C. Molari, Il cammino spirituale del cristiano. La sequela di Cristo nel nuovo orizzonte planetario, Gabrielli Editore, San Pietro in Cariano (Verona) 2021 [terza ristampa], pp. 564, euro 28.
«Questo libro […] è tratto dalle centinaia di pagine trascritte prevalentemente dalle registrazioni dei corsi tenuti da don Carlo ai Camaldoli. Ogni anno i corsi vertono su un tema specifico, e sempre includono le considerazioni fondamentali e ricorrenti dei temi centrali del suo insegnamento: le dinamiche della vita spirituale e di fede – un’illustrazione di carattere pratico e di guida all’esercizio personale – e le relative motivazioni di carattere concettuale e teorico […]. Il cuore e lo scopo dell’insegnamento di don Carlo è il come vivere la vita spirituale […]. Entrare nella dimensione spirituale dell’esistenza significa diventare consapevoli di sé, della vita, e aprirsi all’azione della forza creatrice che continuamente ci alimenta e ci offre nuovi doni, possibilità di vita non ancora accolte ma che sono sempre lì, a portata di mano per essere recuperate; perché l’azione di Dio che sostiene la creazione non viene mai meno. Per questo il passato non è un tempo morto e ormai purtroppo perduto, di cui rammaricarsi, ma una miniera da cui continuare a trarre insegnamenti di vita e opportunità di crescita in umanità. È questa l’esperienza concreta che è possibile fare dell’azione di Dio nella vita di ciascuno e che alimenta la speranza di fare del futuro un avvento di perfezioni nuove. È lavorare sull’uomo vecchio per farne l’uomo nuovo. È imparare a pregare per diventare il nome scritto per noi nei cieli […]. Questo libro è essenzialmente un testo pratico che, pur senza trascurare il cosa, dà ampio spazio al come della vita spirituale, cioè a come diventare e pervenire a quella pienezza cui la creatura aspira ed è chiamata. Le riflessioni di don Carlo sono sempre accompagnate da indicazioni pratiche sul lavoro interiore da svolgere a livello personale, attività che occupa la maggior parte dei partecipanti ai corsi. Alcune di queste sono state riprese nelle meditazioni personali riportate in coda ai capitoli in questo senso più significativi» (pp. 7-9).
La vita del compianto Carlo Molari, presbitero e teologo di grande spessore umano e culturale, attento ai temi della scienza e dell’evoluzione, è stata come un fiume in piena non solo per la vasta produzione letteraria in ambito dogmatico ma anche e soprattutto per la profondità e fecondità del suo pensiero spirituale e per il rigore e la coerenza del suo metodo d’indagine e la chiarezza espositiva delle sue tesi per le quali pagò un caro prezzo: l’allontanamento dall’insegnamento teologico e l’isolamento da molti circoli teologici e culturali della Chiesa cattolica che non ancora accettavano di buon grado le tesi evoluzioniste sostenute dal gesuita Pierre Teilhard de Chardin che da Molari furono riproposte con vivo interesse già negli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso.
Se per Karl Rahner la vita spirituale è la “nostra esistenza concreta davanti a Dio e ai fratelli”, per Carlo Molari, questa stessa energia vitale – il Mistero dell’Eterno che resta in sé e per sé indecifrabile ma comunicabile – ci costituisce dall’interno, come un movimento elicoidale che ci spinge in avanti e verso l’alto, liberandoci da ogni trattenimento statico e speculativo della stessa esistenza credente. In altri termini, la vita spirituale è un processo in divenire che il modello tradizionale di fede e di creazione non ha mai indagato con ampiezza e fecondità di progetti e di conseguenze per il nostro agire e stare nel mondo e nella storia. Dio non è semplicemente davanti a noi ma in noi, come forza-energia-amore vitale che ci costituisce e ci avvolge e ci abbraccia tutte le volte che ne siamo coscienti. «Il pensiero di don Carlo si colloca nella prospettiva evolutiva da tempo tracciata dal pensiero scientifico e ormai fatta propria dalla Chiesa nei suoi documenti ufficiali; la sua teologia si sviluppa all’interno di questa visione del mondo che getta una luce nuova, e straordinariamente efficace, sul vivere dell’uomo e sulla creazione, sulle meraviglie e i suoi abissi; e dunque, per chi crede, sul nostro rapporto con il divino. È una teologia che non intimorisce né scoraggia i non addetti perché non è disquisizione accademica e dottrinale, ma offerta di vita profondamente vissuta e meditata. È unione delle dimensioni del vivere e del conoscere che diventa sapienza eistenziale, nella quale riconoscersi e nella quale cimentarsi. È esercizio di preghiera e di fede che si sviluppa […] nella prospettiva trinitaria: la triade teologale» (p. 9).
