«E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14)
La tenerezza di “essere simili”…
Francesco d’Assisi considerava il Natale come la “festa delle feste” e profondamente si commuoveva innanzi all’umiltà di Dio che, nel Verbo della vita, discese in mezzo a noi svuotandosi completamente, sino al dono estremo della vita. Per questo voleva che, per tale solennità, anche le mura dei conventi fossero spalmate di carne e che nessun animale restasse senza cibo. Dio è venuto per tutti e si è per sempre legato a noi e, dunque, resta dalla nostra parte. È l’Emmanuele, il Dio-con-noi, il Dio-per-noi!
La culla di Betlemme – paglia e fieno – è l’altare dove s’impara ad amare, l’unico pulpito credibile che insegna a vivere per gli altri, a donarsi senza riserve per il bene degli uomini e delle donne di ogni tempo e anche per il mondo che abitiamo. A Greccio, Francesco contemplò la kenosis del Figlio di Dio fatto uomo: in mezzo a noi come noi, in tutto simile alla nostra storia di creature; ma in tutto simile al Padre, Dio vero da Dio vero, generato e non creato della stessa sostanza del Padre. Gesù, Luce da Luce, è la carne di Dio, un Dio di carne: in lui si scambiano – come in un abbraccio tenero e duraturo, personale – la nostra umanità e la sua divinità.
Il Natale francescano ispira il sentimento della tenerezza. È la tenerezza di “essere simili”. A Greccio, il Poverello contemplò la carne di Dio donata per noi: Gesù Cristo. Al Poverello gli fu connaturale rivedere nella mangiatoia il tabernacolo dell’amore di Dio: carne e pane, corpo e parola, sangue e spirito, umanità e divinità, si rivelano nella meravigliosa sintesi dell’incarnazione del Verbo. Dio, in Cristo, è divenuto simile a noi e, noi, in Cristo, siamo divenuti simili a Dio. Questo mirabile dono – “tenero scambio” – è l’unico e vero sacrum commercium che Francesco amò e ritenne per sé, come forma di vita, ossia come Vangelo vivente, vita fatta Vangelo. Il Natale e l’Eucaristia insegnano e rivelano il vero significato della povertà: esistere per gli altri ed essere per sempre grati a Dio e ai fratelli e alle sorelle per il dono della vita.
È dalla tenerezza di “essere simili” che dobbiamo e possiamo prenderci cura gli uni degli altri, amando Dio nel prossimo, cercando il volto di Gesù negli ultimi, in chi non è amato, né cercato, né voluto o si trova solo al mondo. Il Natale è la festa della tenerezza di Dio e anche dell’uomo. Perché la tenerezza è quel profondo sentimento di dolcezza e affetto, spesso associato a commozione, che ammorbidisce il cuore e gli animi e ispira azioni e parole affettuose che esprimono sentimenti profondi. Chi è tenero è capace di grandi slanci, di abbracciare, di correre verso il prossimo, di soccorrere, di perdonare, di fare non uno ma cento passi verso i fratelli e le sorelle in difficoltà. Dio ha provato per noi un’infinita tenerezza e ci ha colmato con il suo amore, ossia con Gesù Cristo. Se è vero che, in senso figurato, “tenerezza” significa “sentimento di dolce commozione, di profonda, delicata dolcezza che nasce dall’amore”, allora il Padre, manifestandosi nella carne del Figlio, ha rivelato tutto il suo affetto – la sua morbidezza – per noi. In Cristo, Verbo fatto carne, Dio si commuove per noi. “Tenerezza” può diventare per il Natale l’altro nome della “Misericordia”: Dio, infatti, ci custodisce nel bene che è Gesù Cristo! A Natale raccontiamo la tenerezza di Dio per l’uomo, per tutti i suoi figli e le sue figlie, per ciascuno di noi, per i nostri amici, finanche per i nostri nemici!
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