Con Francesco d’Assisi sui sentieri del dialogo per la nuova evangelizzazione
di
Edoardo Scognamiglio, Ofm Conv.
Se è vero che la nuova evangelizzazione è il coraggio di osare sentieri nuovi, di fronte alle mutate condizioni dentro le quali la Chiesa è chiamata a vivere oggi l’annuncio del Vangelo, ed è anche è un’azione anzitutto spirituale – ossia la capacità di fare nostri nel presente il coraggio e la forza dei primi cristiani, dei primi missionari –, allora la testimonianza viva di san Francesco e il suo carisma vissuto nelle nostre fraternità hanno ancora molto da dire al mondo e possono contribuire in misura significativa alla missione della Chiesa.
“Nuova evangelizzazione” è sinonimo di rilancio spirituale della vita di fede delle Chiese locali, avvio di percorsi di discernimento dei mutamenti che stanno interessando la vita cristiana nei vari contesti culturali e sociali, rilettura della memoria di fede, assunzione di nuove responsabilità e di nuove energie in vista di una proclamazione gioiosa e contagiosa del Vangelo di Gesù Cristo. La nuova evangelizzazione è, dunque, un’attitudine, uno stile audace. È la capacità, da parte del cristianesimo, di saper leggere e decifrare i nuovi scenari che in questi ultimi decenni si sono creati dentro la storia degli uomini, per abitarli e trasformarli in luoghi di testimonianza e di annuncio del Vangelo. Questi scenari sono stati individuati analiticamente e descritti più volte; si tratta di scenari sociali, culturali, economici, politici, religiosi.
Si possono individuare almeno sei scenari che mettono a dura prova l’annuncio del Vangelo oggi.
Primo fra tutti, va indicato lo scenario culturale di sfondo. Ci troviamo in un’epoca di profonda secolarizzazione, che ha perso la capacità di ascoltare e di comprendere la parola evangelica come un messaggio vivo e vivificante. Il credente si trova spesso ad agire in un contesto di totale diffidenza nei confronti del Vangelo.
Accanto a questo primo scenario culturale, ne possiamo indicare un secondo, più sociale: il grande fenomeno migratorio che spinge sempre di più le persone a lasciare il loro paese di origine e vivere in contesti urbanizzati, modificando la geografia etnica delle nostre città, delle nostre nazioni e dei nostri continenti. Da esso deriva un incontro e un mescolamento delle culture che le nostre società non conoscevano da secoli.
Questo profondo miscuglio delle culture è lo sfondo sul quale opera un terzo scenario che va segnando in modo sempre più determinante la vita delle persone e la coscienza collettiva. Si tratta della sfida dei mezzi di comunicazione sociale, che oggi offrono enormi possibilità e rappresentano una delle grandi sfide per la Chiesa. Non c’è luogo al mondo che oggi non possa essere raggiunto e quindi non essere soggetto all’influsso della cultura mediatica e digitale che si struttura sempre più come il “luogo” della vita pubblica e della esperienza sociale. Il diffondersi di questa cultura porta con sé indubbi benefici: maggiore accesso alle informazioni, maggiore possibilità di conoscenza, di scambio, di forme nuove di solidarietà, di capacità di costruire una cultura sempre più a dimensione mondiale, rendendo i valori e i migliori sviluppi del pensiero e dell’espressione umana patrimonio di tutti. Queste potenzialità non possono però nascondere i rischi che la diffusione eccessiva di una simile cultura sta già generando. Si manifesta una profonda concentrazione egocentrica su di sé e sui soli bisogni individuali. Si afferma, così, un’esaltazione della dimensione emotiva nella strutturazione delle relazioni e dei legami sociali. Si assiste alla perdita di valore oggettivo dell’esperienza della riflessione e del pensiero, ridotta in molti casi a puro luogo di conferma del proprio sentire.
Il quarto scenario che segna con i suoi mutamenti l’azione evangelizzatrice della chiesa è quello economico. La perdurante crisi economica nella quale ci troviamo segnala il problema di utilizzo di forze materiali, che fatica a trovare le regole di un mercato globale capace di tutelare una convivenza più giusta.
Il quinto scenario è quello della ricerca scientifica e tecnologica. Viviamo in un’epoca che non si è ancora ripresa dalla meraviglia suscitata dai continui traguardi che la ricerca in questi campi ha saputo superare. Tutti possiamo sperimentare nella vita quotidiana i benefici arrecati da questi progressi. Tutti siamo sempre più dipendenti da questi benefici. La scienza e la tecnologia corrono così il rischio di diventare i nuovi idoli del presente.
Il sesto scenario è quello politico. È giunta la fine della divisione del mondo occidentale in due blocchi con la crisi dell’ideologia comunista. Ciò ha favorito la libertà religiosa e la possibilità di riorganizzazione delle Chiese storiche. L’emergere sulla scena mondiale di nuovi attori economici, politici e religiosi, come il mondo islamico, mondo asiatico, ha creato una situazione inedita e totalmente sconosciuta, ricca di potenzialità, ma anche piena di rischi e di nuove tentazioni di dominio e di potere. In questo scenario, l’impegno per la pace, lo sviluppo e la liberazione dei popoli; il miglioramento delle forme di governo mondiale e nazionale; la costruzione di forme possibili di ascolto, convivenza, dialogo e collaborazione tra le diverse culture e religioni; la custodia dei diritti dell’uomo e dei popoli, soprattutto delle minoranze; la promozione dei più deboli; la salvaguardia del creato e l’impegno per il futuro del nostro pianeta, sono tutti temi e settori da illuminare con la luce del Vangelo.
