Recensione: A. Socci, Non è Francesco. La chiesa nella grande tempesta.

A. Socci, Non è Francesco. La chiesa nella grande tempesta, Mondadori, Milano 2014, pp. 283, € 18.

Un antico detto della tradizione letteraria araba recita, in italiano, più o meno così: “Chi passa al setaccio rimane setacciato”. È il monito che alcuni artisti rivolgono a quei critici severi che pretendono d’incasellare un autore o un poeta in un determinato movimento letterario o in una precisa corrente di pensiero, individuandone esattamente la tipologia d’appartenenza e la dottrina principale, senza offrire alcuna via di scampo per eventuali letture alternative o integrative. Ci sembra di poter dire che l’ultimo lavoro giornalistico o cronachistico dello scrittore senese, già vice-direttore di Rai Due, Antonio Socci, si muove in questa linea. La sentenza è definitiva: Francesco non è papa. L’elezione di Bergoglio al soglio di Pietro è nulla e, per di più, il suo stesso magistero smentisce la dottrina della Chiesa cattolica per alcune devianze teologiche. Il libro di Socci è come un cocktail esplosivo preparato con dovizia: raccoglie e mescola fatti di cronaca, valutazioni teologiche e morali, elementi di spiritualità francescana e gesuitica, contenuti dottrinali dogmatici, precise norme del diritto canonico, voci di corridoi di alti prelati e pettegolezzi di preti che gironzolano attorno alla Santa Sede, giudizi di cardinali e vescovi che restano top-secret. Il tutto ben miscelato e  citato con dovizia per rinvigorire la tesi di fondo: Bergoglio non è Francesco. Molte delle fonti orali citate da Socci non sono rintracciabili: il chiacchiericcio di Santa Romana Chiesa diventa fonte indiscutibile esso stesso.

Citando l’articolo 69 della Costituzione apostolica Universi Dominici gregis, per l’elezione del sommo pontefice, Socci rileva due violazioni avvenute per la scelta del papa dopo la rinuncia di Benedetto XVI. La prima violazione delle norme riguarda l’annullamento di una votazione che doveva essere ritenuta valida e scrutinata. Il giornalista si riferisce al fatto che, nello spoglio delle schede, ne fu conteggiata una in più (considerata bianca) che era attaccata a un’altra scheda contenente un voto espresso. La seconda violazione riguarda le votazioni del 13 marzo 2013. Quel giorno si procedette in conclave con una votazione in più, ossia per un totale di cinque votazioni, mentre la Costituzione apostolica Universi Dominici gregis ne prevede solo quattro. Bergoglio fu eletto alla quinta elezione che non è prevista dalla Costituzione. Per Socci, se è vero che il conclave non ha assolutamente il potere di modificare le regole, nemmeno votando all’unanimità, l’elezione al papato di Bergoglio (cf. pp. 110-111) semplicemente non è mai esistita. <Non è nemmeno un problema sanabile a posteriori perché non si può sanare ciò che non è mai esistito> (p. 111).

Socci s’appella alla regolarità canonica sancita dall’articolo 87 della Costituzione Universi Dominici gregis. L’invalidità dell’elezione di Bergoglio è legata anche a un altro cavillo canonico: l’11 febbraio 2013, papa Benedetto, così come si è espresso nel testo latino della sua dichiarazione, ha lasciato solo il potere di governo e di comando sulla Chiesa cattolica (il ministero petrino), ma non ha rinunciato al munus, ossia all’ufficio papale che ha ricevuto in quanto non è revocabile. Ratzinger avrebbe rinunciato soltanto all’esecuzione concreta del ministero petrino ma non all’ufficio in sé di papa (cf. p. 96). È così, infatti, per Socci, che si giustifica il modo di vestire di papa Benedetto: indossando l’abito bianco, egli resta papa! Appellandosi a uno studio di Stefano Violi, apparso sulla Rivista teologica di Lugano (La rinuncia di Benedetto XVI. Tra storia, diritto e coscienza), Socci insiste nel ritenere che Benedetto XVI – nella sua declaratio – dichiara di rinunciare al ministerium e non al munus del papato secondo il dettato del can. 332 paragrafo secondo. Infatti, nella dichiarazione, Benedetto XVI rende pubblico di rinunciare all’esercizio del ministero (ministerium) petrino e non all’incarico (munus) petrino (cf. pp. 93-96). In altri termini, Ratzinger avrebbe rinunciato all’esercizio attivo del munus ma non al munus petrino in sé.

