sfera privata. La gran parte degli studiosi rileva una crescente “deprivatizzazione” della religione, mentre i più catastrofisti azzardano la tesi del suo declino. Il teologo Rosino Gibellini rileva che nel corso degli ultimi secoli molti hanno tentato di costruire una “teologia della secolarizzazione”. Il futuro del cristianesimo e della religione dipenderà dalla sua capacità di risituarsi come “fermento”. Per Romano Guardini, il non-credente deve uscire dalle nebbie della laicizzazione. Deve rinunciare all’“usufrutto” che, pur negando la Rivelazione, si appropria dei valori e delle forze che essa ha elaborato. Jürgen Habermas considera la religione come la possibilità di una “sfida cognitiva”, perché portatrice di risorse culturali di cui si nutrono la coscienza normativa e la solidarietà dei cittadini. A preoccupare più che la secolarizzazione tout court è il secolarismo e il processo di scristianizzazione. La domanda centrale è, allora, che rapporto intercorre tra secolarizzazione e scristianizzazione? La seconda è effetto della prima? Eppure va ricordato che l’epoca della secolarizzazione è figlia della cristianità. Fede e ragione si sono confrontate nella modernità in un costante dialogo, anche se talvolta con toni conflittuali. Non si può negare che molti valori della secolarizzazione sono eredità del cristianesimo.
Il secondo scenario è la sfida del pluralismo. Appare sempre più inevitabile l’assunzione dell’istanza multireligiosa e multiculturale, determinata dal costituirsi di società multietniche. Libertà religiosa, laicità, multiculturalismo e pluralismo sembrano essere i fondamenti, sui quali inderogabilmente dovranno costruirsi le infrastrutture politico-sociali dei paesi interessati da fenomeni migratori. I nuovi scenari ci obbligano a raccogliere la sfida del dialogo con fedi e culture di diversa provenienza. Per accogliere ed evangelizzare questa nuova istanza socio-religiosa occorre, imprescindibilmente, come ci ricorda Scognamiglio, interrogarsi sul rapporto tra fedi e culture.
Il terzo scenario prende in considerazione il “mondo della comunicazione come evento di comunione”. L’autore rileva criticamente i rischi connessi alle nuove tecnologie. L’urgenza di orientare l’“uomo planetario” della civiltà elettronico-digitale verso uno sviluppo integrale apre domande che incalzano l’uomo del nostro tempo. Un rinnovato allineamento tra antropologia e teologia sembra imporsi come unica garanzia del futuro dell’umanità. Le moderne tecnologie esercitano un’azione sempre più performante sull’uomo e sulla società. Il mondo della comunicazione può avvalersi dell’uso di tecnologie sempre più sofisticate, miniaturizzate e dotate di tecniche in grado di agevolare l’accesso alle informazioni e la comunicazione audiovisiva. Nel mondo pre-digitale la “conoscenza creava la tecnologia”, nell’era digitale accade il contrario “la tecnologia crea la conoscenza” o, più precisamente, una pseudo-conoscenza. La tecnologia elettronico-digitale, infatti, ha un potere eccedente che genera ipercorpi e determina mutamenti sociali. L’integrazione tra architetture elettromeccaniche e intelligenza artificiale è sempre più spinta e surroga le funzioni umane. La tecnologia elettronico-digitale, attraverso le sue numerose realizzazioni, offre protesi sempre più potenti ai nostri organi di senso. L’integrazione della comunicazione audiovisiva con la rete telematica e lo sviluppo dei social network ha creato l’uomo iper-vedente, iper-udente e iper-tattile. Nel mondo dei media digitali il processo cognitivo rischia di risolversi nell’esecuzione di un veloce algoritmo di ricerca (motore di ricerca “Google”), eseguito su un insieme di dati, acquisiti e condivisi, che impropriamente definiamo conoscenza, e di esaurirsi nella scelta ideologicamente orientata della soluzione più veloce e socialmente preferita. Sicché, l’uomo ipervedente, iperudente e ipertattile, ipnoticamente connesso alla pseudointelligenza collettiva, cede al potere ideologico della tecnica.