1. L’esperienza missionaria di Francesco e dei suoi fratelli
Proviamo a rileggere il senso letterale del capitolo XII della Regola definitiva nel contesto della fraternità in missione e riprendendo il significato dell’apostolato, della predicazione e della missione tra i pagani e gli infedeli secondo le indicazioni della Regola non bollata (soprattutto del capitolo XVI) che non si presenta tanto come un testo legislativo, quanto, invece, come uno specchio fedele della primitiva esperienza francescana. Successivamente, evidenzieremo le ricadute della proposta francescana per l’oggi della nostra storia, lasciandoci stimolare dalla profezia dello “Spirito di Assisi” per il dialogo tra le religioni, in particolare con l’islam, e tra le culture e l’impegno per la pace. Alla luce dell’esperienza di Francesco nel dialogo con il sultano d’Egitto, scopriremo che le diversità non sono di ostacolo all’affermazione o custodia della nostra identità e che le stesse alterità possono costituire una risorsa per l’annuncio del Vangelo e la testimonianza di fede. Il Poverello ci educa, così, a uno stile dialogico e comunionale di cui sentiamo un particolare bisogno soprattutto per i nostri tempi caratterizzati dalla globalizzazione, dalla vicinanza sempre più prossima e stretta di popoli, culture, etnie, religioni e modelli etici alquanto differenziati.
Il capitolo XII della Regola definitiva si compone di appena quattro versetti: i primi due riguardano proprio l’invio dei frati tra i saraceni e gli infedeli, mentre il terzo fa riferimento alla richiesta del cardinale protettore e correttore della fraternità, e il quarto costituisce un compendio di tutta la regola di vita dei frati da intendersi come promessa di obbedienza e fedeltà al Signore Gesù, al suo Vangelo e alla sua santa Chiesa. Prenderemo in esame essenzialmente i primi due versetti.
Ritornato dall’Oriente, Francesco prese atto delle difficoltà che insidiavano dall’esterno e ancor più dall’interno il cammino dell’Ordine. Così, durante il colloquio con il papa Onorio III, chiese come cardinale protettore Ugolino di Ostia che, divenuto papa, non accennò mai alla sua funzione di cardinale protettore, bensì solamente ai suoi rapporti con il Poverello, specialmente all’assistenza nella redazione della Regola definitiva. Molto si è discusso sull’ambito dell’autorità delegata dal papa al cardinale Ugolino e sulla pressione esercitata dall’autorità pontificia per la clericalizzazione dell’Ordine e la sua gerarchizzazione. Di là delle diverse vedute (a proposito della vita fraterna, della missione, della predicazione) e della stessa amicizia tra Francesco e il cardinale Ugolino, è certo che la richiesta del cardinale protettore assicurava lo stretto legame con la Chiesa cattolica e la continuità della Regola all’interno dell’Ordine. La figura del cardinale protettore creò non pochi problemi all’Ordine – per ingerenze indebite della curia romana nella vita dei frati – ma divenne, già con la creazione della Congregazione per i religiosi nel 1588, una figura soprattutto rappresentativa. Tale figura fu abolita nel 1964. Dunque, il versetto tre della Regola raccoglie un precetto formale il cui significato è nell’osservanza spirituale della Regola e nell’obbedienza alla Chiesa cattolica. D’altronde, questa è l’essenza del progetto francescano che è racchiuso nel versetto successivo: «Affinché, sempre sudditi e soggetti ai piedi della medesima santa Chiesa, stabili nella fede cattolica, osserviamo la povertà e l’umiltà e il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, che abbiamo fermamente promesso».
Vedremo come lo stile missionario assunto da Francesco e dai suoi compagni nelle terre dei saraceni e degli infedeli, in evidente dissonanza con l’impegno politico e apostolico di uomini di Chiesa e del potere temporale di quel tempo – intenti a liberare i luoghi santi dall’egemonia degli arabi musulmani attraverso la giusta causa delle crociate o guerra santa –, riveli un disagio più profondo all’interno della stessa compagine cristiana che consiste nel modo di intendere la fede, l’esperienza di Dio, la santità, l’annuncio stesso del Vangelo e l’impostazione della vita religiosa. Si tratta di una tensione – o anche di un conflitto a volte dialettico – che appare a intermittenza già dal medesimo confronto tra la prima Regola e quella ultima o definitiva. È come se si fosse creato un rapporto di continuità nella discontinuità tra l’intuizione di Francesco – il carisma della fraternità in missione e della povertà vissuta tra la gente – e l’istituzione della Chiesa nel Medioevo. D’altronde, la fedeltà alla Chiesa, principio che ha ispirato l’intero processo di conversione e di testimonianza del Poverello fuori e dentro la fraternità, ammette un ampio margine di libertà e il rispetto medesimo dell’esperienza di fede vissuta personalmente e suscitata dalla grazia divina.
