Per avvicinarci al tema della fraternità nell’ebraismo bisogna premettere un dato filologico: il termine achavva (fraternità) ricorre una sola volta nel Tanakh[1], a proposito della “fratellanza tra Giuda e Israele” (Zc 11, 14). “Nella Torah[2] il legame di fraternità, espresso dall’utilizzo della parola Ach (fratello) o Achot (sorella) va al di là di quello parentale e unisce tutto il popolo di Israele. Ach è speso sinonimo di Rea amico (tradotto anche prossimo…). Per dire da ‘l’uno all’altro’ l’ebraico dice letteralmente da ‘un uomo a suo fratello” o da “una donna a sua sorella’. Per la Torah la fraternità è dunque questo legame di somiglianza che ci unisce all’altro, somiglianza di sangue, ma anche di diritti e di doveri quanto al nostro ruolo in questo mondo. Tutti gli esseri, che sono identici ma non uguali, sono legati da un rapporto di fraternità”[3]. La Torah racconta storie di fraternità (Caino e Abele, Ismaele e Isacco, Esaù e Giacobbe, Giuseppe e i suoi fratelli), da cui emerge l’accettazione del fratello, l’accettazione della differenza dell’altro pur nella somiglianza. La Torah dimostra pure che “la fraternità non è qualcosa di innato, ma piuttosto il risultato di un lungo processo in cui l’uomo prende a riconoscere e a dominare le sue pulsioni omicide per arrivare alla rivelazione di una fraternità plurale che è il progetto del messianismo”[4]. La storia della ‘fraternità mancata’ risale alle origini dell’umanità; infatti, quando l’Eterno interroga Caino circa la sorte di Abele, Caino gli risponde: “Sono io il guardiano di mio fratello?” (Gn 4,9). La possibilità della ‘fraternità mancata’ è sempre latente, per cui nella Torah ci sono numerose regole riguardanti il rapporto tra gli esseri umani, mentre pochissime – puntualizza Furio Aharon Biagini – quelle relative al rapporto tra l’uomo e il suo Creatore. L’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di HaShem (il Nome), e il suo compito è quello di gestire le relazioni sociali nei confronti del prossimo, da cui dipende la qualità della relazione della creatura nei confronti del suo Creatore. Il termine fraternità ricorre anche nella tradizione liturgica ebraica; è presente nell’ultima delle sette benedizioni recitate su una coppa di vino in occasione del matrimonio: “Tu sei fonte di benedizione, o Eterno, nostro Signore, Re del mondo, che hai creato la gioia e la felicità, lo sposo e la sposa, la festosità e l’allegria, l’amore e la fraternità, la pace e l’amicizia”.
Nella Torah il tema della fraternità viene richiamato indirettamente da quello dell’amore per il prossimo, molto ricorrente, che si ricollega all’amore dell’uomo per Dio, che scaturisce dall’amore di Dio per il suo popolo e per tutto le sue creature. Come afferma lo storico Pinchas Lapide[5], secondo l’ebraismo l’amore per il prossimo, la fratellanza umana, ha senso solo con l’amore per Dio, come risposta alla sua paternità universale, altrimenti la filantropia diventa un orizzontalismo utilitaristico, una cooperazione di egoisti senza Dio[6]. L’amore (ahavah)[7] è, infatti, il tema centrale della Torah; l’amore di Dio, come attesta il Tanakh, si manifesta con chesed e rachamìm (misericordia, bontà, compassione). Il patto di alleanza tra l’Altissimo e il suo popolo è una vocazione all’amore che rende liberi. L’ebreo è chiamato a vivere anzitutto l’amore per Dio: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,4-5). Questo rapporto di amicizia con Dio interpella alla libertà da ogni idolo: “Non avrai altri dei di fronte a me” (Es 20,3). L’amore per l’Altissimo si manifesta nell’amore per il prossimo, incarnazione dei sentimenti di Dio verso il suo popolo e verso ogni sua creatura. Il secondo comandamento a volte viene chiamato dai Rabbi il Grande Comandamento: “Ama il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19, 18). Questo comandamento costituisce il cuore del libro centrale della Torah[8]: “Ama il tuo prossimo; egli è come te. Che cosa vuole insegnarci il Creatore con queste parole? HaShem vuole dirci: Io vi ho creati entrambi come portatori della mia immagine, cosicché ogni odio per il prossimo non è altro che odio mascherato per HaShem. Se serbi rancore al tuo prossimo per qualcosa, se lo insulti, se lo detesti o lo disprezzi, in realtà fai tutto questo alla scintilla divina che arde nel suo cuore conferendogli la nobiltà della natura umana”(Joshua Heschel)[9]. Secondo il Maestro Hillel il Saggio[10] “la fraternità umana consiste nell’amare il prossimo come se stesso, cioè il vero amore è riconoscere l’altro e in questo vero amore c’è la possibilità di stabilire la dignità dell’altro così come lui è”[11]. Secondo il Maestro Shammaj[12] “non c’è un popolo, una persona più sacra delle altre: ognuno nella propria misura, nella propria individualità è sacra perché è imago Dei e questo è il fondamento della sua dignità umana”[13]. L’amore per il prossimo secondo Rabbi Hillel è l’essenza del messaggio biblico, infatti nel Talmud[14] si racconta che a un pagano che desiderava conoscere l’intera Torah rispose: “Ciò che non è buono per te non lo fare al tuo prossimo. Il resto è commento. Vai e studia [la Torah]” (Shabbat 31a). Bisogna imitare il comportamento di Dio che veste gli ignudi (cf. Gn 3,21), visita i malati (cf. Gn 25,11), seppellisce i morti (cf. Dt 34,6); analogamente deve fare l’uomo (cf. Sotah 14a). Secondo l’insegnamento rabbinico “la torà inizia con un atto di amore d’amore e termina con un atto d’amore di Dio: apprestò il vestito per la prima coppia (Gen 3,21) e l’ultimo capoverso riferisce che Dio seppellì Mosè (Deut. 34,6)”[15].