Il punto di partenza della vita spirituale è la consapevolezza della nostra dipendenza da Dio come energia creativa da accogliere e da far crescere in noi. La vita spirituale non è nient’altro che l’approfondimento della dimensione più profonda della nostra esistenza che è data in origine biologicamente ma che prende forma, anche in chi non crede, nel momento in cui si prende coscienza della propria dipendenza da forze che ci precedono, che ci alimentano e che si sviluppano in noi: «si chiamino in un modo o in un altro, questo dipende dalla prospettiva culturale in cui la persona è cresciuta» (p. 18). Molari sottolinea questo paradosso nella vita spirituale: ci possono essere credenti che, pur avendo fede in Dio, non hanno mai approfondito la dimensione spirituale della propria esistenza, e ci possono essere non credenti che hanno raggiunto un buon livello di profondità o di vita spirituale coltivando la dimensione più intima della loro stessa esistenza «perché vivono nella consapevolezza della propria dipendenza da forze superiori» (p. 18). La vita spirituale, che avvolge la dimensione fisica, biologica e psichica della persona, si sviluppa nel cammino di crescita spirituale di ogni individuo grazie alla consapevolezza raggiunta del senso di dipendenza e d’interconnessione con la forza vitale che è Dio stesso. Per essere più precisi, «possiamo dire che la dimensione spirituale si sviluppa quando si realizzano due condizioni fondamentali. La prima è la consapevolezza di una nostra dipendenza completa, totale e continua da forze più grandi di noi, per cui abbiamo bisogno di essere continuamente sostenuti, alimentati, attraversati da energie, da forze, che ci rendono possibile il cammino, lo sviluppo, il pensiero; è la consapevolezza di un amore che ci investe, di una forza di vita che ci sostiene e di alimenta. È la consapevolezza di essere creature, cioè di non avere in noi il principio di ciò che siamo, di non essere fonte, noi, della nostra realtà, ma di continuamente accoglierla perché dipendiamo a tutti i livelli (fisico, biologico, psichico) in tutto ciò che siamo, pensiamo e operiamo. Si sviluppa allora la seconda componente della dimensione spirituale che è l’attitudine di accoglienza, cioè l’atteggiamento di interiorizzazione di quella forza che ci investe. Dunque, attitudine all’ascolto, all’accoglienza, alla sintonia con le forze della vita, le forze cosmiche che ci costituiscono, ci attraversano e ci sostengono; un atteggiamento che man mano acquista orizzonti sempre più ampi, al punto da caratterizzare tutto il cammino e diventare l’attitudine fondamentale della vita spirituale: mettersi in ascolto, accogliere, interiorizzare quello che ancora non è stato accolto e che è necessario per vivere e per crescere. Così, pian piano, si sviluppa quella dimensione spirituale per cui cresciamo come figli di Dio accogliendo quell’energia vitale che continuamente ci viene offerta, per usare la terminologia cristiana (altri possono usare altre terminologie). Sono formule che esprimono qualcosa che è più grande di ciò che noi diciamo, perché la realtà ci sfugge sempre e non riusciamo mai a coglierla in tutta la sua pienezza, in tutta la sua profondità» (p. 26).