Il quarto scenario evoca la “crisi economica e l’urgenza di un’etica planetaria”. Secondo alcuni, al centro dei sistemi politici, economici e sociali non ci sarebbe la persona, o l’uomo, con la sua dignità e i suoi diritti, ma il perseguimento di un disegno ideologico, che gli nega dignità e diritti, nell’intento di riconoscergli una libertà, non sempre ancorata alla verità e al bene supremo. La questione antropologica è sempre più condizionata dal rapido e inarrestabile progresso tecnologico, che rivela talvolta il suo lato oscuro. L’instaurarsi di un pericoloso circolo vizioso tra progetti ingegneristici a tecnologia sempre più spinta, che perturbano l’ecosistema vita biologica-ambiente e gli effetti conseguenti, a fronte di un apparente benessere, costituisce un preoccupante fattore di allarme. L’ubriacatura prodotta da una ragione svincolata da remore etiche sta spingendo l’uomo verso i confini della “conoscenza globale” priva di un codice etico. Dopo aver esplorato il mondo fisico, sfidato il cosmo, indagato e manipolato l’origine della vita biologica, coltivando il sogno dell’onnipotenza, l’uomo del terzo millennio avverte l’ebbrezza di diventare onnisciente, attuando il progetto della “conoscenza globale”, sganciata da un previo statuto veritativo. La conoscenza del conoscente e del suo organo cognitivo (cervello) sta diventando la nuova frontiera verso cui incamminarsi con rapida decisione. Si fa strada la convinzione che solo un potenziamento cognitivo potrà condurre l’uomo verso il conseguimento del nuovo obiettivo. Conoscere l’organo che presiede alla conoscenza, esaminarne gli stati biochimici, dominare le leggi neurofisiologiche, potenziare le facoltà attuative del cervello ci condurrà presto al conseguimento della “conoscenza globale”. Potremmo chiederci, come ipotizza Scognamiglio, se l’uomo tecnocefalo, reso onnipotente dalle sue protesi tecnologiche, non stia accingendosi a violare il divieto divino accostandosi all’albero della “conoscenza del bene e del male” o in alcune traduzioni della “conoscenza del tutto” (cf. Gn 2, 17), per raccoglierne il frutto acerbo dell’autoteismo? L’interrogativo ci sprona ad assumere nei confronti del temerario progetto un atteggiamento critico che sappia discernere ciò che è buono per valorizzarlo e respingere ciò che è contrario al bene.
Il quinto scenario è il “dialogo tra scienza e fede”. Concordiamo con l’autore nel ritenere che il rapporto tra le scienze moderne, la tecnica e la fede vada ricondotto ai seguenti orientamenti: 1. Superare la tentazione di riproporre il modello pre-moderno, in cui vigeva la massima “scientia ancilla philosophiae et theologiae” o di cadere in un teocentrismo asfissiante, che conduce alla teologizzazione dei saperi; 2. Evitare di considerare le scienze moderne come una nuova religione, per assumere le scienze religiose come orizzonti di senso; 3. Considerare la filosofia trascendentale della natura come elemento di sintesi tra scienze moderne e teologia; 4. Relativizzare e superare il riduzionismo positivistico del metodo galileano come criterio assoluto di validazione scientifica; 5. Arginare la colonizzazione positivistica dei sistemi sociologici, economici, filosofici e teologici; 6. Elaborare una nuova metafisica, che recepisca le istanze delle recenti teorie scientifiche e compia una nuova sintesi filosofica e teologica. La tentazione, che le scienze moderne devono evitare, è quella di assumere il ruolo di nuove religioni o come sostiene Scognamiglio di “idoli”. Se le scienze assolutizzano i loro principi ed esautorano o incorporano l’elemento religioso scadono nello scientismo e nel tecnocratismo. La scienza, lungi dall’incorporare la religione al suo interno, deve oggettivarsi in rapporto alle scienze religiose, che offrono alla ragione nuovi orizzonti di senso. Non si tratta di limitare l’autonomia delle scienze, ma di coniugare autonomia e ortonomia. Una scienza etero-diretta non è meno autonoma, se riesce a coniugare razionalità e fede. I concetti di libertà e di responsabilità morale non hanno alcuna considerazione nel campo della scienza e della ricerca. Gli enunciati “libertà della scienza” e “libertà della ricerca” sono scritti in tutti i programmi delle moderne costituzioni, ma la responsabilità sociale e morale è ugualmente una virtù del cittadino democratico. La scienza non ha come unico scopo il conseguimento della conoscenza, ma anche quello dell’orientamento. Essa ha perciò un valore culturale.