Poiché il Signore è benevolo, compassionevole (cf. Sal 145,9) i Rabbì (Maestri) insegnano che gli uomini devono imitare la bontà illimitata di Dio. Secondo l’interpretazione chassidica[16], dove due si amano disinteressatamente, Dio entra in quell’unione come terzo[17]. Il più grande commentatore ebreo medievale, Rashi[18], interrogandosi sull’amore per il prossimo ha affermato che esso non viene comandato come sentimento, poiché sarebbe impossibile, ma come comportamento pratico che sia dimostrazione di amore, come consolare gli afflitti, fare segretamente l’elemosina, seppellire gli insepolti. Un altro rabbi si chiedeva come sia possibile fare opere di amore se non scaturiscono da tale sentimento ed egli ha trovato tale risposta: nel realizzare le dimostrazioni pratiche di amore comincia a nascere anche il sentimento dell’amore[19]. Rispondendo ad un allievo, rabbi Jechiel Michael von Zloczow[20] ha affermato che Avraham ha ottemperato a tutta la Bibbia anche quando non c’era, perché ha amato tutte le creature. E’ peccaminosa l’azione che non fa crescere l’amore, mentre è secondo la volontà di Dio l’azione che alimenta l’amore. Rabbì Avraham Joshua Heschel[21], uno dei grandi filosofi della religione contemporanei, ha affermato che, essendo l’uomo immagine di Dio, ogni forma di odio verso il prossimo è odio verso Dio mascherato; ogni volta che disprezza il prossimo lo si fa alla scintilla divina che arde nel suo cuore. Secondo rabbì Simeon ben Eleazar[22], poiché il comandamento dell’amore proviene dal giuramento di Dio, il praticarlo comporta la ricompensa divina, mentre il contrario la sua punizione (cf. Abot de-rabbi Natan 16).[23] Nella lingua ebraica non esiste l’imperativo categorico, ma solo il futuro, per cui non si dice ‘devi amare il prossimo’, ma ‘amerai il tuo prossimo’. In merito, un commentatore rabbinico ha affermato: “L’amore del prossimo non sarà allora una costrizione esterna, ma un impulso interno – l’impulso a darsi ai fratelli che Dio ti ha dato e di cui tu hai bisogno, per raggiungere una conoscenza di te adulta e matura”[24]. L’ebraismo rigetta la ricerca egoistica della salvezza individuale, come pure la solidarietà orizzontale fine a se stessa, perché occorre, invece, vivere l’amore di Dio che sfocia nell’amore del prossimo, in quanto nella diversità dell’altro – voluta da Dio – viene riconosciuto un fratello in Dio, padre comune: “[…] solo un tale amore, nella sua duplicità e unicità, contribuisce a fare dell’uomo che cammina su due gambe un’immagine di Dio. Esso è il compendio di tutti e dieci i comandamenti del Sinai, la cui sostanza è tutta contenuta nelle parole di Gesù: amore di Dio e del prossimo; giustizia, misericordia e perdono delle colpe: E’ questa la summa della lieta novella della Bibbia; il resto è commento”[25]. Il neotestamentarista ebreo[26] – come ama definirsi Pinchas Lapide – trova espressa simbolicamente la sintesi tra l’amore per Dio e l’amore per il prossimo paradossalmente nella croce, nel sadico strumento di martirio, espressione della crudeltà romana, su cui migliaia di ebrei, come Yeshùa di Nazareth, hanno versato il loro sangue. L’asta verticale, il palo radicato in terra e proteso verso il Cielo, ci ricorda l’amore per Dio, mentre la trave orizzontale ci rimanda all’amore illimitato verso il prossimo, senza alcuna differenza tra ricchi e poveri, neri e bianche, ebrei e cristiani, ma semplicemente uomini, fratelli tra di loro, per tutti figli di un unico Dio-Padre. I due bracci che sono stretti e fissati l’uno all’altro ci ricordano il duplice comandamento che accomuna ebrei e cristiani[27]. L’amore per il prossimo non può essere un imperativo esteriore, ma può solo scaturire spontaneamente dal cuore rinnovato: “Non appena Dio avrà ‘posto nel nostro cuore e scritto nella nostra mente’ (Ger. 31,33) la sua torà, non appena ‘ci avrà tolto il cuore di pietra e ci avrà dato un cuore di carne ‘(Ez. 36,26), allora non ci sarà più alcun bisogno di comandamenti e di prescrizioni perché l’amore per il prossimo in quanto traboccante amore per Dio diventi un atteggiamento naturale. Allora a spingere all’amore non sarà una costrizione esterna, ma una spinta interiore, la spinta a donarsi al fratello che Dio ci ha donato e di cui abbiamo bisogno per crescere e maturare nella conoscenza di sé”[28].
