Karl Barth, il lieto partigiano di Dio
Non una semplice conferenza né una commemorazione, ma nemmeno la mera somma di queste due cose. «Teologia e Vita: Karl Barth, il lieto partigiano di Dio» è stato un momento di grande arricchimento culturale e spirituale per tutti i partecipanti.
Organizzato dall’Istituto di studi storici e teologici Giovan Francesco Alois (1515-1564) di Caserta e fortemente voluto dal pastore Giovanni Traettino, che lo ha introdotto e moderato, questo convegno, celebrato lo scorso 15 marzo, ha visto la partecipazione di due illustri studiosi della vita e dell’opera del teologo e pastore riformato di Basilea: Paolo Ricca e Fulvio Ferrario.
Il primo, già docente di storia della chiesa presso la facoltà valdese di teologia (Roma), che in gioventù è stato allievo di Barth e che lo considera «certamente il maggior teologo protestante del secolo scorso, forse il maggior teologo cristiano del secolo scorso», ha compiuto «una cavalcata delle tappe fondamentali della teologia evangelica a partire dalla Riforma per giungere fino agli anni in cui inizia l’attività di Barth», allo scopo di comprendere «da dove arriva» lo stesso Barth, quali eredità ha raccolto e quali invece rifiutato.
Il secondo, docente di teologia sistematica presso la facoltà valdese, che della sterminata opera del teologo svizzero è profondo conoscitore, ricordando un motto in voga tra i barthiani («Life is short, Barth is long»), ha voluto offrire dei riferimenti per orientarsi nel mare magnum delle pubblicazioni di Barth e su Barth e riuscire così ad affrontare lo studio di questo grande autore senza farsi scoraggiare dalla mole dei suoi lavori (la sola Die Kirchliche Dogmatik, infatti, consta di oltre novemila pagine).
1. Teologia pre-barthiana. Dottrina, vicende e ricordi personali si sono amabilmente intrecciati nella relazione del professor Ricca. Nell’individuare le principali articolazioni della teologia protestante pre-barthiana, l’ex presidente della Società Biblica in Italia ha enucleato sostanzialmente sei momenti. Il primo, definito ortodossia o scolastica protestante, prende il via alla fine della Riforma (1580) e dura circa un secolo. È il periodo in cui «la teologia cristiana raccoglie la sfida di Cartesio, del suo cogito ergo sum, ed è chiamata a rispondere a degli interrogativi: la Chiesa pensa? Ragiona? Sa fare un discorso? Rispondere a queste domande era una vera e propria sfida, perché l’obiezione che veniva mossa agli uomini di fede era: il cristiano, in quanto tale, crede e non pensa, dunque non è». La teologia di questo periodo è chiamata a dimostrare che la fede non è affatto in contrapposizione al ragionamento. Il cristiano sa fare ragionamenti e costruire discorsi: quello del cristiano è un ragionamento che si basa sulla Scrittura, un discorso che parte dalla Scrittura. «In questo periodo, si discute di ispirazione verbale della Scrittura e di conseguenza avviene un processo di sacralizzazione di ogni singola parola che la compone. La Scrittura diventa così la fonte intoccabile del ragionamento dei teologi».
Ma come si pone Barth di fronte al pensiero di questo periodo? Possiamo dire che egli è certamente «in linea con l’ortodossia protestante, tanto che la sua teologia verrà anche chiamata neo-ortodossia, ma al contempo se ne discosta per una differenza non da poco: l’ortodossia protestante era letteralista, ovvero considerava ogni singola parola come opera di Dio (teoria della ispirazione verbale e plenaria, ndr), mentre Barth non lo era, anche se prendeva molto sul serio la lettera».
Al periodo della scolastica protestante segue quello del Pietismo, «il più grande movimento teologico, spirituale, culturale e artistico di tutta la storia protestante». A questo riguardo, Ricca ha voluto sottolineare la ricchezza e la complessità del pietismo, mettendo in guardia l’uditorio dal rischio di farsi fuorviare dal termine, perché «pietismo è una parola che sembra aver a che fare con il devozionismo» e con modalità quasi bigotte di vivere la fede, ma in realtà è tutt’altra cosa: «il pietista è colui che vuole manifestare nella vita la propria fede cristiana, incarnarla nel quotidiano, colui aspira ad essere l’uomo nuovo di cui parla Paolo». Parola chiave del pietismo, non a caso, è «santificazione», ovvero il vivere del cristiano quale uomo nuovo in Cristo. Tutta questa attenzione al modo in cui l’uomo vive la propria fede, però, determina un cambiamento nella teologia del tempo: «il baricentro del discorso si sposta da Dio all’uomo-cristiano. Quella pietista è una teologia non più cristocentrica, bensì cristianocentrica. Avviene, in altri termini, uno scivolamento dalla teologia all’antropologia». Sarà questo il motivo per il quale «Barth si oppone al pietismo».