Il sesto scenario evoca “l’impegno politico, la giustizia e l’amicizia sociale”. Scognamiglio auspica “un progetto teologico sul mondo e sulla persona – creata a immagine e somiglianza della Trinità – che contribuisca positivamente all’umanizzazione degli spazi e delle relazioni”. Tale progetto esige la sinergia degli ambiti richiamati per perseguire il bene comune e va urgentemente attuato con il governo della globalizzazione, subentrata alla stagione degli imperialismi contrapposti. Occorre, come ci ricorda papa Benedetto XVI nella Caritas in Veritate (n. 67), costituire un’autorità in grado di organizzare in modo sussidiario e poliarchico la governance mondiale. Essa dovrà essere poliarchica con un impianto policentrico. Si tratta, perciò, di cominciare, superando vecchi schemi o soluzioni affrettate, la progettazione di una nuova governance del pianeta, che assicuri a tutti i popoli occupazione, diritti umani, democrazia economica, microcredito e microfinanza. Tale processo passa inevitabilmente, oltre che per la riforma degli organismi internazionali (ONU, FMI, FAO, …), anche attraverso la presenza di una vera autorità politica mondiale, regolata dal diritto, ispirata ai principi di sussidiarietà e solidarietà e ordinata alla realizzazione del bene comune. Tale autorità dovrà essere da tutti riconosciuta e godere di potere effettivo, per garantire a ciascuno la sicurezza, l’osservanza della giustizia e il rispetto dei diritti. Auspichiamo, pertanto, che i paesi membri di organismi internazionali e quelli che a diverso titolo partecipano ai summit G7, G8, G20… costituiscano un ordinamento internazionale, un governo mondiale rappresentativo di tutte le nazioni, che armonizzi il pluralismo costituzionale con il costituzionalismo plurale e concordino una governance multilaterale e pluralista con un’etica comune, utile a governare la globalizzazione e a contrastare le emergenze planetarie. Non si tratta del tentativo, peraltro già esplorato con scarsi risultati, di dotarsi di un’“etica globale”; globalizzare l’etica costituirebbe una minaccia per i suoi stessi principi fondativi. Occorre lavorare, piuttosto, alla costruzione di un’etica della globalizzazione in cui l’ordine sociale recepisca i principi dell’ordine morale (legge naturale) e avvii un processo di costituzionalizzazione globale. L’umanità attende non la globalizzazione dell’etica ma l’etica della globalizzazione. Siamo convinti che un governo mondiale, sussidiario e poliarchico, possa adottare una “morale condivisa”, fondata sulla legge morale naturale e articolata sul riconoscimento universale dei diritti umani, civili e politici.