Secondo la Torah l’amore si esprime anzitutto con la giustizia, la Tzedakah, termine semitico molto ricco di significati, che esprime anche la bontà di Dio nel suo amore per l’uomo, poiché i due attributi principali dell’Eterno, nella loro unità, sono la bontà e la giustizia; non ha un significato giuridico in relazione al dare e all’avere (dikaiosyne greca e iustitia latina), “in base alla quale una retta condotta etica merita una giustizia giudiziale che ‘giustifica’ l’uomo davanti a Dio”[29]. La Tzedakah sociale porta alla sacra insoddisfazione, perché non può mai essere perfetta, perché sprona a compiere una giustizia sempre più alta, realizzazione del regno di Dio in terra. Solo allora ci sarà il compimento della giustizia più alta. La giustizia qualitativamente migliore, secondo l’interpretazione rabbinica, è quella del fare il bene in senso altruistico (cf. Dt 6,18), la giustizia in senso sociale che rispecchia la dimensione teologica. La giustizia migliore elimina ogni forma di ostilità, rende pienamente umani, cioè, portatori dell’immagine di Dio, alternativa all’autodistruzione dell’uomo con l’osservanza di Lv 19,18: “Ama il prossimo tuo come te stesso”[30].
Per l’ebraismo esiste un profondo legame tra l’amore per il prossimo e la pace. Lo shalom biblico indica una completezza totale, non la semplice assenza di guerra (eirene) e neppure la pax (potere amministrativo). Tale interezza dell’armonia assoluta voluta da Dio è tridimensionale, poiché racchiude l’aspetto personale, interiore (cf. Lam 3,17), quello verticale dell’unità con Dio (cf. Giud 6,24), quello orizzontale dell’unità con gli uomini (cf. 1Re 5,4). L’interezza è sociale, politica e religiosa, aspetti inseparabili come anima, corpo e cultura. “Così, il bene e la prosperità, il benessere e la quiete dell’anima, la felicità e l’armonia sociale sono tutte parti essenziali e che si completano a vicenda di un medesimo shalom, che è indivisibile, esattamente come gli ambiti biblici di politica, società, natura e teologia – tutte parti di un unico ordinamento cosmico sotto l’unico Dio creatore”[31]. Si tratta dell’impegno per la pace, la gioia, la libertà, la riconciliazione, la comunione, l’armonia, la verità, la giustizia, la comunicazione, l’umanità . L’impegno concreto per la pace è manifestazione dell’amore per il prossimo anche a livello universale, non solo interpersonale. I rabbini insegnano – puntualizza Lapide – che tutti i comandamenti vanno osservati quando si presenta l’occasione, a differenza della pace a cui bisogna dare la caccia (cf. Sal 34,15), cioè occorre fare la pace (cf. Is 27,5; Gios 9,15), mettendo in atto un’azione analoga a quella della creazione (cf. Gn 1,16); nella liturgia sinagogale, infatti, un ricorrente sinonimo di Dio è quello di promotore della pace, creatore di pace. “Infatti non è certo una fatica da poco quella di abbattere i muri della sfiducia per gettare i ponti. Qui si parla di persuadere, di avvicinare le persone con discrezione l’una all’altra, di percepire le minime possibilità di compromesso, insomma di un atteggiamento di cui Dio stesso ci dà l’esempio nel patrimonio rabbinico di sentenze, per invogliarci all’imitatio Dei”[32]. I padri del Talmud dell’epoca gesuanica, discutendo circa la possibilità di fare pace sulla terra, parlavano di piccoli passi concreti, come la riduzione dei conflitti, l’appianamento delle dispute, la rinuncia al diritto, l’adempimento totale dei comandamenti dell’amore, per contribuire alla realizzazione della grande pace, della piena pacificazione del mondo secondo la sovranità di Dio. Lapide cita come esempio la parabola rabbinica della pentola che, con il suo fondo sottile, separa l’acqua dal fuoco, non li riconcilia affatto, ma li porta a una pacifica collaborazione costruttiva, con l’effetto della pietanza gustosa. I maestri d’Israele, tra i quali Pinchas annovera anche Yeshùa di Nazareth, non ignorano la realtà della guerra, ma intendono solo insegnare la possibilità di un accordo internazionale conforme alla volontà di Dio: “Quando i pacifisti del mondo avranno in questo modo avvicinati gli uni agli altri i nemici, inducendoli a collaborare all’opera salvifica di Dio, solo allora Dio porterà a compimento con il suo irresistibile amore misericordioso la pacificazione originaria, che è compito dell’uomo. Egli renderà amici tra di loro persino Davide e Golia, Israele ed Edom, il fuoco e l’acqua, come narra uno degli aneddoti escatologici del Talmud”[33].