Il terzo periodo individuato da Ricca è quello della teologia illuminista. «Con l’illuminismo accade una cosa mai successa in diciassette secoli di cristianesimo: la critica entra nella cittadella cristiana. Non un’autocritica di matrice interna, ma la critica esterna alla Chiesa. Da quel momento, la Bibbia viene sottoposta a critica come qualsiasi altro libro». Con la nascita di una critica biblica ha luogo una vera e propria rivoluzione nell’approccio ai testi sacri: «si scopre che certe parole che gli evangelisti, nel Nuovo Testamento, avevano attribuito a Gesù non sono davvero parole di Gesù (nel senso di ipsissima verba Iesu, ndr), ma parole che la Chiesa ha attribuito a Gesù». Si tratta evidentemente di un cambiamento «doloroso e sanguinoso, ma necessario: è così che la fede cristiana diventa matura, superando definitivamente la fase medievale».
In tutto ciò, come si pone Barth nei confronti della teologia illuminista? Di sicuro apprezza e utilizza a piene mani la critica, ma rifiuta fermamente l’assioma di fondo dell’illuminismo, secondo il quale «la ragione è il criterio della verità». Non la ragione, ma «la Scrittura è per Barth il criterio della verità».
Dopo il periodo illuminista si afferma la teologia del Romanticismo, che, come negli altri ambiti della cultura dell’epoca, incorona ed esalta il sentimento come base ed apice del fatto religioso: «la radice della religione è il sentimento ed è per questo che la religione è un fatto universale e perenne». Barth «non si fida» affatto dell’impostazione della teologia romantica, tanto che «nella sua Dogmatica scrive un paragrafo intitolato La religione come ateismo, in cui sostiene che Dio non lo si conosce per mezzo del sentimento religioso, del sentimento di Dio in ciascuno di noi, ma solo per mezzo della Rivelazione».
Il quinto periodo individuato da Ricca è quello del Risveglio, che in aperto contrasto con il «cristianesimo sociale» propone la necessità di vivere la fede «come decisione personale e non come frutto della tradizione». È in questo periodo che nascono le Chiese libere e viene un po’ ovunque «smantellato il Cristianesimo di Stato». Ma tutto ciò porta ad una degenerazione: la fede viene totalmente dissociata dalla politica. Per questo motivo Barth, che non critica mai esplicitamente il risveglio, ne prende implicitamente le distanze con la sua vita di cristiano impegnato.
2. Barth e il liberalismo. Ciascuno dei cinque periodi precedenti, secondo Ricca, compie l’errore di «intronizzare» un elemento-cardine della cultura dell’epoca fin quasi ad idolatrarlo: «l’ortodossia/scolastica intronizza il pensiero; il pietismo intronizza l’esperienza religiosa; l’illuminismo intronizza la ragione; il romanticismo intronizza il sentimento; il risveglio intronizza la spiritualità» giungendo a disincarnarla. Il sesto periodo, ovvero il liberalismo, «intronizza la coscienza».
Quello di coscienza sarà un concetto caro anche a molta parte della teologia cattolica, perfino nei decenni successivi. Basti pensare, a questo riguardo, al valore che il Concilio Vaticano II attribuirà alla coscienza, definendola come «il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità» (G.S. 16).
La teologia di questo periodo ha un paradigma antropologico ottimista: parla di magnifiche sorti dell’umanità, di progresso inarrestabile e futuro radioso. Il nostro Barth aderisce al liberalismo: «egli era liberale e lo fu fino al 1914, anno in cui l’establishment teologico liberale protestante sottoscrive il manifesto in favore della guerra. A quel punto, Barth ne prende le distanze e dà vita ad una nuova fase: una teologia della crisi, che è prima di tutto crisi del liberalismo».
3. Leggere Karl Barth. Fulvio Ferrario ha articolato il suo intervento in tre punti, rispondendo ad altrettanti interrogativi di fondo: «perché leggere Karl Barth?»; «cosa leggere di Barth?»; «cosa caratterizzò l’umanità di Barth?».
Circa il primo quesito, non ha manifestato ombra di dubbio: Barth merita di essere letto «perché è il teologo in cui maggiormente vivono le istanze e le passioni della Riforma». La sua è una teologia che «nasce dal pulpito», ovvero dalle sue esigenze di predicatore profondamente insoddisfatto e deluso dalla teologia liberale. Non a caso, come ha sottolineato Ferrario, da autentico figlio e interprete della Riforma, Barth fa della Parola di Dio il centro di tutta la propria riflessione.
Per Barth, la Parola di Dio è la persona di Gesù Cristo, tanto che possiamo riassumere il cuore di tutto il suo pensiero teologico nel concetto di concentrazione cristologica: «tutto inizia e finisce in Gesù; Egli è il metro di ogni discorso su Dio». Detto in altri termini, secondo Barth «in Gesù c’è tutto Dio: non nel senso che non esistano le altre due persone della Trinità, ma nel senso che Essa è tutta rivelata in Gesù».
