Una storia di conversione che da sempre mi ha particolarmente colpita è quella di Andrè Frossard (1915-1995 giornalista e saggista), che racconta la sua esperienza nel libro “Dio esiste. Io l’ho incontrato”. E’ la storia di una improvvisa illuminazione interiore, senza eventi esteriori eclatanti. L’ 8 luglio 1935 Frossard è con un amico che entra in una chiesa e lui l’aspetta fuori. Alle 17,10, spinto dalla curiosità, entra nella cappella e rimane colpito dal Santissimo Sacramento esposto tra fiori e candele e in lui si compie il Mistero; probabilmente, senza esserne consapevole, egli era già interiormente disposto verso la ricerca di Dio. Così Frossard descrive la sua esperienza: “Dapprima mi vengono suggerite queste parole: ‘Vita spirituale’. Le ho sentite come se fossero state pronunciate accanto a me sottovoce da una Persona che io non vedo ancora. Non dico che il Cielo si apre. Non si apre, ma si slancia, s’innalza silenziosa folgorazione, da quella insospettabile cappella nella quale si trovava misteriosamente rinchiuso… Un mondo, un altro mondo d’uno splendore e di una densità che rimandano di molto il nostro mondo fra le ombre fragili dei sogni irrealizzati. Questo mondo è la Realtà, la Verità: la vedo dalla sponda oscura su cui sono ancora trattenuto. C’è un ordine nell’universo e alla sommità c’è Dio, l’evidenza di Dio, l’evidenza fatta presenza, fatta Persona di Colui che un istante prima avrei negato. Colui che i cristiani chiamano ‘Padre nostro’ e nel quale sento tutta la dolcezza, una dolcezza attiva, sconvolgente, al di là di ogni violenza, capace di infrangere la pietra più dura e, più duro della pietra, il cuore umano”. Ciascuno di noi ha la sua storia personale di conversione, forse non così sconvolgente, ma che certamente ha portato ad una svolta nella sua vita, realizzando il passaggio da un fede superficiale, esteriore, ritualistica, alla scoperta personale del Mistero, dell’Amore che ci avvolge e ci riempie il cuore di gioia. Interrogarsi sul senso della fede non è mai una realtà scontata anche per noi credenti, perché essa è un germe che ha bisogno di essere curato per svilupparsi e maturare. L’incontro trasformante che si è realizzato una volta va curato e custodito, nutrendosi della Parola, sostenendosi con la preghiera liturgica e personale, vivendo la comunione ecclesiale. Dio ci parla e ci viene incontro, infatti, ogni giorno soprattutto attraverso le parole della Sacra Scrittura, “dimora della Parola di Dio nelle parole degli uomini” (B. Forte). La fede è un dono gratuito, che ci viene offerto senza nostro merito, e l’averlo accolto non può renderci presuntuosi o sprezzanti nei confronti di chi l’ha rifiutato, ma piuttosto ci richiama all’impegno per la coerenza e la testimonianza. La pienezza della fede ci sarà nel futuro escatologico, come contemplazione diretta del Mistero, immersione in esso, per cui attualmente siamo tutti poveri pellegrini alla ricerca del Volto di Dio, compagni di viaggio di coloro che ricercano affannosamente la Verità, il senso della vita. Affidandoci alla Parola che proviene dal Silenzio di Dio noi sperimentiamo sempre più la fedeltà del Signore nei nostri confronti; il nostro abbandono fiducioso in Lui diventa sempre più profondo ed il cuore viene inondato dalla pace che viene da Altrove. Per ascoltare il Dio che parla occorre fare silenzio in noi ed attorno a noi, occorre vivere spiritualmente l’esperienza del deserto, dello stare a tu per tu con Dio senza appigli umani perché, come afferma San Giovanni della Croce, “il Padre pronunciò una Parola, che fu suo Figlio e sempre la ripete in eterno silenzio; perciò in silenzio essa deve essere ascoltata dall’anima” . L’obbedienza della fede, che nasce dall’ascolto della Parola (Rm 10,17), fa sì che la volontà di Dio diventi il criterio etico della nostra esistenza. Essa si deve tradurre nelle piccole e grandi scelte quotidiane, deve portare alla responsabilità nei confronti dell’oggi, perché il Regno di Dio entri sempre più nella storia. La fede, facendoci sperimentare la vicinanza di Dio, porta a farci prossimo dell’altro (parabola del buon samaritano Lc 10, 29-37), poiché ci fa scoprire che il Signore non è un limite alla nostra libertà, alla nostra realizzazione. La fede si traduce quindi nella carità, perché non è possibile ‘amare Dio che non si vede se non si ama il fratello che si vede’ (1Gv 4,20). Il dono d’Amore, gratuitamente ricevuto, va condiviso umilmente con gli altri, discretamente, incarnando la pedagogia di Dio che è quella dell’Amore che rende liberi. La fede non può essere statica, abitudinaria, intimistica, miope ed intollerante, altrimenti essa è destinata ad essere soffocata dalle spine (parabola del seminatore Mt 13,3-9) e non diventa il germe della speranza che non delude (Rm 5,5). Il dono della