Il punto di partenza, per Molari, è questa dipendenza totale che sperimentiamo nella nostra povera e fragile esistenza che è segnata dal passaggio e dell’attraversamento di forze positive e negative e, comunque, più grandi di noi, incontrollabili, ma che in qualche modo possiamo orientare. «La forza creatrice in noi diventa perfezione in fieri, una perfezione limitata in un processo che non è ancora al suo compimento. La vita spirituale è questo processo di presa di coscienza della propria capacità di perfezione, lungo il quale ognuno sviluppa le sue qualità peculiari e individuali. La condizione di creatura equivale a fare esperienza della nostra condizione di dipendenza, sia individuale che di tutti e di tutta la vita attorno a noi: non abbiamo il possesso della vita, non siamo noi la perfezione. Il cammino della vita spirituale è arrivare a questa consapevolezza: non possiamo nulla da soli, tutto ciò che abbiamo ci viene continuamente donato. Fino ad arrivare alla scoperta del nulla, scoperta di per sé gioiosa perché è scoperta di una forza più grande su cui possiamo fare affidamento, alla quale possiamo abbandonarci fiduciosi come all’inizio della nostra vita, quando altri ci hanno donato vita, amore, fiducia, sicurezza. La scoperta della dipendenza totale avviene inizialmente in modo gioioso; poi, man mano, ci rendiamo conto che non possediamo le situazioni e la vita, e abbiamo bisogno di allargare l’orizzonte della nostra fiducia di vita. Denaro, posizione sociale, relazioni ci illudono che possiamo arrivare alla pienezza che abbiamo inizialmente intravisto, ma sono lo promesse di un compimento che viene continuamente rimandato. Questo vale per tutte le spiritualità in termini generali. Noi preciseremo i termini della spiritualità cristiana, la quale è caratterizzata da un’ulteriore dinamica: la consapevolezza di un amore che ci investe, forza di vita che ci sostiene e ci alimenta, accompagnata da un atteggiamento di accoglienza, sintonia e interiorizzazione dell’azione di Dio nei nostri confronti, della sua presenza nella nostra vita. Il termine Dio che noi utilizziamo – altri parlano di forza cosmica, forza creatrice o usano altre formule – è un termine tradizionale in molte religioni e culture (ebraica, induista, musulmana) e non è solo della spiritualità cristiana» (pp. 26-27).
La vita spirituale, che parte dal sentimento di dipendenza e dal bisogno di accogliere Dio come energia vitale, attraverso l’interconnessione a più livelli con gli altri esseri viventi (e non solo umani), è il punto di partenza anche per il credente, in particolar modo del cristiano, che inizia a pregare Dio, confrontandosi sui grandi temi dell’esistenza e approfondendo le sfide del momento alla luce della rivelazione biblica e creando spazi di comunione e di fraternità, elaborando ciò che viene presentato come male o imperfezione della vita stessa. «La scoperta di questa nostra imperfezione e incompiutezza di creature è la scoperta del male nella nostra vita e nel creato. E allora, una volta presa coscienza di questa condizione, tutta la vita spirituale cambia orientamento […]. Noi nasciamo non compiuti ma bisognosi di essere compiuti, per cui vivere i rapporti è il dato iniziale fondamentale» (p. 30).
Le premesse acquisite da Molari sono ampie e ricche di sollecitazioni e sono il segno di un pensiero fecondo che si apre al ventaglio di proposte interreligiose che s’alimenta della visione ottimistica dell’evoluzionismo che vede nel concetto stesso di “processo” e di “cambiamento” una via d’uscita, se non proprio una risposta, al male nel mondo e ai problemi che affliggono oggi come ieri il destino dell’umanità. Più volte ritorna, quasi come una costante, l’idea che il punto di partenza di ogni spiritualità è il sentimento di dipendenza da una forza maggiore che ci avvolge dentro e fuori l’esistenza particolare, come altresì riemergono in più punti i riferimenti alla dimensione istintiva che tutti ci portiamo dentro come bisogno di sopravvivenza (cf. pp. 36-38) e che spesso fa emergere la nostra parte egoistica e individualista che ci chiude al cambiamento, al processo di crescita e di trasformazione interiore. Le nostre decisioni spesso tradiscono i buoni propositi di cambiamento e di conversione perché la sfera degli istinti prende il sopravvento sulla parte emozionale e razionale che ci costituisce come persone: questo è un dato oggi acquisito anche in ambito teologico grazie allo studio delle strutture e delle nostre dinamiche cerebrali. In tal senso, la preghiera ha un ruolo molto importante per aprirci al lavoro interiore, per avviare quel processo di cambiamento che può aiutarci a controllare la sfera istintiva del nostro pensare e agire.