È una tensione ben nota agli storici e ai critici che appare anche in rapporto al tema della missione tra i saraceni e dal modo stesso d’intendere la predicazione e l’apostolato dei frati nella Chiesa e per le strade del mondo. È, tuttavia, un segno di frizione e di disagio presente nel seno stesso della fraternità, soprattutto tra i membri più quotati che, di fronte a una situazione giuridica alquanto precaria, apparvero seriamente preoccupati, e manifestarono il desiderio e la volontà di regolamentazione, disciplinamento, legalizzazione del movimento. Pur senza ridurre la propria adesione all’ideale di Francesco e al suo programma di vita evangelica, una parte della fraternità avrebbe desiderato un’organizzazione più efficiente e una legislazione mirata e codificata come strumento di governo. Ciò è segno del profondo spazio di libertà goduto all’interno della comunità francescana che mai si è ridotta a proporre o a esperire una sorta di socialismo comunitario: i modi diversi di pensare, di organizzare l’apostolato, di intendere la Regola, di proporre il Vangelo, come altresì di rendersi disponibili al servizio della Chiesa tutta e della curia romana in particolare, e di incarnare l’ideale di santità e di minorità, esprimono la grande ricchezza dello stesso carisma francescano per il quale molto Francesco e i suoi compagni lavorarono affinché tensioni e conflitti non lo mortificassero.
I frati più dotti e vicini alla curia romana avrebbero voluto anche introdurre elementi presi dagli ordini monastici che rappresentavano una garanzia di grande rilievo per l’esperienza di vita maturata negli anni. Queste tensioni si erano già manifestate anche tra Francesco e il cardinale Ugolino. Quest’ultimo avrebbe voluto incoraggiare i frati talentuosi allo studio e alla ricerca e auspicava la formazione di nuovi centri culturali, attraverso una visione abbastanza monastica. Per Francesco, invece, fu fondamentale continuare a essere minori in mezzo al popolo di Dio e ciò poteva avvenire rinunciando a ogni sorta di privilegio e di raccomandazioni presso i vescovi e il clero. Il Poverello si lasciava animare da una profonda povertà di spirito che aveva le sue radici nel Vangelo medesimo. Ed è tale libertà a costituire uno dei principi più importanti della missione francescana nel mondo. In fin dei conti, Francesco e i suoi primi compagni, ispirati al modello di Cristo e degli apostoli, vissero volontariamente e in piena coerenza di vita l’esperienza della fraternità missionaria o apostolica. Il cuore della fraternità missionaria e apostolica non è altro che la volontà di predicare la conversione al Vangelo da parte di tutti i frati minori (presbiteri e non, letterati e illetterati, santi e peccatori). D’altronde, l’Ordine fu approvato dalla Sede apostolica come una fraternitas sì che vive la comunità ma altresì la missione. Alle origini del mandato missionario tra i saraceni e gli altri infedeli, c’è, dunque, la coscienza di una fraternità apostolica che si sottomette a Dio e a tutti gli uomini, come altresì a ogni creatura.
2. Il dono della pace e la testimonianza di vita
Francesco volle formare i suoi frati alla missione per un dialogo sereno e sincero con il mondo e le altre religioni. Egli raccomandava loro d’amare e di stimare gli infedeli (non solo i saraceni, ma ogni pagano, qualsiasi persona non battezzata) e di non credersi affatto migliori di loro, poiché se gli infedeli avessero ricevuto le grazie date ai missionari, essi sarebbero diventati migliori di loro. L’amore e la stima non debbono venir meno né per i loro peccati né per la loro malizia, perché i frati sono destinati a liberare coloro che sono nell’errore. E «molti che ci sembrano membra del diavolo, possono un giorno diventare discepoli di Cristo».
Il Poverello sapeva di “essere posseduto” dall’amore di Dio e dalla verità di Cristo che salva, e non “di essere la verità”. È questo lo stile cristiano dell’annuncio e del dialogo con il mondo e le altre religioni. I frati sono testimoni dell’Amore e della Verità che rende liberi. Essi non si sentono migliori degli altri. La Verità, poi, non s’impone: perché si rende credibile nel vissuto quotidiano dei discepoli. Una verità che avesse bisogno d’essere dimostrata sarebbe solo una “mezza verità”. La Verità che ci conquista – forma storica dell’Amore, suo volto – ci rende pieni di zelo per gli uomini e le donne del nostro tempo e ci accende il cuore fino a quando tutti i popoli della terra non conosceranno il Cristo, Signore del tempo e della storia. Francesco si sentiva posseduto da una Verità più grande delle sue stesse forze, della sua parola, della sua stessa fede e del suo medesimo amore verso Cristo e i fratelli.