In realtà, la tesi di Socci segue più un’interpretazione a carattere filosofico-esistenziale che strettamente giuridico-normativo o anche teologico. “Rinunziare”, secondo l’uso antico, vuol dire rifiutare spontaneamente qualcosa di cui si ha o si dovrebbe di diritto avere, tra cui la proprietà dei beni. La decisione di astenersi dal fare implica anche quella dell’essere. Giuridicamente, poi, chi rinunzia a un diritto o a un bene lo fa in favore di un altro. Dal punto di vista canonico, la rinuncia all’ufficio implica la cessazione volontaria dall’ufficio ecclesiastico, che può essere fatta da chiunque sia sano di mente (cf. can 187). Deve sottostare a una condizione: l’esistenza di una giusta causa, che sia ritenuta tale tanto dal rinunciante (cf. can 188) quanto dall’autorità davanti alla quale viene fatta (cf. can 189). Nel caso della rinuncia di Benedetto XVI, l’atto stesso è avvenuto in forma di motu proprio e in base alla sua potestà suprema, piena, immediata, libera e universale. La rinuncia suppone nel titolare l’intenzione di lasciare quell’ufficio e nell’autorità almeno la conoscenza di questo fatto, per poter provvedere in tempo.

A dire  il vero, ciò che lascia sconcertati del libro di Socci non è la tesi sulla nullità dell’elezione di papa Francesco – che, francamente, appare più una trovata pubblicitaria, uno scoop giornalistico, che una teoria ben consolidata, forse nella speranza che il libro diventi best-seller? – bensì il ribadire in più punti la necessità di fare ritorno a una Chiesa cattolica tradizionalista, ossia più preoccupata per il tema della verità e dei contenuti della dottrina che dello stato di salute dei suoi stessi fedeli. S’avverte, leggendo il saggio, un ritorno nostalgico a un’immagine di Chiesa pre-conciliare, che dà sicurezza in quanto immagine della societas perfecta. In più punti, il libro sembra essere stato pensato come un’apologia a Ratzinger e ai Francescani dell’Immacolata che, diversamente da quanto ammette Socci, sono stati commissariati non soltanto perché considerati pre-conciliari o tradizionalisti, ma per seri problemi di ordine amministrativo, economico, formativo e teologico-pastorale! A Socci, poi, crea un enorme disagio il modo di esprimersi, di operare e di celebrare di papa Francesco che, in certi momenti, appare irriverente e poco prudente, come quando ha definito le suore “zitelle” o parlato dei cristiani “da pasticceria”. Sembra, poi, più un chiacchiericcio di corte che un problema teologico serio, il fatto che papa Francesco non faccia le genuflessioni previste dalla liturgia davanti al Santissimo Sacramento (cf. pp. 182-183). Crea qualche difficoltà anche l’apertura di papa Francesco ai carismatici, ai movimenti pentecostali, come altresì la sua simpatia per il cardinale Walter Kasper e la teologia della liberazione (cf. p. 184). Socci è un ratzingeriano convinto e un anti-rahneriano per eccellenza. Così, la Verità prevale sull’Amore, dimenticando che essa è solo lo strumento dell’Amore. È ingenua la pretesa dell’autore di mostrare, nel capitolo intitolato Il caso Bergoglio (cf. pp. 153-168), gli errori di dottrina di papa Francesco quando mette a confronto alcuni suoi discorsi con il magistero della Chiesa cattolica citando lo stesso Catechismo della Chiesa cattolica o quello di san Pio X o la Dominus Iesus di Ratzinger.

Questo saggio è quasi un diario-cronaca che rivela l’antipatia di Socci per tutto ciò che ha a che fare con la post-modernità e il rinnovamento della Chiesa cattolica. S’avverte la fatica di un cattolico convinto incapace di dialogare con il mondo e di mettersi seriamente a ripensare all’annuncio del Vangelo in un mondo che è cambiato e che attende da noi cristiani una testimonianza di vita concretissima. Egli stesso scrive: <A prescindere dal fatto che l’elezione di Bergoglio sia valida, oppure invalida e nulla (cosa comunque decisiva e da chiarire), a me pare che abbiamo assistito dopo il 13 marzo 2013 a una serie di fatti, scelte e dichiarazioni che sono risultati e risultano essere palesemente distruttivi per la Chiesa […]. Lo smarrimento in cui si trova il popolo cristiano di fronte a certe prese di posizione è evidente> (p. 253). C’è, tuttavia, un aspetto del pensiero di Socci che è condivisibile; lo si può esprimere secondo un detto  comune che, nell’ultimo anno, circola come traditio negli ambienti accademici e in molte curie e che diventa una critica obiettiva a un certo modo di fare e di muoversi di papa Francesco: “Non c’è niente di peggio di un gesuita che vuole fare il francescano”. Di fatti è vero: papa Francesco è un gesuita e non ha esperienza di fraternità, dono tipico solo della tradizione francescana. Eppure, egli stesso si rifà continuamente – nei messaggi, nei discorsi e nelle omelie – al dono stupendo della fraternità, quasi come alla vera immagine del corpo di Cristo che è la Chiesa. Nel concetto di fraternitas vi è qualcosa in più rispetto a quello di communitas: il dono del singolo prevale sulla gerarchia e sui principi comuni della convivenza, in quanto la fraternità offre maggiore spazio ai carismi del singolo fratello rispetto all’ordine costituitosi nella comunità che prevede, comunque, la condivisione di beni, risorse, carismi, ministeri, progetti, etc… In tale prospettiva, Bergoglio è sovversivo come lo stesso san Francesco che nel Medioevo rovesciò completamente i valori della società e della stessa Chiesa cattolica, rileggendo non solo la sua esistenza ma anche quella della società a partire dagli ultimi, rifuggendo però ogni sorta di pauperismo inutile e sterile.