Con richiami evangelici e biblici, Molari intende la preghiera come il riconoscere che «c’è una forza più grande che è in azione in noi e nella storia e, quindi, credere che occorra mettersi in sintonia con questa che è la forza della vita, sulla lunghezza d’onda dell’energia vitale che alimenta la nostra esistenza. Pregare non vuol dire sollecitare Dio a fare qualcosa. Quando diciamo la preghiera, e mi riferisco a tutte le forme di preghiera, questa non consiste nel dire qualcosa a Dio, o all’angelo custode, per chi crede all’angelo custode, o ai nostri morti, o a qualcuno che non siamo noi. Possiamo pregare per tante persone, ma questo non significa che vogliamo dire a qualcuno che faccia qualcosa al nostro posto o ci aiuti nel fare qualcosa. Con la preghiera di domanda […] noi esprimiamo il desiderio di qualcosa che vorremmo fosse realizzato; il che è da intendersi, nella prospettiva che sto delineando, mettersi in atteggiamento di accoglienza della forza della vita che ci avvolge e dell’amore che ci attraversa, e di disponibilità a diventare noi gli strumenti del bene, della verità e della giustizia che stiamo invocando. Pregare vuol dire accogliere la forza di cambiamento che rende possibili atteggiamenti nuovi e forme nuove di fraternità. La preghiera è questo atteggiamento che sviluppiamo per cui consentiamo all’azione di Dio in noi di fiorire in modo nuovo, di esprimersi in modo nuovo, di sviluppare novità di vita; ma è sempre e solo dall’interno delle creature che questa novità nasce. La preghiera, anche quella di domanda, serve a cambiare noi! Con la preghiera ci mettiamo in sintonia con la forza creatrice secondo il modello per cui Dio non opera mai al posto nostro sostituendoci – è la prospettiva evolutiva di cui parleremo –ma sempre ci rende possibili di fare le cose, ci offre la possibilità. Per questo possiamo imparare a diventare noi capaci di fare» (p. 40).
S’avverta forte, da questa lunga citazione sul significato della preghiera, la preoccupazione di Carlo Molari di non deresponsabilizzare il soggetto credente attraverso una concezione della vita spirituale che sostituisce l’impegno della persona con l’intervento gratuito e quasi magico di Dio stesso quasi fosse il “tappabuchi” o il Deus ex machina che risolve i nostri problemi e soddisfa quasi automaticamente i nostri bisogni. Certamente, pur condividendo le belle riflessioni e le profonde definizioni di preghiera e di vita spirituale che il nostro autore propone in chiave evolutiva e dialogica, lasciando ampio margine d’azione e di condizione a ogni esperienza di Dio o del sacro, avanza l’interrogativo sull’identità del cristiano e sul rapporto personale che intrattiene con il Signore. Molari preferisce bypassare questo aspetto e concentrarsi sull’invito che Gesù rivolge agli stessi discepoli a pregare sempre, facendone una lettura più esistenziale e di consapevolezza di sé che storico-critica. Pregare sempre, significa, in tal senso: «la continuità dell’accoglienza dell’azione creatrice, se crediamo in Dio, oppure della forza della vita. È realmente l’atteggiamento interiore necessario per accogliere l’energia creatrice e crescere nella dimensione spirituale. Se diciamo che invochiamo Dio per la guarigione, per esempio, di una persona a noi cara, oppure per accompagnare alla morte una persona cara, noi esprimiamo la nostra dedizione a esprimere questa forza, ad aiutare, a trasmettere energia; noi diventiamo gli agenti di questa realtà per la realizzazione della perfezione che invochiamo. Noi diventiamo gli agenti; non è qualcosa che affidiamo alla responsabilità di Dio, ma dichiariamo la nostra responsabilità, ci dichiariamo disponibili a diventare strumenti di questo processo. Altrimenti la nostra preghiera è falsa e, se non abbiamo questa disponibilità, inutilmente invochiamo» (pp. 41-42).