E questa Parola di Dio ha una marcata dimensione politica, o meglio «è politica in se stessa». A questo riguardo, Ferrario ha citato un testo che il teologo svizzero scrisse durante il nazismo: Dichiarazione teologica sulla situazione presente della Chiesa Evangelica tedesca. Questo testo è una vera e propria «lezione sulla politicità della fede e della Chiesa, nella quale, senza mai nominare il nazismo, lo attacca implicitamente» operando una netta «distinzione tra fede in Dio e fede nell’autorità statale».
Altra caratteristica della teologia barthiana è il concetto di profanità di Dio: «per Barth, Dio non ha bisogno di amen e alleluia: Egli si manifesta nella profanità con leggerezza, ma con non minor efficacia». Il classico esempio offerto a riguardo da Barth era la musica di Mozart: secondo il nostro teologo, Dio «parla attraverso quella musica profana più che attraverso mille altre composizioni sacre». Questo non vuol significare che Barth disprezzasse la cosiddetta musica sacra, ma semplicemente che ritenesse la bellezza capace di parlare efficacemente di Dio anche senza richiami espliciti al sacro. Rientra in quest’ottica anche la cosiddetta Dottrina delle luci, purtroppo mai tradotta in italiano, nella quale «Barth dice che la Luce del mondo è una soltanto ed è Cristo. Ma questa unica Luce si riflette nel mondo, nella natura e nella cultura (anche qui richiama come esempio la musica di Mozart), in infinite altre piccole luci che, se abbiamo conosciuto la Vera Luce per mezzo della Rivelazione, ci parlano di Quella».
Per quanto concerne il secondo quesito, Ferrario ha caldamente raccomandato la lettura delle cosiddette Tesi di Barmen, ovvero della Dichiarazione teologica del Sinodo confessante di Barmen del 31 maggio 1934, redatta sostanzialmente da Barth e dall’amico e teologo Hans Asmussen.
Tale dichiarazione è il manifesto della cosiddetta Chiesa confessante, il movimento che durante la dittatura nazionalsocialista si oppose alla falsa teologia e al regime ecclesiale dei sedicenti Cristiani tedeschi, i quali stavano dando vita ad un connubio tra Chiesa evangelica e nazismo, introducendo ad esempio nella Chiesa il principio del duce (Führerprinzip), escludendo dall’ufficio pastorale coloro che non appartenevano alla presunta razza ariana, eliminando dal cristianesimo l’immagine e il valore soteriologico del Gesù-crocifisso per esaltare una immagine più eroica del Figlio di Dio presentato come Salvatore potente.
La risposta di Barth e Asmussen è articolata in sei tesi, ciascuna delle quali in prima battuta riporta una citazione della Sacra Scrittura, successivamente espone il punto di vista della Chiesa confessante e infine confuta una falsa affermazione/pretesa dottrinale dei Cristiani tedeschi.
4. L’uomo Barth. Nel toccare l’ultimo punto del suo intervento, Ferrario ha messo subito in chiaro che quella di Barth «non è la figura di un santo, ma di un essere umano a tutto tondo» nel senso più ricco e complesso dell’espressione. La sua esistenza familiare complicata («sposato e con cinque figli, visse dall’età di quarant’anni in poi in comunione con un’altra donna, che viveva sotto il suo stesso tetto coniugale») fu da Barth stesso definita una «spina nella carne».
Dotato di una certa vanità intellettuale, sapeva essere al tempo stesso «autoironico e permaloso», rivelandosi spesso nei riguardi degli avversari dottrinali «aspramente polemico e perfino tignoso».
Paolo Ricca ha aggiunto a questa descrizione alcuni ricordi di quello che fu il suo professore. Ne emerge il ritratto di un uomo fortemente dedito all’insegnamento, che, oltre alle ore di lezione, studio e ricerca previste dal calendario accademico, dedicava un giorno a settimana all’incontro con gli studenti di lingua tedesca, uno ogni due settimane a quello con gli studenti di lingua francese e un giorno ogni due settimane all’incontro con gli studenti anglofoni: erano serate intere dedicate a vere e proprie lezioni, impreziosite da dibattiti, interventi della sua assistente, scambi di battute, e si svolgevano all’interno di locali pubblici, spesso birrerie, ma anche nella stessa casa di Barth.
Conclusioni. Inquieto come solo un autentico cuore cristiano sa essere, forte come solo chi edifica la propria esistenza sulla roccia della fede e fragile come chi non può che riconoscersi peccatore dinanzi all’immeritata Grazia, quello di Barth è un profilo decisamente denso di umanità. Come in ogni esistenza terrena, anche nella sua convivono spesso dimensioni apparentemente inconciliabili: dalle vette dell’altissima riflessione teologica alle miserie della carne trafitta dalla debolezza.
Forse è proprio in virtù di ciò che egli ha saputo così raffinatamente parlare della umanità di Dio e che la sua opera non solo ha segnato un’epoca, ma ha lasciato un’eredità che travalica i confini del protestantesimo e lo colloca certamente tra i grandi autori della teologia di tutti i tempi.
di Michele Giustiniano
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