Il decalogo inizia con la constatazione all’indicativo della prova d’amore liberatrice di Dio (cf. Es 20,2), che costituisce il presupposto per chiedere all’uomo di sottoporsi al giogo del regno dei cieli, che ebraicamente significa farsi carico volontariamente dei comandamenti. E’ la realtà della sollecitudine misericordiosa di Dio il fondamento di un contraccambio da parte dell’uomo con l’amore sconfinato per il prossimo, che davanti a Dio è sempre un fratello. “(…) l’amore di Dio e l’amore per il prossimo, [sono] indissolubilmente legati l’uno all’altro mediante il vincolo del comandamento di santità: ‘Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo!’”[34] (cf. Lv 20,7.26). Chi fa la volontà di Dio sperimenta la fraternità universale, poiché “‘fare la volontà di Dio’ significa fondare un kibbutz ideale, uno spazio vitale della fede, che prenda in seria considerazione l’affetto di Dio per l’uomo, tanto da prenderlo a modello per le relazioni intraumane”[35]. La fraternità comporta un cammino di riconciliazione che, secondo l’insegnamento rabbinico, è la premessa – come evidenziato da Lapide – per implorare da Dio la riconciliazione con lui (cf. Joma 8,9). L’ebraismo consacra dieci giorni penitenziali, prima di Yom Kippur, proprio alla riconciliazione con gli altri, che richiede il superamento di se stessi umiliandosi a chiedere scusa. Tali giorni penitenziali, nella tradizione ebraica, “sono in stretto rapporto con la grande colpa commessa da tutto Israele all’inizio del suo divenire popolo: l’adorazione del vitello d’oro”[36] (cf. Es 32,10). Mosheh comprese che la cooperazione fra Dio e l’uomo nella richiesta di perdono, comprende tre azioni: la confessione della colpa del popolo, l’appello alla misericordia di Dio e l’amore disinteressato per il prossimo: “’Perdona la loro colpa – e se no, cancellami dal tuo libro (della vita), che tu hai scritto!’ (Es. 32,32). Proprio questo esemplare rinnegamento di sé, che trascura il proprio ego in favore dei fratelli per disputare con Dio stesso, alla fine è stato in grado di ottenere il perdono divino di Israele”[37].
Per l’ebraismo l’impegno etico della fraternità universale nasce dalla fede nel Dio unico che è il Creatore, il padre che ama ogni uomo e donna senza alcuna distinzione. Dalla tradizione rabbinica emerge chiaramente che secondo l’ebraismo la fraternità non si limita all’altro ebreo, ma si rivolge a ogni essere umano, come dimostra un Midrash[38] riportato nel Talmud: “Dopo il passaggio del Mar Rosso gli angeli volevano intonare un canto di gioia davanti al Signore. L’Eterno disse: Le opere delle Mie mani annegano nel mare e voi volete intonare un canto?” (Sanhedrin 39b), riferendosi agli stessi oppressori degli ebrei, gli egiziani. Dio, in quanto Creatore, è il Padre di ogni essere umano, di ogni creatura e dinanzi a lui non sussistono distinzioni etnico, religiose, sociali, culturali, perché tutti hanno la stessa dignità. L’uomo realizza se stesso solo amando tutti, perché in questo modo vive in modo coerente con la propria identità umana: “L’amore è un atto divino. Amare fraternamente – afferma Aharon Biagini – l’altro è realizzare la nostra natura divina e riconoscerla nell’altro”. Analoga testimonianza la si ritrova nella Mishnah[39]: “E’ per questo che Abramo è stato creato unico, per insegnarci che chi uccide una persona è come se uccidesse il mondo intero, e chi fa vivere una persona è come se avesse fatto vivere il mondo intero. Inoltre, affinché nessun uomo dicesse al suo prossimo: mio padre è più grande del tuo” (Sanhedrin IV,5).
