I SETTANT’ANNI DEL CONSIGLIO ECUMENICO DELLE CHIESE

L’importante evento interconfessionale mondiale si è svolto a Ginevra il 21 giugno 2018 con una lunga preghiera ecumenica, a cui ha partecipato anche Papa Francesco, nella cappella del centro del Consiglio ecumenico delle Chiese (World Council of Church). Le confessioni cristiane rappresentate nell’organismo fondato nel 1948 ad Amsterdam erano 147, mentre oggi sono ben 348. Con loro la Chiesa cattolica percorre una strada parallela e condividendo un impegno comune, come ha sottolineato Agnes Aboum, moderatrice del comitato centrale dell’organismo, accogliendo il Papa. Il Papa è stato il terzo Pontefice a fare visita al WCC, dopo Paolo VI (10 giugno 1969) e Giovanni Paolo II (15 giugno 1982). Il metropolita Gennadios di Sassima, vice-moderatore del Consiglio, ha dato il benvenuto al Pontefice, sottolineando l’importanza dell’avvenimento storico. Il vescovo Mary Ann Swensen, anch’essa vice-moderatore, ha affermato che le parole e l’impegno del papa argentino hanno ispirato, entusiasmato e rafforzato le relazioni e la cooperazione con il Consiglio nell’impegno comune per la giustizia e la pace. Concludendo i saluti iniziali, la signora Agnes Aboum, moderatore del WCC, ha auspicato che si possa continuare a essere voce profetica nel mondo di oggi e strumento della missione di Dio: una missione di riconciliazione e santità radicata in questi due fondamenti del pellegrinare, la pace e la giustizia.
Papa Francesco, nel suo discorso iniziale ha ricordato il significato biblico del numero 70, “un periodo di tempo compiuto, segno di benedizione divina. Ma settanta è anche un numero che fa affiorare alla mente due celebri passi evangelici. Nel primo, il Signore ci ha comandato di perdonarci non fino a sette, ma ‘fino a settanta volte sette’ (Mt 18,22). Il numero non indica certo un termine quantitativo, ma apre un orizzonte qualitativo: non misura la giustizia, ma spalanca il metro di una carità smisurata, capace di perdonare senza limiti. È questa carità che, dopo secoli di contrasti, ci permette di stare insieme, come fratelli e sorelle riconciliati e grati a Dio nostro Padre”.
L’evento ecumenico nasce dal percorso di perdono e riconciliazione che è stato compiuto in questi settan’anni, da coloro che “spinti dall’accorato desiderio di Gesù, non si sono lasciati imbrigliare dagli intricati nodi delle controversie, ma hanno trovato l’audacia di guardare oltre e di credere nell’unità, superando gli steccati dei sospetti e della paura (…). Siamo i beneficiari della fede, della carità e della speranza di tanti che, con l’inerme forza del Vangelo, hanno avuto il coraggio di invertire la direzione della storia, quella storia che ci aveva portato a diffidare gli uni degli altri e ad estraniarci reciprocamente, assecondando la diabolica spirale di continue frammentazioni. Grazie allo Spirito Santo, ispiratore e guida dell’ecumenismo, la direzione è cambiata e una via tanto nuova quanto antica è stata indelebilmente tracciata: la via della comunione riconciliata, verso la manifestazione visibile di quella fraternità che già unisce i credenti”.
Papa Francesco ha poi rilevato che il numero 70 ricorda i discepoli che, durante il suo ministero pubblico, Gesù inviò in missione (cf. Lc 10,1) e che vengono celebrati nell’Oriente cristiano. “Il numero di questi discepoli rimanda a quello delle nazioni conosciute, elencate agli inizi della Scrittura (cf. Gn 10). Che cosa ci suggerisce questo? Che la missione è rivolta a tutti i popoli e che ogni discepolo, per essere tale, deve diventare apostolo, missionario. Il Consiglio Ecumenico delle Chiese è nato come strumento di quel movimento ecumenico suscitato da un forte appello alla missione: come possono i cristiani evangelizzare se sono divisi tra loro? Questo urgente interrogativo indirizza ancora il nostro cammino e traduce la preghiera del Signore ad essere uniti ‘perché il mondo creda’ (Gv 17,21)”.
Il Pontefice ha poi ringraziato il WCC per l’impegno profuso a favore dell’unità dei cristiani, ma ha espresso anche una preoccupazione: “Essa deriva dall’impressione che ecumenismo e missione non siano più così strettamente legati come in origine. Eppure il mandato missionario, che è più della diakonia e della promozione dello sviluppo umano, non può essere dimenticato né svuotato. Ne va della nostra identità. L’annuncio del Vangelo fino agli estremi confini è connaturato al nostro essere cristiani. Certamente, il modo in cui esercitare la missione varia a seconda dei tempi e dei luoghi e, di fronte alla tentazione, purtroppo ricorrente, di imporsi seguendo logiche mondane, occorre ricordare che la Chiesa di Cristo cresce per attrazione. Ma in che cosa consiste questa forza di attrazione? Non certo nelle nostre idee, strategie o programmi: a Gesù Cristo non si crede mediante una raccolta di consensi e il Popolo di Dio non è riducibile al rango di una organizzazione non governativa. No, la forza di attrazione sta tutta in quel sublime dono che conquistò l’Apostolo Paolo: «Conoscere [Cristo], la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze» (Fil 3,10). Questo è l’unico nostro vanto: la «conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo» (2 Cor 4,6), donataci dallo Spirito vivificante. Questo è il tesoro che noi, fragili vasi di creta (cfr v. 7), dobbiamo offrire a questo nostro mondo amato e tormentato. Non saremmo fedeli alla missione affidataci se riducessimo questo tesoro al valore di un umanesimo puramente immanente, adattabile alle mode del momento. E saremmo cattivi custodi se volessimo solo preservarlo, sotterrandolo per paura di essere provocati dalle sfide del mondo (cf. Mt 25,25)”.