Vi è, allora, un’insopprimibile tensione missionaria che distingue e qualifica la vita dei frati. «Chi ama Dio, Padre di tutti, non può non amare i suoi simili, nei quali riconosce altrettanti fratelli e sorelle. Proprio per questo egli non può restare indifferente di fronte alla costatazione che molti di loro non conoscono la piena manifestazione dell’amore di Dio in Cristo. Nasce di qui, in obbedienza al mandato di Cristo, lo slancio missionario ad gentes, che ogni cristiano consapevole condivide con la Chiesa, per sua natura missionaria. È slancio avvertito soprattutto dai membri degli Istituti sia di vita contemplativa che di vita attiva. Le persone consacrate, infatti, hanno il compito di rendere presente anche tra i non cristiani il Cristo casto, povero, obbediente, orante e missionario. Restando dinamicamente fedeli al loro carisma, esse, in virtù della più intima consacrazione a Dio, non possono non sentirsi coinvolte in una speciale collaborazione con l’attività missionaria della Chiesa».
Lo slancio missionario è nel cuore di ciascun frate. Francesco vuole che tutti i frati – e non solo quelli che per ispirazione divina chiedono di andare in missione o presso i saraceni – predichino con le opere. Egli riconosce alla comunità francescana la capacità d’animare gli spazi della missione con la diversità di doni, carismi e ministeri per l’edificazione della Chiesa e l’annuncio senza limiti del Vangelo. È importante, però, che nessun ministro o predicatore consideri sua proprietà il ministero dei frati o l’ufficio della predicazione. Guardandosi dalla superbia e dallo spirito della carne, ogni frate è portatore della “buona novella” per la diffusione della pace nel mondo, agendo così per l’azione dello Spirito Santo.
I frati dovranno portare la pace: essere, quindi, messaggeri o comunicatori della “buona notizia” (cf. Is 52,7-9). La pace è dono messianico. E Francesco ne rilegge i suoi contenuti sia in ordine al Vangelo (con riferimento alle beatitudini, al Regno dei cieli) sia in rapporto alla società, al bene delle città e della giustizia comune. Lo scambio di pace è per ogni uomo e deve essere reso da qualsiasi frate e missionario. La pace che i frati devono avere sulla loro bocca è quella del loro cuore e coincide con la pace interiore, con il dono della grazia, dell’essere uniti a Cristo. È una pace che si manifesta nei rapporti con gli altri, attraverso la capacità d’ascolto, di perdono, di consolare, di unire le persone, di vedere il bene.
Francesco impegna i suoi frati ad annunciare la pace e a rendere testimonianza con la dolcezza. Così, la pace diventa la via di comunicazione per attirare tutti gli uomini alla vera pace, alla bontà e alla concordia. Questo scopo finale comporta la riconciliazione tra gli uomini negli stessi termini della pace medievale. Infatti, il modo che Francesco impone ai frati è quello che egli stesso aveva indicato, facendo cantare il Cantico con una strofa sulla pace, cantata alla presenza del podestà e del vescovo d’Assisi. Il saluto di pace, allora, è un invito a compiere in noi la rinascita spirituale e provocare nell’altro il dono della riconciliazione, richiamando l’umanità all’unità e alla concordia.
L’odio, l’invidia, la maldicenza e il rancore sono, per Francesco, i mali dell’umanità e della fraternità che sconvolgono l’avvento definitivo del Regno. Il Poverello sapeva bene che la pace può andare dal cuore dei suoi frati a quello di ciascun uomo. Egli conferì loro una missione di pace allorquando, a imitazione di Cristo, li inviava a due a due a predicare. Francesco aveva un disegno di pace per le sue comunità e per il mondo. Una fraternità riconciliata, pacifica e pacificata, è capace di rispondere alle beatitudini del Regno. Più che fare da pacieri – mediatori tra soggetti in conflitto – i frati portano il saluto di pace perché pieni di Cristo e, quindi, lo donano alle persone che incontrano sul loro cammino.
In effetti, il termine biblico “pace” (shalom o in greco eirênê), così come è utilizzato dall’evangelista Luca, e ripreso nella Regola non bollata, è un invito che sintetizza le benedizioni messianiche e la prosperità connesse alla pace stessa. È un contenuto di pace e non solamente un augurio o auspicio. La proposta troverà eco nei “figli della pace”, in coloro cioè che hanno la disponibilità a vivere in buoni rapporti con tutti. Come i figli ereditano le buone qualità dai genitori, i “figli della pace” hanno per nascita le disposizioni a vivere lealmente con gli altri. I frati, in quanto “figli della pace”, agiscono già secondo giustizia e con misericordia, amandosi reciprocamente, creando spazi di comunione e di dialogo dentro e fuori le mura del convento. Francesco, come l’evangelista Luca, diviene consapevole delle difficoltà e dei contrasti nati a motivo dell’annuncio del Vangelo. L’unica sicurezza dei discepoli – così come dei frati – è l’azione efficace del Risorto, cioè la presenza del Signore in mezzo a loro con la sua grazia e la Parola.