Se pur condivisibili questi pensieri sul senso del pregare, che lasciano intendere una concezione post-teistica di Dio e dell’esistenza credente – in quanto Dio non opera al di fuori di noi e della storia, ma in noi e nelle leggi della natura, evitando così ogni sorta di divisione tra natura e grazia, divino e umano, sacro e profano –, ci chiediamo, però, che cosa ne è di tutti gli esempi biblici e della tradizione mistica e spirituale non solo cristiana che lasciano intendere anche l’autenticità della preghiera d’intercessione, di supplica, di lamentazione e di ringraziamento per i “segni” (se non vogliamo parlare di miracoli o di prodigi) che il Divino (o “Forza vitale”) ha operato nella storia o che può compiere nell’oggi della nostra esistenza concreta? Per Molari, la preghiera modifica semplicemente il nostro atteggiamento interiore: siamo rivolti a Dio ma per parlare a noi stessi, per attuare il cambiamento interiore di cui abbiamo parlato in precedenza. «Invocando, noi diventiamo. Allora possiamo usare espressioni in senso metaforico, ma non perché Dio deve fare qualcosa in più di quello che sta facendo, ma perché noi, consapevoli del nostro bisogno, dell’insufficienza di ciò che siamo, possiamo così esprimere atteggiamenti che ci aiutino a raggiungere forme nuove assorbendo, accogliendo e interiorizzando quella forza di vita che esiste già e che in noi può diventare qualità nuova» (p. 42). In realtà, questa concezione della preghiera è molto più vicina alla sapienza orientale (induismo, buddismo, taoismo) che alla grande tradizione biblica che, a partire dalla spiritualità ebraica, vede la preghiera come un atto in cui si riconosce la propria fragilità-creaturalità innanzi al Dio tre volte Santo.
Per Molari, la preghiera «non è per avere qualcuno che operi al nostro posto» ma «per diventare per noi capaci» (p. 43). Ciò in parte è vero (“pregare per diventare” una persona migliore, disponibile al cambiamento, allo sviluppo della nostra dimensione interiore) anche se richiede il riconoscimento di Dio come “Forza vitale” o “Energia vitale” che opera al di fuori di noi se pur nella storia, ossia nelle leggi del tempo e dello spazio, anticipandone il pieno compimento o perfezionamento. Diversamente, la stessa concezione di Dio e della fede e della vita spirituale si riduce al compimento anonimo e impersonale di quel progetto intelligente di vita che è lo stesso principio creatore o disegno intelligente che è alla base del pensiero evolutivo. Se da una parte è vero che in ambito teologico è necessario riscoprire una concezione più dinamica ed evolutiva della persona e della stessa esistenza credente (perché «noi siamo in un processo» e «l’umanità, tutta la specie umana, è in cammino e in evoluzione» p. 75, e la vita spirituale «è qualcosa che fiorisce dal di dentro della struttura della creatura» p. 79), dall’altra, però, sembra necessario riconoscere che la vita spirituale non è semplicemente l’auto-compimento evolutivo della persona, ma uno sviluppo o trasformazione che avviene, personalmente e socialmente, a partire non dalla mia-nostra consapevolezza e disponibilità al cambiamento, ma dall’agire di Dio (o Forza vitale-creatrice) in noi. Per Molari, rirendendo le tesi di Teilhard de Chardin, la forza creatrice di Dio che continua a operare e alimenta il processo evolutivo non si sostituisce mai alle creature (cf. p. 87): bisogna pensarsi alla presenza di Dio o della Forza creatrice attraverso il nostro accogliere questa Forza che non agisce per noi ma in noi. L’azione di Dio non aggiunge nulla al processo evolutivo in corso. Questo aspetto o concezione richiama alla mente lo slancio vitale di H. Bergson. «L’azione di Dio non aggiunge ma alimenta, sostiene, offre possibilità, non sostituisce mai le creature, non aggiunge qualcosa alle creature, ma fa fiorire dal di dentro; proprio per questo è azione creatrice» (p. 88). Si tratta di approfondire, per Molari, l’idea della creazione continua che parte dal grembo stesso delle cose: siamo creature non perché abbiamo avuto un inizio temporale ma perché siamo da sempre inseriti nel processo di dipendenza da una forza più grande. Il concetto più esatto di creazione è proprio questo: dipendiamo da una Fonte, da un’Origine. Per cui, la vita spirituale consiste nel mettere in circolo l’Energia vitale, ripristinare il nostro rapporto con il Principio e non attendere un intervento di Dio dall’esterno di noi stessi. «Per Dio non ci sono interventi-eventi, egli agisce su di noi come una forza che continua sempre, non può mai venire meno, c’è tutto da sempre, assieme al tempo che ha un inizio per l’uomo, ma non per Dio» (p. 95).