Papa Francesco ha inoltre sottolineato che c’è bisogno di un nuovo slancio evangelizzatore. “Come alle origini l’annuncio segnò la primavera della Chiesa, così l’evangelizzazione segnerà la fioritura di una nuova primavera ecumenica. Come alle origini, stringiamoci in comunione attorno al Maestro, non senza provare vergogna per i nostri continui tentennamenti e dicendogli, con Pietro: ‘Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna’ (Gv 6,68)”. Il vescovo di Roma ha poi evidenziato che la sua partecipazione all’evento del settantennio del WCC intende esprimere il rinnovato “impegno della Chiesa Cattolica nella causa ecumenica e per incoraggiare la cooperazione con le Chiese-membri e con i partner ecumenici”. Egli ha scelto come motto della giornata : “Camminare – Pregare – Lavorare insieme”.
Papa Francesco ha anche evidenziato la dimensione della diakonia: “È la via sulla quale seguire il Maestro, che ‘non è venuto per farsi servire, ma per servire’ (Mc 10,45). Il variegato e intenso servizio delle Chiese-membri del Consiglio trova un’espressione emblematica nel Pellegrinaggio di giustizia e di pace. La credibilità del Vangelo è messa alla prova dal modo in cui i cristiani rispondono al grido di quanti, in ogni angolo della terra, sono ingiustamente vittime del tragico aumento di un’esclusione che, generando povertà, fomenta i conflitti. I deboli sono sempre più emarginati, senza pane, lavoro e futuro, mentre i ricchi sono sempre di meno e sempre più ricchi (…). Guardiamo anche a tanti nostri fratelli e sorelle che in varie parti del mondo, specialmente in Medio Oriente, soffrono perché sono cristiani. Stiamo loro vicini. E ricordiamo che il nostro cammino ecumenico è preceduto e accompagnato da un ecumenismo già realizzato, l’ecumenismo del sangue, che ci esorta ad andare avanti”.
I cristiani si devono incoraggiare ecumenicamente “a superare la tentazione di assolutizzare determinati paradigmi culturali” per farsi assorbire da interessi di parte, aiutando gli uomini di buona volontà a dare maggior spazio a situazioni e vicende che riguardano tanta parte dell’umanità, ma che occupano un posto troppo marginale nella grande informazione”. Il Papa ha poi concluso il suo discorso dicendo: “Aiutiamoci a camminare, pregare e lavorare insieme perché, con l’aiuto di Dio, l’unità progredisca e il mondo creda. Grazie”.
La riflessione biblica del vescovo di Roma durante la preghiera ecumenica ha sviluppato il tema del “camminare secondo lo Spirito” (cf. Gal 5, 13-16; 22-26), invitando a riflettere sulla metafora del cammino, “che rivela il senso della vita umana»”, sempre alla ricerca. “Il cuore ci invita ad andare, a raggiungere una meta»” ha detto il Papa, ma il camminare richiede una disciplina faticosa, e per questo “servono pazienza quotidiana e allenamento personale (…) occorre rinunciare a tante strade per scegliere quella che conduce alla meta e ravvivare la memoria per non smarrirla”. Si cammina bene solo insieme e papa Bergoglio ha ricordato l’esempio di alcuni “amici del Signore”, da Abramo a Mosè fino a Pietro e Paolo, ma soprattutto l’esempio di Gesù che ha abbandonato la sua condizione divina “per camminare tra le donne e gli uomini: proprio ‘lui che è la via’ ha voluto farsi ‘pellegrino e ospite in mezzo a noi’ perché i suoi discepoli lo seguissero nel suo cammino”. Bisogna camminare secondo lo Spirito, come raccomandato da Paolo a una comunità lacerata dalle divisioni. Tante, troppe volte, nel corso della storia, i cristiani hanno abbandonato “la via”, per seguire la mondanità e “il nemico di Dio e dell’uomo ha avuto gioco facile nel separarci”.
Il movimento ecumenico, suscitato dallo Spirito, ha sempre esortato a reagire alle separazioni, lavorando “in perdita”, che è una perdita evangelica,  quindi un guadagno secondo la logica di Dio, senza badare a salvaguardare interessi conservatori o progressisti, di destra o di sinistra, e senza cadere nell’onnipresente tentazione dell’autoreferenzialità, ma “scegliendo con santa ostinazione la via del Vangelo (…). Camminare insieme per noi cristiani – ha detto il Papa concludendo la sua riflessione – non è una strategia per far maggiormente valere il nostro peso, ma un atto di obbedienza nei riguardi del Signore e di amore nei confronti del mondo. Il vero amore che salva”. 
di Lucia Antinucci

Commenta per primo

Lascia un commento