Nella Torah è molto rilevante l’insegnamento riguardo al rapporto con il forestiero (ger); vi ricorre, infatti, 59 volte: “È interessante per esempio sapere che è il primo nome che Mosheh dà al primo nato. Costretto a lasciare l’Egitto dopo aver ucciso un egiziano, è ricercato dalla polizia, quindi diventa un rifugiato politico, ospite di uno sceicco, Ietro, di cui sposa la figlia, Zippora. Da lei avrà un figlio, che chiamerà gērson, che vuol dire: ‘sono straniero’. Mosheh diventerà poi il leader, il profeta dell’Esodo, cioè del popolo fatto uscire dallo stato di dipendenza o sfruttamento, alla ricerca di una terra. L’avventura era cominciata con l’emigrazione in Egitto di Giacobbe (o Israele), per sfamare la famiglia in tempo di carestia. I discendenti saranno poi costretti a lasciare l’Egitto per andare in un’altra terra, in cui saranno comunque sempre ospiti […]”[40]. Il patriarca del popolo d’Israele, Avraham, è il modello del migrante, poiché Ha Shem lo chiama a lasciare il suo paese, la sua patria, alla ricerca di una terra, di un futuro che gli viene promesso (cf. Gn 12,1-9), “ma di quella terra non avrà che il sepolcro. Solo alla sua discendenza sarà consegnata quella terra. Abraham arriva in questo territorio e la Torah lo presenta come il modello del credente, di colui che affida a Dio il suo futuro, e cioè la discendenza e la terra. Le due cose sono inseparabili, ma prima di tutto viene la discendenza, perché senza un figlio tutta la terra di questo mondo non serve”[41]. Anche la vocazione di Mosheh, il condottiero, il liberatore scelto dall’Altissimo, sarà quella dell’itineranza; infatti non entrerà nella terra promessa, nessuno di coloro che guidati da lui sono usciti dall’Egitto, ma solo la nuova generazione. Il popolo ebraico è, per essenza, migrante in cerca di benessere, di pace, di futuro, comunità di stranieri e pellegrini in cammino verso una terra promessa. Il patriarca Avraham, è definito lui stesso come “forestiero e di passaggio” (Gn 23,4 – ger e tosab), orientato verso destinazioni nuove e mai definitive. Nella Torah c’è una chiave interpretativa dell’itineranza abramitica: “Darò a te e alla tua discendenza dopo di te il paese dove sei straniero, tutto il paese di Canaan in possesso perenne…” (Gn 17,8). Israele continuerà a restare, per l’eternità, straniero nella sua terra, poiché Dio è il vero proprietario e Israele è un semplice affittuario[42]: “Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri ed inquilini” (Lv 25,23)[43].
I Maestri del giudaismo ritengono che Dio abbia creato un solo Adamo per favorire la pace tra i popoli. Dio ama tutti gli uomini con paterno amore, ma la sua ‘affettuosa inclinazione’ è diretta particolarmente verso la nazione di Israele, suo figlio prediletto, al quale nella Torah viene ricordata – come già rilevato – la sua itineranza. Il patto di alleanza tra l’Eterno e Avraham ha una dimensione universale, è rivolto a tutte le genti, non solo ai discendenti del patriarca amorreo errante: “Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gn 12,3). Avraham è un servo, un testimone, un mediatore fra l’Eterno e tutte le genti. Adonai (il Signore) si manifesterà ad Avraham quando accoglierà tre misteriosi ospiti (cf. Gn 18,1-15) : ”(…) tre stranieri, tre sconosciuti passano lì davanti alla sua tenda in cerca di ristoro; Abramo e Sara allargano lo spazio della loro tenda accogliendoli come dei ‘signori’. È l’ora più calda del giorno e nel deserto si può finire male senza riparo. Li accolgono lavando loro i piedi, offrendo l’ombra sotto una quercia e dando loro da bere e da mangiare (non gli scarti…, ma il vitello buono!). Lavare i piedi era il gesto di più squisita e gradita ospitalità perché a quel tempo i piedi erano sempre all’aperto nell’unico paio di sandali, nel cammino si impolveravano, si ferivano e a ogni sosta andavano curati, lavati, unti e ristorati. Offrire l’ombra nel deserto significava offrire protezione e conforto, per aiutare il viandante stanco e accaldato a riprendere il cammino della vita. Era un gesto di premura e custodia talmente significativo che Dio stesso si identifica con l’ombra: ‘Il Signore è il tuo custode, il Signore è come ombra che ti copre,… Il Signore ti proteggerà da ogni male, egli proteggerà la tua vita’ (Sal 121,5-7)”[44]. Avraham e Sarah ignorano chi siano i tre misteriosi ospiti eppure li accolgono, perché nel mondo semitico, secondo la cultura nomade, l’ospite è sacro. Solo dopo averli rifocillati sapranno che si tratta di Adonai, è lui che viene a visitarli e a benedirli. Anche da questo episodio scaturisce l’insegnamento ebraico dell’amore accogliente che include anche lo straniero: “Tratterete lo straniero, che abita fra voi, come chi è nato fra voi; tu lo amerai come te stesso; poiché anche voi foste stranieri” (Lv 19,33-34). “L’etica insegna ad amare il ger ‘perché ger sei stato in Egitto’. I profeti – puntualizza Di Porto – insegneranno ad esser ‘luce delle nazioni’ e annunceranno che verranno a Sion genti che ‘non conoscevi’. Armonia – sottolinea lo storico ebreo – di identità e universalità. Chi sarà per me se non sono io per me, ma cosa sono se sono solo per me? Lezione di Hillel, anche ai popoli, alle religioni, alle civiltà”[45] .