Il missionario che s’avventura in terre straniere può sentirsi preoccupato da problemi di sicurezza e di sostentamento, ma non deve lasciarsi sopraffare da simili pensieri. Così, per una tenuta missionaria più spedita e maggiormente conforme al Vangelo che annunciano, è necessario avanzare senza troppe provviste o danaro, come anche senza neanche curare più di tanto il vestiario o le altre risorse per vivere. Tutto ciò per garantire una maggiore credibilità alla predicazione evangelica. I discepoli, così come i frati, non possono omologarsi allo stile missionario degli impostori o dei mercenari, e neanche ai tentativi di persuasione dei propagandisti di altre religioni o di nuove filosofie. I frati, come i primi predicatori del Vangelo, devono dimostrare d’essere al servizio di un padrone che non fa mancare nulla ai suoi operai. È, infatti, per questa trascuranza per le proprie personali esigenze che gli uomini riconosceranno la bontà della causa che difendono.
L’urgenza missionaria è sottolineata paradossalmente anche dall’esortazione evangelica a non aprire conversazioni interminabili e inutili con le persone che s’incontrano per strada. Francesco, come Gesù, offre una discussione sul come fare missione di carattere profetico e non strategico. Perché il missionario deve sempre porre fiducia nella provvidenza del Signore. Così, l’uso di danaro, l’accumulo di beni, non rende credibile né l’annuncio né il messaggero. Il “mandato missionario” non può essere compromesso dalle nostre resistenze o paure! Inoltre, l’azione missionaria non è un’attività lucrativa. Se il predicatore evangelico non è autorizzato a portar danaro significa che non deve né pretenderlo, né prenderlo. Tuttavia, non può rinunciare al necessario sostentamento e a condividere il cibo e i beni che gli vengono offerti per le sue fatiche e lo zelo apostolico. Ciò costituisce anche un modo per socializzare, nonché per inculturarsi e provare a conoscere lo stile di vita e le abitudini di altri popoli e civiltà.
Il cibo è l’unica mercede che i frati possono esigere. L’ospitalità risulta essere sacra per chi la offre e per coloro che la ricevono. Non la si può negare, ma non la si può nemmeno rifiutare, tanto più da parte del missionario che è un uomo di pace e soprattutto distaccato dalle comodità. Quando si avanza nel mondo pagano si può essere colti anche da scrupoli religiosi a motivo dei cibi che vengono offerti. La norma evangelica, per Francesco, è la più ovvia: attenersi agli usi del luogo senza chiedersi altro. Ciò risulta essere una regola che non è sempre servita a liberare le coscienze da crisi tormentose quanto inutili.
L’immagine delle “pecore [agnelli] in mezzo ai lupi”, che Francesco riprende al capitolo XVI della Regola non bollata e in relazione alla missione presso i saraceni, ben s’addice ad esprimere lo stile cristiano e francescano di colui che annuncia il Vangelo.
La simbologia è complessa e vuole richiamare questi significati:
– la mansuetudine che caratterizza i missionari;
– le difficoltà e gli insuccessi previsti nell’annuncio del Vangelo;
– la necessità di resistere al male e di rispondere sempre con il bene;
– amare con il cuore di Cristo, fino al rischio di morire come lui, agnello immolato;
– la propensione all’ascolto dell’altro, al confronto sereno, alla fiducia, alla disponibilità.
A questa immagine di mitezza corrisponde quella del “porgere l’altra guancia”, come anche di “offrire la tunica” a chi ha già preso il mantello e “di dare” a chi chiede e di non “richiedere” nulla a chi “toglie” loro le cose.
È, per Francesco, l’ottica della perfetta letizia: innanzi al male nel mondo, ai contrasti e ai torti subiti, ogni frate pone fiducia nella misericordia del Signore e nell’avere la pace nel suo cuore. Ciò che può conquistare alla fede è la mitezza e la pace interiore. Sono questi i segni di credibilità del vero missionario. La differenza cristiana consiste nella non reciprocità, nel non chiedere nulla in cambio. Il frate è sempre disponibile al dialogo, pur quando sembra ridursi a un monologo. Egli parla con la sua vita, comunica con il suo silenzio, con gli ardori del cuore, con lo zelo della fede, con la pazienza attiva, con la speranza che il Vangelo sia accolto da tutti. Solamente l’amore per il Vangelo, la passione di fare di Cristo il cuore del mondo, permette di rendere credibile la missione.
In verità, al capitolo XVI della Regola non bollata, Francesco usa altre due metafore per esprimere lo stile francescano dell’annuncio e del dialogo con i saraceni: quella dei serpenti e quella delle colombe. La prima indica l’intelligenza critica, l’astuzia, la prudenza, con la quale si può tentare d’annunciare il Vangelo, evitando pericoli inutili e questioni irrisorie. La secondo richiama alla pace, alla semplicità, per dire che la fede è una possibilità e non una necessità, cioè un dono, un’esperienza della grazia. Non si può imporre la fede né il Vangelo: restano una proposta, un appello urgente.