Il secondo capitolo rilegge il documento Bibbia e Cristologia della Pontificia Commissione biblica e prospetta i principali approcci della cristologia contemporanea. Si fa riferimento agli approcci secondo la tradizione classica, ai critico-speculativi, alla ricerca storico-critica, alla scienza delle religioni e agli studi comparati. Si denunciano i rischi legati a tale progetto. Secondo Scognamiglio, la ricerca di Rudolf Bultmann avrebbe finito “per svuotare tutto il mistero della persona e dell’opera di Gesù Cristo”. Il cristianesimo sarebbe “frutto di elementi sincretistici preesistenti nell’ambiente in cui è nato”. Si attribuirebbe alle comunità primitive una «forza creativa priva di controllo, di radici e di tradizioni solide che promuoverebbe una concezione mitologica di Gesù Cristo priva di qualsiasi fondamento storico» (p. 73). In proposito, sia consentito precisare che Bultmann non nega in assoluto la storicità di Gesù, sia lui che Martin Dibelius hanno scritto anche uno Jesus. Essi piuttosto reagirono all’impostazione liberale, ribadendo che il materiale evangelico è tutto permeato dalla fede. La frase di Bultmann sul Gesù storico spesso fraintesa, “… non possiamo saperne più nulla…” si riferiva solo alla sua personalità in senso psicologico, in polemica con le “vite di Gesù” ottocentesche; non intendeva affatto escludere la possibilità di ricostruirne l’azione storica e i contenuti della predicazione. Il Gesù storico ricostruito da Bultmann non è un qualsiasi maestro religioso, ma il profeta del regno di Dio ormai imminente, privo (con William Wrede) di una coscienza messianica. È vero, invece, quanto sostiene Scognamiglio, che Bultmann con la demitizzazione e l’interpretazione esistenziale del kerygma, collegato unicamente al nudo fatto della morte sulla croce, si contrappone non solo al Gesù “storiografico” dei liberali, ma anche al Gesù “terreno”, ritenuto essenziale da tutta la tradizione cristiana. Quanto al rischio di “elementi sincretistici” trasmigrati nel cristianesimo primitivo dall’ambiente che lo ha generato, va ricordato con Romano Penna che il cristianesimo nascente riprodusse in sé la medesima complessità del giudaismo del tempo, con la differenza che, mentre in campo giudaico la componente ellenistica si dissolse, in campo cristiano invece a soccombere, anche se gradualmente, fu il giudeo-cristianesimo. Inoltre, l’incontro con l’ambiente pagano greco-romano storicamente si rivelò molto fecondo. Sarà Paolo stesso a citare in modo esplicito: Arato di Soli (cf. At 17,28); Menandro (cf. 1Cor 15,33); ed Epimenide di Creta (cf. Tt 1,12). Oltre che a rivolgere il discorso all’Areopago (cf. At 17,22-31). Infine, nel Vangelo di Giovanni va confrontato il tema del Lógos sia con Eraclito che con lo stoicismo (Seneca, Musonio Rufo, Epitteto, Marco Aurelio). Il rischio si potrebbe paventare nella prassi dei culti misterici, in particolare nella koinōnía col dio cultuale nel pasto sacro (cf. in specie Dioniso), che pone il problema di un eventuale influsso sul messaggio della morte-resurrezione di Gesù. Va detto, tuttavia espressamente, che il concetto paolino della comunione sacramentale con Cristo (cf. 1Cor 10,14-22) non è accostabile al dato ellenistico. Si può ipotizzare, invece, che il culto ellenistico dei sovrani, confluito nel culto dell’imperatore, potrebbe aver influito sulla terminologia cristologica dei titoli di “Signore”, “Dio”, “Salvatore”. In proposito, tuttavia, va ricordato che la locuzione “dio da dio”, che si troverà nel simbolo niceno-costantinopolitano era già presente nella nota Pietra di Rosetta del 196 a. C. in riferimento a Tolomeo V Epifane. Più che paventare il rischio di “processi sincretistici”, sarebbe preferibile parlare d’incontri “interculturali e transculturali ante litteram” tra cristianesimo, giudaismo del secondo tempio e giudeo-ellenismo, come metodologicamente propone e auspica l’autore nel suo saggio.