fede non comporta l’annullamento della ragione, ma costituisce uno stimolo per essa, perché viene esercitata nella sua pienezza aprendosi alla contemplazione del Mistero. L’uomo con tutto il suo essere è coinvolto nel patto d’amore con Dio, per cui diventa per grazia il partner del Dio Trinitario, del Dio che ha tempo per l’uomo. Il credente diventa capace di contemplare le meraviglie di Dio in lui e attorno a lui, in tutti coloro che si sentono poveri e fragili e non presumono di essere autosufficienti. A chi intraprende il pellegrinaggio della fede viene concesso di provare lo stupore per l’ infinita misericordia di Dio, nonostante l’esperienza dell’ infedeltà umana, della nostalgia per le cipolle d’Egitto, cioè per gli idoli accattivanti della società edonistica e materialistica. La fede è il si dell’uomo a Dio pronunciato nella totale libertà, che va rinnovato continuamente, perché il Volto di Dio si manifesta in modo sempre nuovo. La libertà dell’uomo comporta anche il rischio del rifiuto del dono di Dio, perché esso gli viene proposto ma non imposto. Spesso l’uomo ritiene che emancipandosi da Dio possa raggiungere la propria autorealizzazione, ed invece in questo modo diventa schiavo del proprio ego narcisista, distruggendo la vera umanità in se stesso e negli altri. La fede è la risposta al Dio che parla, alla sua chiamata che interpella per realizzare il passaggio verso l’autentica libertà. Dio entra in relazione amicale con l’uomo, lo chiama all’alleanza d’amore e gli manifesta il “mistero della sua volontà” (Ef 1,9). L’Altissimo parla facendosi compagno di viaggio dell’uomo, che viene interpellato a realizzare una totale metànoia (conversione), un processo di liberazione profonda. La risposta dell’uomo, che parte dal più profondo del proprio essere, può essere solo una risposta nella libertà. L’uomo è chiamato ad uscire da se stesso, ad emanciparsi dalle false sicurezze, per intraprendere un sentiero faticoso e rischioso, sostenuto dalla forza dello Spirito Santo che fa nuove tutte le cose. Dio parla a noi attraverso la storia, nello spazio e nel tempo, servendosi delle parole e delle azioni degli uomini, per cui la sua rivelazione si incarna in un determinato contesto culturale. Il Dio che ci parla è quindi nello stesso tempo il Dio che resta avvolto nel mistero del suo Silenzio, perché la nostra finitudine non ci consente di poterlo conoscere in pienezza. Dio rivelandosi si manifesta, ma nello stesso tempo si nasconde nuovamente per l’ineffabilità del suo Mistero. La fede è un rapporto di fiducia con Colui che prende l’iniziativa, come emerge dalla Bibbia, come fece Abramo, il padre dei credenti (Gn 15,6), che superando le sue certezze umane, si ritrova ad accogliere l’impossibile, come il figlio in vecchiaia (Gn 18,14). La fiducia supera i limiti della ragione umana e si apre con umiltà all’intervento di Dio, come Maria, l’icona perfetta dell’ascolto, totalmente disponibile alla volontà di Dio, “… colei che ha creduto all’adempimento delle parole del Signore” (Lc 1,45), e che “… da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19). Dalla fede come fiducia scaturisce la fedeltà, partecipazione alla fedeltà di Dio, all’alleanza con Lui (Dt 7,9), realizzata dal Cristo che ci ha chiamati amici, poichè “non c’è amore più grande di colui da la vita per i propri amici” (Gv 15,13-14): “La fede non è un rifugio per gente senza coraggio, ma la dilatazione della vita. Essa fa scoprire una grande chiamata, la vocazione all’amore, e assicura che quest’amore è affidabile, che vale la pena di consegnarsi a esso, perché il suo fondamento si trova nella fedeltà di Dio più forte di ogni nostra fragilità” (Lumen Fidei n.53) Il Signore Gesù ha donato se stesso sulla Croce per l’umanità, ha effuso il suo Spirito, che rende il nostro cuore capace dell’amore autentico per il Padre celeste, anche nel buio della fede: “Il frutto dello Spirito è invece amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà” (Gal 5,22). La fede ci fa conoscere, cioè ci consente per opera dello Spirito, di fare esperienza profonda del Mistero, della sua presenza d’Amore, perché “non è la conoscenza che illumina il Mistero, ma è il Mistero che illumina la conoscenza” (Pavel Evdokimov). Si tratta della scoperta gioiosa che Dio sta all’origine della nostra esistenza e con la sua premura provvidenziale si prende cura di essa, affinchè neppure un capello del nostro capo vada perduto (Lc 21,18). La fede è un’esperienza concreta per avvicinarsi a Dio, per piacere a Lui e cercarlo ininterrottamente con sincerità di cuore: “La fede apre al Mistero di Dio e permette di operare la lettura teologica della nostra storia, così come anche di credere alla ricompensa divina” (E. Scognamiglio). La fede permette d’intravvedere la pedagogia divina in tutti i fatti della storia, sia universale che particolare, di scorgere in essi il suo progetto d’amore, che trionfa sul male e sui fallimenti. Il credente lotta contro se stesso per dare senso alla vita, senza chiudere gli occhi sui drammi e sulle tragedie della storia. La fede è una lotta appassionata contro il dubbio, perché a volte Dio si nasconde per metterci alla prova, per darci la possibilità di seguirlo in totale libertà. In questo modo la fede si purifica e ci si arrende a Dio come il Profeta Geremia: “Tu mi hai sedotto, o Signore, ed io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso […] Mi dicevo: ‘Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!’ Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo ma non potevo”( Ger 20, 7.9). La vita del credente non è quindi esente da dubbi, interrogativi, incertezze, soprattutto dinanzi all’enigma del dolore, della presenza del male nel mondo che manifesta in tante forme. Colui che vive l’itinerario della fede non ha la risposta pronta per tutti gli interrogativi, e la sua esistenza è contrassegnata dalla continua ricerca dell’Amato, secondo la dialettica dell’ incontro e della separazione poeticamente espressa nel Cantico dei Cantici: Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato del mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho trovato (3,1); “Un rumore! E’ il mio diletto che bussa: ‘Aprimi, sorella mia[…]. Ho aperto allora al mio diletto, ma il mio diletto già se n’era andato, era scomparso” (5,2.6). Come ha affermato Enzo Bianchi “[…] anche il credente corre il rischio dell’incredulità come poca fede, come non ascolto della volontà di Dio, come tenebra del nonsenso[…]. Ma proprio questa sua esperienza di contraddizione lo rende capace di ascoltare le difficoltà dell’altro, di capire le perplessità di chi non condivide la sua fede, di dire una parola franca che affonda la sua autorevolezza non in dogma ma in un vissuto, lo rende capace di dialogare nella diversità e nel rispetto delle singole identità”. La ricerca rende necessaria la vigilanza (parabola delle dieci vergini Mt 25,1-13), che consente la perseveranza: “Se perseveriamo nel cercare il volto del Signore, al termine del nostro pellegrinaggio terreno sarà Lui, Gesù, il nostro eterno gaudio, la nostra ricompensa e gloria per sempre” (Benedetto XVI) . Chi crede è in effetti come un povero pellegrino proteso verso la Patria celeste, per cui non può essere indolente, in quanto ha la responsabilità di contribuire alla crescita del germe della vita eterna posto in lui. San Francesco ha vissuto in pienezza la spiritualità del pellegrinaggio; nella Regola Bollata si afferma infatti che i frati devono essere “come pellegrini e forestieri in questo mondo, servendo il Signore in povertà e umiltà” (FF 90). Quando l’uomo non si arrende a ciò che appare, al destino delle necessità e al silenzio della morte, allora egli può scoprire la dignità del vivere, di non ‘essere gettato verso la morte’. La più grande tentazione è quella di arrestarsi, di appagarsi della fugacità del presente, di non avvertire più l’inquietudine della ricerca. L’uomo distrugge anche la propria dignità quando pensa che la Verità sia qualcosa da possedere e non è più disposto a mettersi in discussione. Come affermò Lutero “siamo dei poveri mendicanti, questa è la verità”; noi siamo mendicanti dell’Assoluto, e la povertà evangelica è il segno profetico dell’atteggiamento spirituale della provvisorietà della fede, nella consapevolezza che Dio è fedele alle sue promesse e non tarderà a mostrarci il suo Volto, come vorrà e quando vorrà. La nostra società occidentale postcristiana non riesce a soffocare i bisogni insopprimibili, profondi. Si assiste infatti al ritorno della spiritualità, della riscoperta della fede, come scelta sofferta, consapevole, anche negli ambienti che sembrano più lontani da tutto ciò. Il cristianesimo è destinato forse a scomparire come fenomeno di massa, ma si sta radicando sempre più come scelta responsabile dei singoli, delle minoranze, che devono fare i conti con una società che mette a dura prova la loro autenticità. Nei paesi in cui è presente il fondamentalismo islamista e induista i cristiani quotidianamente devono fare i conti con la persecuzione e il martirio; infatti le stragi sono all’ordine del giorno. Il sangue dei martiri, unito a quello di Cristo, è fecondo per la Chiesa e sta portando ad una forte rinascita spirituale. Tutto ciò è segno di speranza ed attesta che il Regno di Dio germina in modo nascosto, e quando sembra essere del tutto annientato dal potere del mondo, è allora che fruttifica, perché segue la logica della Croce del Risorto, che è il seme del rinnovamento radicale della storia protesa verso il Totalmente Altro.
Lucia Antinucci
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