Pinchas Lapide sottolinea in merito: “Dal momento che l’amore per il forestiero è nominato molto prima dell’amore di Dio, i rabbi ne deducono che solo colui che ama il suo prossimo è in grado di amare il suo Creatore. Detto altrimenti: il cammino verso Dio passa solo ed esclusivamente per il prossimo”[46]. La Torah chiama Israele a realizzare l’accoglienza e l’ospitalità nei confronti dello straniero, del ger (plurale gerim), uno diverso per religione, etnia, cultura, ma che è residente lì, non è solo di passaggio: “Vi sarà una sola legge per il nativo e per il forestiero, che è domiciliato in mezzo a voi….” (Es 12,49). Adonai è il santo e il patto del Sinay comanda al popolo di essere santo come lui, vivendo l’amore per il prossimo, senza distinzione nei confronti del forestiero: “Quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto. Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come tu stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio”(Lv 19,33-34). Per comprendere l’etica del ger occorre tener presente che il “contesto del testo biblico è quello del popolo ai piedi del Sinay, appena uscito dall’Egitto. Il ricordo della liberazione del popolo dall’oppressore, grazie al Signore, serve per dare forza al comando che si trova nei vv. 33-34. Lo straniero è immagine dell’israelita nel tempo del suo asservimento presso gli Egiziani”[47].
Lo straniero è un povero, poiché è privo di proprietà (cf. v. 9), per cui bisogna prendersi cura di lui; a lui, infatti, sono dovute le spighe lasciate ai bordi di un campo mietuto o quelle cadute e non spigolate, oppure gli acini caduti durante la vendemmia: “L’ospitalità è gesto ci compensazione, del creare uguaglianza, di protezione, in un mondo dove lo straniero non ha originalmente posto”[48]. Il comando dell’Eterno, però, è ancora più impegnativo; non chiede solo l’accoglienza ma di trattare lo straniero come un figlio o fratello del popolo, non considerandolo un nemico, amandolo senza riserve. Ai piedi del Sinay Israele è ancora un popolo senza terra, non ha confini da difendere, ma la parola di Ha Shem avrà valore anche quando entrerà in possesso della terra promessa, perché le devarim[49] sono immutabili: “Ascoltate le cause dei vostri fratelli e decidete con giustizia fra un uomo e suo fratello o lo straniero che sta presso di lui” (Dt 1,16). Anche se non fa parte della comunità lo straniero viene equiparato al membro del popolo che lo ospita, per cui viene tutelato anche dalla normativa sociale: “Non lederai il diritto dello straniero e dell’orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova, ma ti ricorderai che sei stato schiavo in Egitto e che di là ti ha liberato il Signore tuo Dio; perciò ti comando di fare questa cosa. Quando, facendo la mietitura nel tuo campo, vi avrai dimenticato qualche mannello, non tornerai indietro a prenderlo; sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova, perché il Signore tuo Dio ti benedica in ogni lavoro delle tue mani. Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornerai indietro a ripassare i rami: saranno per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare: sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese d’Egitto; perciò ti comando di fare questa cosa” (Dt 24, 17-22).