Tra gli approcci della cristologia contemporanea l’autore, in dialogo con i principali esponenti dell’ebraismo, illustra i tentativi di recupero delle radici ebraiche non solo di Gesù, ma dello stesso cristianesimo, che è significativamente radicato nell’AT. Si esaminano le cristologie attente alla centralità della storia della salvezza, all’antropologia, all’interpretazione esistenziale, alla prassi della fede e dell’impegno sociale, che trovano nel sogno della fraternità universale il loro compimento. Tra gli studi sistematici di nuovo tipo sono prese in considerazione la cristologia di Karl Barth e di Hans Urs von Balthasar e le cristologie dal basso e dall’alto, con una particolare attenzione alle questioni disputate. Tra gli approcci cristologici in contesto si presentano, infine, il Cristo antenato della tradizione teologica africana, i molteplici volti asiatici di Gesù, il contributo delle teologie femministe, le cristologie in dialogo con le altre religioni e la sfida del pluralismo. Scognamiglio s’interroga sulla matrice ebraica, greco-romana, maschilista e patriarcale delle cristologie occidentali e sull’incapacità della teologia occidentale di entrare in dialogo con culture segnatamente diverse. Secondo la teologia femminista, il linguaggio biblico, nel quale “il maschile è la norma dalla quale il proprio io femminile devia, e il femminile è assunto grammaticalmente sotto il maschile”, va liberato da questo inaccettabile pregiudizio. E, ancora, alcune autrici ritengono che il matriarcato è storicamente anteriore al patriarcato e la ginocrazia andrebbe ripristinata contro ogni pretesa androcratica. L’archeologo ebraico Raphael Patai, infatti, dopo il rinvenimento di un’iscrizione con la locuzione “Jhwh e la sua Asherah” (coppia divina) e la scoperta dell’esistenza di un pantheon femminile (Ashima, Asherah, Athat,…), venerato da Israele unitamene al culto della dea Madre, ha offerto alle teologhe femministe precisi riscontri per sostenere il loro progetto liberazionista. In proposito, l’autore più volte utilizza la locuzione “Dio Padre e (Madre)”, volendo con ciò riferirsi non solo alle molteplici immagini bibliche di Dio allegorizzato come una Madre, ma soprattutto per arginare ogni possibile fraintendimento di un Dio percepito come fautore del dominio maschilista e patriarcale. Evidentemente, l’autore non intende riferirsi alla coppia divina pre-monoteistica, ma unicamente scongiurare eventuali interpretazioni sessiste del Dio uno. Per quanto concerne la sfida del pluralismo religioso, Scognamiglio è convinto che “non bisogna confondere l’universalità del mistero di Cristo con l’universalità della religione cristiana”. Occorre, inoltre, la “fedeltà alla propria identità e l’uguaglianza tra gli interlocutori del dialogo”. Per evitare l’imperialismo di una sorta di cristianocentrismo, va distinta “l’unicità di Cristo come Verbo incarnato e l’unicità del cristianesimo come religione storica”. Il capitolo si conclude con un paragrafo paradigmatico che indica il percorso futuro della ricerca cristologica: “verso una cristologia integrale, interdisciplinare e transculturale”. La sua attuazione dovrà declinarsi in cinque principi fondamentali: la tensione dialettica; la totalità; la pluralità; la continuità storica; l’integrazione.
Il terzo capitolo presenta un excursus storico-teologico sul “dialogo interreligioso come segno dei tempi”, con richiami alla dichiarazione conciliare Nostra aetate, che sviluppa le “forme e le finalità del dialogo”. S’illustrano alcune “dinamiche del dialogo”, la sua “dimensione spirituale” e l’urgenza di “ripartire dallo spirito di Assisi”. Il quarto capitolo è un excursus storico-teologico sul rapporto tra “il Gesù della storia e il Cristo della fede”, che dopo aver richiamato il significato della distinzione tra “storia e fede”, espone gli “sviluppi dell’indagine storico-critica”. Si documenta la “Old or First Quest”, la “New or Second Quest”, e gli “sviluppi della Third Quest”, che si articola in Gesù: 1. profeta taumaturgo; 2. profeta apocalittico; 3. Profeta sociale; 4. Maestro di sapienza. Il capitolo si conclude con un paragrafo su “Gesù, una persona in comunione”.
Nel capitolo conclusivo (V) “Gesù, una persona storico-dialogica”, l’autore s’interroga sul rapporto tra “l’annuncio kerygmatico e la definizione dogmatica”. Egli rinviene nel prologo giovanneo il fondamento biblico della dialogicità di Gesù. La dialogicità è ravvisata anche nello stile della sua predicazione, nel suo ethos disposto ad amare perfino i nemici. La cristologia, per Scognamiglio, dovrà obbedire al “principio di totalità” per evitare pericolosi riduzionismi e dualismi. Dovrà declinarsi in forma pluralista per evangelizzare “ogni cultura in ogni epoca e contesto”. Dovrà conformarsi al “principio della continuità storica” per essere contemporanea di ogni uomo. Dovrà essere “integrale”, “simbolico-trinitaria” per tenere insieme la cristologia dall’alto e dal basso, la soteriologia e la gesuologia. Dovrà essere interdisciplinare e transculturale per dialogare con fedi e culture diverse, e annunciare a ogni uomo che “un certo Gesù” è il “vivente”. [Nicola di Bianco]
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