Francesco sembra avere anticipato di molto i tempi della missione, divenendo profeta per una nuova evangelizzazione che, ai nostri giorni, ha bisogno d’inculturazione, di dialogo sincero. In proposito, scriveva Giovanni Paolo II:
«Col sostegno del carisma dei fondatori e delle fondatrici, molte persone consacrate hanno saputo avvicinarsi alle diverse culture nell’atteggiamento di Gesù che “spogliò se stesso assumendo la condizione di servo” (Fil 2,7) e, con un paziente e audace sforzo di dialogo, hanno stabilito contatti proficui con le genti più varie, a tutte annunciando la via della salvezza. Anche oggi quante di loro sanno cercare e trovare, nella storia delle singole persone e di interi popoli, tracce della presenza di Dio, che guida tutta l’umanità verso il discernimento dei segni della sua volontà redentrice. Tale ricerca si rivela vantaggiosa per le stesse persone consacrate: i valori scoperti nelle diverse civiltà possono spingerli, infatti, ad accrescere il proprio impegno di contemplazione e di preghiera, a praticare più intensamente la condivisione comunitaria e l’ospitalità, a coltivare con maggiore diligenza l’attenzione alla persona e il rispetto per la natura. Per un’autentica inculturazione sono necessari atteggiamenti simili a quelli del Signore, quando si è incarnato ed è venuto, con amore e umiltà, in mezzo a noi. In questo senso la vita consacrata rende le persone particolarmente adatte ad affrontare il complesso travaglio dell’inculturazione, perché le abitua al distacco dalle cose e persino da tanti aspetti della propria cultura. Applicandosi con questi atteggiamenti allo studio e alla comprensione delle culture, i consacrati possono meglio discernere in esse gli autentici valori e il modo in cui accoglierli e perfezionarli con l’aiuto del proprio carisma. Non si deve comunque dimenticare che, in molte antiche culture, l’espressione religiosa è così profondamente integrata, che la religione rappresenta spesso la dimensione trascendente della cultura stessa. In questo caso una vera inculturazione comporta necessariamente un serio e aperto dialogo interreligioso, “che non è in contrapposizione con la missione ad gentes e che non dispensa dall’evangelizzazione”».
Dello stile dialogico di san Francesco, anche papa Benedetto XVI ha sottolineato che, nell’incontro con il sultano d’Egitto, il Poverello andò solamente armato della sua fede e della sua personale mitezza. Dall’amore per Cristo nasce l’amore nei confronti delle persone e anche verso tutte le creature di Dio.
3. Un segno dei tempi: il dialogo
La figura di Francesco incoraggia a confrontarci con le nuove sfide, tra cui quella del dialogo interreligioso e il dialogo con i non credenti (il cortile dei gentili). Il Poverello è mandato da Dio alla sua Chiesa per liberarla dalla paura che il Vangelo non sia vivibile, non sia una realtà da prendere sul serio, per liberarla dal complesso di ritenere che la vita evangelica sia una cosa soltanto per alcuni. Francesco libera la Chiesa del suo tempo dal timore, dal sospetto che il Vangelo non comunichi la vera gioia e che interrompa ogni dialogo con l’uomo e il suo mondo. È proprio sui temi del dialogo e della nuova evangelizzazione che la figura di san Francesco ci è consegnata in trasparenza nella sua missione per la Chiesa del suo tempo e per la Chiesa di ogni tempo.
Il dialogo tra le religioni è un segno dei tempi che la Chiesa cattolica ha accolto come dono del Signore a partire dal rinnovamento avviato con la celebrazione e la recezione del Vaticano II (1962-1965). La vicinanza dei mondi e dei popoli ha reso il dialogo tra la Chiesa cattolica e le altre religioni una vera e propria necessità. Esso, infatti, è atteso per evitare lo scontro di civiltà e per camminare insieme agli uomini e alle donne di buona volontà che credono in Dio. Da questo dialogo può nascere una nuova fraternità universale, riconciliata.
Il dialogo rientra a pieno titolo nella missione di evangelizzazione della Chiesa cattolica e favorisce il rafforzamento della propria identità perché non cede ad alcuna forma di sincretismo e di relativismo, bensì favorisce l’incontro tra fedi diverse per la conversione reciproca verso l’unico Dio che è Padre di tutti. Un vero cristiano non può non dialogare perché è la sua stessa fede – natura – che lo orienta all’incontro con gli uomini e le donne del proprio tempo, come anche al confronto sereno con il mondo, le culture, le fedi e le esperienze spirituali, filosofiche e culturali che ogni cercatore di Dio – o anche di senso – vive giorno per giorno nella sua storia di credente e di persona aperta al mistero e al trascendente.
D’altronde, Gesù stesso è la Parola che si è fatta carne, il Logos eterno che è venuto in mezzo a noi per rivelarci il volto del Padre. Egli resta “per sempre” Parola fatta carne, Figlio di Dio, Dio-Figlio, rivolto verso il Padre e verso di noi. Lo stile dialogico del cristiano esprime la sua stessa spiritualità e ne testimonia la fede radicata nella morte e risurrezione di Gesù Cristo.