L’universalità ebraica trova il suo fondamento anche nel noachismo biblico, come dimostrato da Rabbi Elia Benamozegh[50]. Nella sua opera Israele e l’umanità[51], ha elaborato una teologia ebraica dell’universalità confrontandosi con la sfida della crisi morale e religiosa contemporanea. Secondo il rabbino livornese l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam costituiscono le tappe provvidenziali verso quella religione universale che i profeti d’Israele hanno annunciato all’umanità. Egli rileva che all’interno dell’ebraismo coesistono due elementi che lo caratterizzano: quello universale e quello particolare. Israele ha una religione universale, ossia la religione che Dio ha dato a Noè (Noach) e la soluzione alla crisi di valori viene proprio da questo antico ebraismo, da quelle radici che accomunano il popolo di Israele all’umanità intera: la religione noachide. Con questo termine, che proviene dalla tradizione, Benamozegh fa riferimento ai sette precetti che Dio diede a Noè dopo il diluvio, si tratta di norme giuridiche che regolano la convivenza tra i popoli. I precetti ‘noachici’[52] prevedono: l’obbligo di istituire tribunali, il divieto di blasfemia, il divieto di idolatria, il divieto di fornicazione, il divieto di omicidio, il divieto di furto, il divieto di mangiare le membra di un animale vivo. Per il suo carattere razionale, il noachismo può essere considerato una base per costruire un intero sistema etico e giuridico valido per l’intera umanità che consente di fondare una società giusta, nella pace universale. La figura di Noè, uomo giusto tra i suoi contemporanei malvagi (zaddiq), è considerata in Is 54,9 come esempio di rettitudine grazie a cui venne concesso un nuovo mondo per un’umanità rinnovata. Per dimostrare l’universalismo della religione ebraica, Benamozegh fa riferimento alla concezione di un Dio universale, la cui provvidenza abbraccia l’intero universo, e all’unità d’origine e quindi all’uguaglianza tra gli uomini: “[…] tutti i popoli sono per Mosé figliuoli di Dio; solo che Israele è il suo primogenito; frase preziosa che ci dà l’idea di una grande famiglia, il cui padre è in cielo e i cui membri, sparsi sulla terra, sono i popoli, differenziati secondo la loro dignità”[53]. L’amore di Dio per il popolo d’Israele non esclude, quindi, il suo amore per le altre nazioni. Dalla paternità di Dio scaturisce la fraternità all’interno del popolo d’Israele, che è aperta anche alla dimensione universale.
Per l’ebraismo, come è emerso da quanto fin qui rilevato, tutti gli esseri umani sono fratelli; “fratelli nei loro diritti, ma anche nelle loro responsabilità verso l’altro e verso il mondo in generale. La fraternità – puntualizza lo storico ebreo Biagini – è un dovere d’equità verso l’altro; ciò che manca a un fratello manca a me. Il giogo della fraternità poggia sulle nostre spalle”[54]. Ogni ebreo è chiamato alla responsabilità (Arevut) verso l’altro, ad operare per soddisfare alle sue necessità, ma secondo la Halakhah[55] “dobbiamo aiutare ogni persona – afferma Biagini – che si trovi nel bisogno, ebreo o non ebreo. Essere momentaneamente aiutato e preso in carico è un diritto inalienabile, ‘perché non mancherà mai nel paese chi ha bisogno; per questo ti ordino: apri la mano al tuo fratello, ai poveri del tuo paese’ (Deuteronomio 15,11)”[56].
di Lucia Antinucci (già presidente dell’Amicizia ebraico-cristiana di Napoli)
[1] Acronimo della raccolta delle Scritture ebraiche: Torah, Neviim e Ketuvim (Insegnamento, Profeti, Scritti).
[2] Insegnamento, indica i primi cinque rotoli del Tanakh: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio (il Pentateuco per i cristiani).
[3] FURIO AHARON BIAGINI, Il tema della fraternità nell’Ebraismo, in www.etzhaim.eu/frternità [ultimo accesso il 29 luglio 2019]. Biagini è docente di storia dell’ebraismo presso l’università del Salento.
[4] Ivi.
[5] Vienna 1922-Francoforte sul Meno 1997.
[6] Cf. P. LAPIDE, Predicava nelle loro sinagoghe . Esegesi ebraica dei Vangeli, Paideia, Brescia 2001, 101.
[7] Cf. Amore nell’ebraismo in https://it.wikipedia.org/wiki/Amore_nell%27ebraismo [ultimo accesso 29 luglio 2019].
[8] Cf. B. BAMBERGER, Introduction to Leviticus, in Plaut, The Torah: A Modern Commentary, Union of American Hebrew Congregations, New York 1981, 737. 889.
[9] Citato in www.etzhaim.eu/fraternità [ultimo accesso il 20 luglio 2019].
[10] Uno dei primi maestri tannaiti, della Mishnah (Babilonia 110 aev – 10 ev)
[11] Cf. Amore nell’ebraismo.
[12] Maestro della Mishnah (50 aev – 30 ev).
[13] Amore nell’ebraismo.
[14] Il Talmud significa insegnamento, studio, discussione; è uno dei testi sacri dell’ebraismo. Ha due componenti: la Mishnah e la Ghemara, un’elucidazione della Mishnah e relativi scritti tannaitici (dei Maestri che trasmettono oralmente, insegnano) che spesso tratta di altri argomenti e commenta il Tanakh. Il termine Talmud può riferirsi solo alla Ghemara, oppure alla Mishnah e Ghemara insieme.