È fuori dubbio che papa Francesco dovrebbe essere più prudente nel suo modo di esprimersi, di prendere iniziative, di criticare la Chiesa cattolica nei suoi organi direttivi. Si sta sviluppando un forte anti-clericalismo in milioni e milioni di persone che, pur non vivendo la Chiesa cattolica, perché non inserite in nessuna comunità cristiana, si sentono sì amate e accolte da papa Francesco ma guardano con sospetto o diffidenza al vissuto di fede e alla proposta del Vangelo da parte di tanti sacerdoti, religiosi e laici impegnati nel cammino quotidiano della vita ecclesiale. C’è il pericolo che la simpatia indiscussa per questo papa, umile servo della vigna del Signore, un po’ dinoccolato nel suo modo di presentarsi e di celebrare, faccia riemergere con forza il motto sessantottino: “Cristo sì, Chiesa no”. C’è molto malumore tra vescovi e sacerdoti che, da papa Francesco, si sentono soltanto giudicati. C’è un non so che di stonato in certe battute di papa Francesco che faranno pure sorridere ma che sono sicuramente inadeguate se pronunciate da un capo di Stato e, soprattutto, da un leader religioso. A volte, poi, Bergoglio appare più egocentrico e mediatico di qualsiasi altra star internazionale, compreso pure Giovanni Paolo II. C’è altresì chi fa notare che papa Francesco porta con sé un’immagine negativa della Chiesa in Europa o comunque di quella occidentale, come se fosse un corpo addormentato, malato, incapace di stare tra i poveri e di agire concretamente nella storia quotidiana delle famiglie e delle società. Ma così non è! Quanti preti e religiosi, laici e missionari, anche in Italia, vivono giorno per giorno a contatto con i poveri, gli ammalati, i separati, gli emarginati? Quanti cristiani faticano ad essere testimoni di Gesù risorto in un contesto di totale emarginazione culturale, sociale, politica?

Evidentemente, dobbiamo ancora comprendere che il “ciclone Francesco” sta avviando una rivoluzione culturale e missionaria che tocca anche il nostro modo di annunciare e di vivere il Vangelo, come anche del semplice parlare di Gesù Cristo. Il linguaggio semplice, ricco di metafore e simboli, di papa Francesco è uno sprone per noi tutti a non prenderci troppo sul serio, a scendere dai nostri piedistalli e a stare in mezzo alla gente, rinunciando a tante pompe magne! È in questa prospettiva che dobbiamo valutare l’apertura di papa Francesco ai cristiani separati e risposati: se ci sono problemi e disagi concreti, per papa Francesco, vanno affrontati immediatamente, senza diplomazia o troppe teorie. Se la Chiesa cattolica è, per usare una metafora bergogliana, “un ospedale da campo”, allora non c’è tempo per analisi interminabili e non si possono sprecare energie per difendere troppo la propria immagine: occorre, invece, intervenire, curare, sanare e aiutare che è ferito. Nel cuore di papa Francesco, dunque, ci sono i tanti feriti e delusi dalla vita e dalla Chiesa cattolica – ben rappresentati dal figliol prodigo della parabola del Padre buono – che attendo di sperimentare attraverso di noi non semplicemente l’astratta verità o dottrina di Gesù Cristo, ma la concreta misericordia del Padre che in Cristo ci è stata donata per sempre! Negli abbracci di Francesco si rivela la bontà del Padre che va in cerca dei tanti figli e figlie della Chiesa cattolica oramai considerati perduti e demotivati!

 

Socci, e come lui tantissimi altri cristiani moderati e innamorati del tema della Verità e dei principi primi della fede, corre il rischio di essere come il figlio maggiore della succitata parabola lucana: parla al passato, pensa al sacrificio compiuto per restare fedele a Dio e a ciò che gli spetta come operaio nella vigna del Signore, ma non ha ancora maturato la compassione, quella solidarietà verso i peccatori che porta fuori dall’uscio di casa e a stare per strada. Forse è vero: Bergoglio non è Francesco, quell’alter Christus che solo una volta e per sempre fu donato alla Chiesa cattolica e al mondo intero come sole per illuminare e riscaldare i cuori di uomini e donne, fratelli e sorelle, bisognosi di perdono e di amore infinito. Ma, a vantaggio di Bergoglio, occorre riconoscere che questo papa “venuto dalla fine del mondo” non ha mai preteso di essere un alter Christus, bensì un peccatore che ha sperimentato l’amore e la misericordia del Padre in Cristo e che in san Francesco d’Assisi ha trovato un modello valido – un carisma autentico – per annunciare il Vangelo agli uomini e alle donne del nostro tempo.

 

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