4. La dichiarazione conciliare Nostra aetate
La dichiarazione conciliare Nostra aetate (28-10-1965) costituisce una sorta di magna charta per la comprensione del dialogo della Chiesa cattolica con le altre tradizioni religiose. In verità, questo documento nasce proprio come frutto dell’azione dello Spirito Santo: si pensò, all’inizio della sua redazione, di dedicare un paragrafo, all’interno del decreto sull’ecumenismo, alla discussione circa il rapporto tra Chiesa cattolica ed ebraismo, liberando il cattolicesimo dall’accusa di antisemitismo. In seguito a continue verifiche e modifiche, si pensò poi di preparare un testo attento al dialogo tra la Chiesa cattolica e tutte le religioni. Diviso in appena cinque paragrafi, i padri conciliari presentarono un testo che motivasse il dialogo tra la Chiesa cattolica e le altre religioni a partire dall’unico progetto salvifico di Dio e dall’unico fine della storia dell’umanità.
All’origine del dialogo tra le religioni si pone, quindi, sia la volontà di Dio di salvare ogni uomo, sia il fine ultimo della storia. Il dialogo nasce come dovere di promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, perché i vari popoli costituiscono una sola comunità: hanno una stessa origine e hanno come fine ultimo Dio (cf. NA 1).
Il paragrafo 2 di Nostra aetate afferma che «La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo» nelle religioni. «Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini». Si riconosce l’azione della grazia di Cristo e dello Spirito Santo in ogni tradizione religiosa, così come in ogni essere umano che agisce secondo coscienza e cerca il bene.
Il n. 3 di Nostra aetate considera i musulmani: la Chiesa cattolica guarda «con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come vi si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta; onorano la sua madre vergine, Maria, e talvolta pure la invocano con devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio, quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati. Così pure hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio, soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno».
Il n. 4 di Nostra aetate è dedicato alla religione ebraica e mette in evidenza come la Chiesa e la stessa missione di Gesù e degli apostoli sono radicate nella tradizione ebraica, a partire cioè dall’alleanza mai revocata che Dio stipulò gratuitamente con il popolo eletto, Israele, attraverso il patto con Abramo e Mosè. Così si tiene conto del grande patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei e si vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo. (Lumen Gentium n. 16)
Il n. 5 di Nostra aetate contiene una riflessione sulla fraternità universale: «Non possiamo invocare Dio come Padre di tutti gli uomini, se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati ad immagine di Dio […]. La Chiesa esecra, come contraria alla volontà di Cristo, qualsiasi discriminazione tra gli uomini e persecuzione perpetrata per motivi di razza e di colore, di condizione sociale o di religione». Ufficialmente, i padri conciliari non hanno riconosciuto il valore salvifico delle altre religioni. Il loro interesse fu soprattutto quello di intessere relazioni fraterne con gli esponenti delle altre religioni. Si esortò ciascuno a superare le divisioni e a promuovere relazioni amichevoli. Prevale una prospettiva pastorale rispetto a un intento dottrinale o speculativo.
5. Le forme del dialogo e le finalità
A partire dal rinnovamento conciliare, molti sono stati i documenti del magistero e le ricerche teologiche circa la possibilità di definire l’identità e i contenuti del dialogo tra le religioni. Innanzitutto si può parlare di un dialogo ad intra e di un dialogo ad extra.
Ad intra, la Chiesa cattolica ha cercato di ridefinire la propria identità, natura e missione alla luce delle nuove istanze sociali, storiche, politiche, culturali e mondiali. Da qui l’ecumenismo e la rilettura trinitaria dell’essere Chiesa secondo la costituzione dogmatica Lumen gentium. Per cui, la Chiesa, essendo comunione, trova la radice del dialogo nell’amore trinitario.
Ad extra, la Chiesa cattolica ha provato a dialogare con il mondo e le attese dell’umanità del terzo millennio. Il dialogo interreligioso rientra tra queste sfide della post-modernità. Paolo VI affermò che la Chiesa si fa colloquio, dialogo, per portare Cristo al mondo.
Senza la pretesa di offrire un trattato sul dialogo o sul metodo dialogico, l’enciclica Ecclesiam suam (6-8-1964) volle disporre gli animi a uno “stile dialogico” sulla scia del Vaticano II. Paolo VI affermò che la storia della salvezza è la storia di un dialogo continuo di Dio con l’umanità. Il ruolo-missione della Chiesa cattolica è quello di prolungare tale dialogo. Tracciando tre cerchi concentrici, e partendo da più lontano, il papa distinse, nell’ordine: il dialogo della Chiesa con il mondo intero; con i membri delle altre religioni; con le altre Chiese cristiane; e, infine, nel cerchio più interno, il dialogo all’interno della Chiesa cattolica. Il secondo cerchio è quello degli uomini innanzitutto che adorano il Dio unico e sommo, quale anche noi adoriamo, e non include soltanto gli ebrei e i musulmani, ma anche i fedeli delle grandi religioni afro-asiatici. Pur presentando il cristianesimo come la vera religione, Paolo VI riconosce l’importanza dei valori spirituali e morali delle varie confessioni religiose.