[15] LAPIDE, Insegnava nelle loro sinagoghe, 102.
[16] Corrente mistica dell’ebraismo.
[17] Cf. Amore nell’ebraismo.
[18] Acronimo di Rabbì Shlomo Yitzaqi (1040-1105).
[19] Cf. LAPIDE, Insegnava nelle loro sinagoghe, 103.
[20] Maestro del cassidismo galiziano (1731-1786).
[21] E’ nato nel 1907 e morto nel 1972.
[22] Saggio maestro galileo (170-200 e.v. /era volgare = era cristiana secondo l’ebraismo).
[23] Cf. LAPIDE, Insegnava nelle loro sinagoghe 104.
[24] Ivi 112.
[25] Ivi 113.
[26] Cf. ivi 11.
[27] Cf. ivi 11s.
[28] ID., Il discorso della montagna. Utopia o programma?, Paideia, Brescia 2003, 36s.
[29] Ivi 32.
[30] Cf. ivi.
[31] Ivi.
[32] Ivi 47.
[33] Ivi.
[34] Ivi 49s.
[35] Ivi 59.
[36] Ivi 65.
[37] Ivi 66.
[38] Dalla radice drsh, cercare, domandare; compendio scritto della Torah Orale dell’ebraismo rabbinico, commentario esegetico rabbinico.
[39] Insegnamento a voce e appreso a memoria; designa l’insieme della Torah orale e il suo studio. Può anche designare l’insieme della halakhah (parte legislativa) o ancora una forma d’insegnamento di quella, che non parte dal testo biblico, ma dalle sentenze dei Maestri della tradizione, riguardo a problemi concreti. È la prima grande opera di letteratura rabbinica.
[40] R. FABRIS, ‘Ricordati che sei stato forestiero in Egitto’. L’accoglienza dello straniero nelle Scritture ebraico-cristiane, in https://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=297 [ultimo accesso il 29 luglio 2019].
[41] Ivi.
[42] C. MONGE, Stranieri e ospiti: l’accoglienza nelle tradizioni abramitiche, in https://www.benecomune.net> La Rivista > Numeri > Stranieri come noi… [ultimo accesso 29 luglio 2019].
[43] Da questa teologia scaturisce nei salmi la spiritualità dell’itineranza, poiché l’israelita sa di avere nessun diritto davanti a Dio e desidera essere solo suo ospite: “Signore, chi abiterà nella tua tenda ? Chi dimorerà sul tuo santo monte? Colui che cammina senza colpa, agisce con giustizia e parla lealmente” (Sal 15 [14],1-2); Israele riconosce che è straniero in casa propria, di passaggio come tutti i suoi antenati (cf. Sal 39[38],13).
[44] Abramo, Sara e la tenda dell’accoglienza, in https://www.romena.it/…/la…/343-abramo-sara-e-la-tenda-dell’accoglienza.html [ultimo accesso il 31 luglio 2019].
[45] B. DI PORTO, La vocazione di Avraham (Gn 12,1-3), in M. MORSELLI – G. MICHELINI (curr.), La Bibbia dell’Amicizia. Brani della Torah/Pentateuco commentati da ebrei e cristiani, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2019, 182.
[46] LAPIDE, Il discorso della montagna, 100.
[47] G. IBBA, Noi e lo straniero (Lv 19,33-34), in La Bibbia dell’Amicizia, 267.
[48] Ivi 269.
[49] Le dieci parole, cioè il decalogo.
[50] Livorno, 24 aprile 1823 – Livorno, 6 febbraio 1900, rabbino, esegeta e cabalista.
[51] Marietti, Torino 2016 (originale postuma Paris, E. Leroux 1914).E’ una presentazione sistematica dell’ebraismo, comprendente Torah scritta, Torah orale e Qabbalah.
[52] (cf. Talmud, Sanedrin 56b). I sette precetti noachici:
- non abbandonare la fede in Dio e quindi non commettere idolatria;
- non uccidere né suicidarsi: “Chi sparge il sangue dell’uomo, dall’uomo il suo sangue sarà sparso, perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l’uomo” (Gen 9,6: fondamento della “legge del taglione”, nell’esegesi ebraica con ciò intendendo il risarcimento pecuniario);[14]
- non rubare e/o non rapire;
- non compiere le relazioni sessuali illecite non ammesse dalla Torah;
- non bestemmiare;
- divieto di mangiare parti del corpo di animali ancora vivi;
- istituire tribunali giusti (distinguendo quindi tra testimonianza vera, falsa testimonianza nonché Lashon hara, ovvero “maldicenza” in italiano, esaminando i casi).
[53] LAPIDE, Il discorso della montagna, 35.
[54] BIAGINI, Il tema della fraternità nell’Ebraismo.
[55] Legge ebraica.
[56] BIAGINI, Il tema della fraternità nell’Ebraismo.
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