In tal senso, Dio ci offre molte possibilità per diventare quello che possiamo essere concretamente e non quello che vorrebbe lui secondo un progetto prestabilito. C’è, in questa concezione evolutiva della creazione, il riconoscimento di una sovrabbondanza di offerta di libertà e di casualità da parte di Dio per noi. Non c’è un disegno rigido per ciascuno di noi, ma un ventaglio di possibilità di realizzazione (cf. pp. 99-100). Anche Dio è curioso di andare a vedere come vanno a finire certe avventure. «Dio offre delle possibilità, non le impone; è creatore, non ci sostituisce mai. Dio non può mai sostituire una creatura perché la creazione e la storia sono fatte di dinamiche create e Dio non ha dinamiche create: le può suscitare, ma non sono di Dio, sono delle creature […]. Dio non può sostituire mai le creature, ma offre loro le possibilità per giungere al traguardo definitivo. Anche il miracolo: sono sempre creature che lo fanno; certo perché si aprono all’azione di Dio in modo più profondo, ma sono sempre le creature che operano il miracolo. Per questo Gesù non diceva “Dio ti ha guarito”, ma la tua fede ti ha salvato, perché l’azione di Dio c’è da sempre ed è più ricca e profonda di quello che noi riteniamo. È in questo orizzonte che dobbiamo vivere la vita teologale, cioè l’offerta che Dio ci fa e continua a farci in tutto il tempo, passato e futuro. Ed è abbandonandoci con fiducia a lui che possiamo pervenire a quel traguardo a cui ci chiama. In qualunque condizione noi ci troviamo, qualsiasi cosa abbiamo fatto, possiamo accogliere l’azione di Dio per crescere come figli suoi» (p. 101).
Sicuramente queste, come altre pagine del presente saggio, sono ricche di spunti e di suggestioni e obbligano il lettore ad approfondimenti e a una re-sistematizzazione di un impianto dottrinale classico – soprattutto a proposito dell’agire di Dio nella storia e del senso pratico della fede e dell’agire credente –, e vogliono sottolineare il fatto che «dobbiamo educarci a pensare che la vita è più grande della nostra piccola esistenza e ha un’infinità di manifestazioni» (p. 107) e che la realtà umana non è mai stata unica e perfetta e poi si è andata degradando, ma che vive di un processo di compimento che è ancora in atto. La vita ha infinite possibilità di realizzazione presenti sulla stessa faccia della Terra. «La vita è più grande di noi e può esprimersi in noi solo se accogliamo, se restiamo collegati con la Fonte» (p. 108). C’è, in molti passaggi del pensiero di Carlo Molari qui raccolto, un sano ottimismo tipico della prospettiva evoluzionista che, tuttavia, potrebbe apparire ingenuo e iridescente nel momento in cui deve fare i conti con il male nel mondo e i conflitti che affliggono l’umanità. Il male, carenza-privazione di bene, è solo il segno della nostra imperfezione, di un cambiamento non avvenuto, di un rallentamento del processo di consapevolezza da parte nostra, di un bene necessario non presente? Qui il nostro autore non approfondisce l’argomento e, richiamandosi ad altri autori che hanno fatto propria la concezione evolutiva della creazione, si limita a dire che il male è un’imperfezione dello stesso processo evolutivo in atto (limite di struttura e imperfezione dello sviluppo), pur se consapevole che al male bisogno rispondere con dinamiche di bene, accogliendo sempre la forza della vita (cf. pp. 205-207), nella certezza di poter attraversare tutte le situazioni della vita con la croce di Cristo (cf. p. 209). Se pur riconosciuto e denunciato, il male ci chiede di affrontarlo introducendo il bene, portando e vivendo la sofferenza stessa. D’altronde, lo stesso Teilhard de Chardin, più volte interrogato su questa sfida, ha semplicemente ribadito che la sua ricerca era finalizzata ad affermare in senso positivo il processo biologico di ominizzazione senza alcun approfondimento teoretico visto che l’esperienza di Cristo, risorto dai morti, lascia intendere un positivo compimento finale dell’uomo stesso. Il male, tuttavia, resta un’esperienza inevitabile nel processo di coscientizzazione e di sviluppo della persona nel cosmo. Così, per Molari, c’è una responsabilità verso la vita, verso il processo stesso di pienezza d’essere, che ogni vero credente deve assumere nella propria esistenza trasfigurata. «Dobbiamo essere capaci di suscitare vita, di comunicare energie vitali anche partendo dagli errori e dal male compiuto nella storia» (p. 455). La remissione dei peccati e il perdono da diffondere appartengono allo specifico del cristianesimo che esprime così il proprio dinamismo spirituale che siamo chiamati ad accogliere e a mettere in moto nelle nostre povere esistenze.
Il male compiuto e subìto ha bisogno di redenzione, cioè di accoglienza da parte nostra e di superamento. Si tratta di imparare a vivere guardando tutti gli aspetti del male, anche di quelli dei quali non eravamo consapevoli: bisogna fare memoria, invocando e accogliendo l’azione creatrice. Il traguardo della vita spirituale è l’unità interiore, ossia giungere a vivere in sintonia profonda con la forza della vita, con l’amore di Dio che passa in tutte le situazioni dell’esistenza. «Veniamo al mondo interiormente divisi perché ci viene offerta una quantità enorme di possibilità da realizzare che, però, non possono essere realizzate tutte, per cui occorre che facciamo delle scelte. È questo cammino di decisioni e di scelte che ci conduce all’unità personale e all’armonia di tutte le nostre componenti, quindi dalla complessità, o meglio dalla molteplicità dispersa, all’unità. È il cammino personale della vita spirituale: dalla divisione profonda della persona, dalla molteplicità, dalla dispersione, all’unificazione. È il cammino di identità per cui giungiamo a essere noi stessi. Nella prospettiva evolutiva anche questo è molto chiaro; noi non nasciamo già identificati: abbiamo una struttura genetica, abbiamo delle componenti di tipo psichico che ci sono donate indotte dagli altri, ma non abbiamo ancora un’identità nostra. Questa si costruisce lungo il cammino con le decisioni progressive e unificanti con le quali progrediamo accogliendo continuamente il flusso di vita che ci viene offerto attraverso le relazioni che sono necessarie proprio per realizzare la nostra identità: da una molteplicità all’unità, dalla dispersione all’unificazione. Questo è il cammino di tutte le persone ed è interessante notare che, in questo processo, di fatti noi viviamo esperienze di morte […] perché noi procediamo eliminando delle possibilità per realizzarne una» (pp. 538-539). Ed è proprio l’unione con Dio, con l’energia vitale, che ci permette di creare unità, integrando il male personale e sociale e dando una svolta alla nostra esistenza. Proprio perché nessuno può separarci dall’amore di Dio è importante che compiamo un cammino di comunione e di relazione quanto più profondo possibile, confrontandoci anche con gli eventi dolorosi e le sconfitte della vita. Bisogna credere nel cammino spirituale avendo come punto di riferimento lo stesso cammino di Gesù, consapevoli che nessuno potrà mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù (cf. Rm 8,39). Nel frattempo speriamo in Dio andando verso di lui per incontrarlo, per accelerare, quasi, la sua venuta e farla accadere. «È soprattutto per quegli aspetti di bene, di verità e di giustizia in cui siamo in ritardo che possiamo usare questa metafora dell’accelerare l’incontro e dell’andare verso l’incontro con Dio che viene! (p. 415). Certamente, esercitare la speranza, aprire nuove strade per il cammino di unità del genere umano, non ci assicura che tutto andrà bene, proprio come stiamo sperimentando in questo periodo visto che il rischio di un disastro nucleare è alle porte: i processi di bene che siamo in grado di porre in atto non serviranno a un gran che se personalmente e socialmente non avviamo un percorso di conversione etica e di consapevolezza globale.
di Edoardo Scognamiglio
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