Un grande contributo al dialogo tra le religioni fu dato dal pontificato di Giovanni Paolo II. La Nostra aetate aveva posto alla base di una concezione cristiana del rapporto della Chiesa cattolica con le religioni mondiali una duplice comunanza esistente fra tutte le persone e tutti i popoli: da un lato la comune origine da Dio; dall’altro, il comune destino in Dio, conformemente al disegno divino di salvezza per l’umanità. Il contributo più originale di Giovanni Paolo II si ebbe sia con la lettera enciclica Redemptor hominis (4-3-1979), ove il papa affermò che lo Spirito di verità opera in ogni ferma credenza dei seguaci delle religioni non cristiane (cf. n. 6) e che lo Spirito soffia dove vuole (cf. n. 12), sia nel messaggio agli abitanti dell’Asia (Manila, 21-2-1981) – ove riconobbe l’azione dello Spirito in ogni uomo che prega (principio richiamato nella lettera enciclica Dominum et vivificantem [18-5-1986], cf. n. 53) –, sia nella lettera enciclica Redemptoris missio (7-12-1990). Quest’ultimo documento, prezioso per il dialogo tra le religioni, afferma che il dialogo non vuole sostituire la missione della Chiesa ma è una parte essenziale dell’annuncio cristiano (cf. nn. 10-28). Lo “spirito di Assisi” vedrà la luce in seguito all’iniziativa di Giovanni Paolo II di riunire tutti i leader mondiali delle religioni ad Assisi per la preghiera per la pace.
Il contributo proprio di Benedetto XVI è stato quello di mettere in evidenza la collaborazione tra le religioni per il rispetto della libertà religiosa e per il riconoscimento dell’ordine divino. “Dialogare” significa, per Benedetto XVI, salvaguardare anzitutto la propria identità, senza cadere in alcuna forma di relativismo. Delle religioni, papa Benedetto ha evidenziato anche la loro dimensione pubblica e, quindi, il grande valore che esse possono offrire per il superamento di conflitti, il ripristino della pace e della giustizia tra popoli, nazioni, società e culture.
Facendo sintesi dei molti documenti sul dialogo tra le religioni, possiamo dire che si distinguono tre forme essenziali del dialogo: della vita, delle opere, tra esperti. Sono tre aspetti molto importanti che vanno sempre integrati. Gli incontri accademici non possono apparire credibili senza il confronto concreto con il vissuto di comunità religiose che provano a dialogare assieme.
6. Alcune dinamiche del dialogo
Il confronto con le altre religioni avviene non senza difficoltà. Come bisogna procedere? Anzitutto, permettendo all’altro di rivelarsi, cioè di comunicarsi, secondo le proprie caratteristiche. Quindi, il dialogo nasce dall’ascolto sincero e umile dell’altro. Poi è necessario vincere ogni forma di pregiudizio e di paura. Diversamente, si crea un forte disturbo nella comunicazione. Nel dialogo, inoltre, non bisogna rinunciare alla propria identità. Anzi, la propria fede sarà il punto di partenza.
Dal dialogo sincero con l’altro può nascere sempre qualcosa di buono e di spirituale. Per quanto concerne l’aspetto dogmatico del dialogo con le altre religioni, ogni cristiano deve tutelare questi principi teologici: Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi; Cristo è l’unico mediatore della salvezza; la Chiesa è per sua natura missionaria; lo Spirito Santo agisce in ogni uomo e donna di buona volontà. È bene evitare l’espressione: “religioni non cristiane”. Non si può, infatti, definire l’altro a partire dalla propria identità. Occorre che sia l’altro a definirsi per quello che è. In tal senso, è da evitare l’espressione “religioni non cristiane”: non si può definire l’altro a partire dalla nostra identità!
Nelle discussioni teologiche, sul dialogo tra le religioni, si sono susseguite, dentro e fuori la Chiesa, tre prospettive.
La prima, ecclesiocentrica, o anche esclusivista, tendeva a negare alcun valore alle altre religioni. Oramai questa concezione è superata.
La seconda, cristocentrica o inclusivista, prova a mettere in risalto l’azione di Cristo nelle altre religioni. È una pista ancora seguita che si sviluppa in concezioni particolari.
La terza, teocentrica o pluralista, tende a riconoscere il valore teologico e oggettivo di ogni religione: Dio parla in tanti modi e luoghi. In questa terza concezione, però, non mancano posizioni relativiste e in discordanza con la dottrina cristiana. Cristo, infatti, resta l’unico mediatore tra Dio e l’uomo. Un sano pluralismo religioso, che riconosce l’agire misterioso dello Spirito Santo nelle altre religioni, non può misconoscere il ruolo di Cristo, unico salvatore del mondo.
7. La dimensione spirituale del dialogo
È da salvaguardare anche l’aspetto spirituale del dialogo: ci si incontra tra simili e ci si pone sullo stesso piano, senza alcuna prevaricazione o richiesta di primato. D’altronde, Cristo stesso non ha chiesto nulla in cambio, ma ha donato se stesso. Egli è la Verità, cioè quella forma storica che l’Amore si è data nel tempo. Questa Verità orienta e sostiene il dialogo ma non sottomette a sé nessuno. La Verità non s’impone, bensì si rivela e si testimonia. Noi siamo posseduti da questa Verità e non possiamo non testimoniarla, consapevoli che la nostra stessa testimonianza può svilire la forza della Verità. Il cristiano che desidera entrare in contatto e stabilire una collaborazione con altri credenti deve cercare prima di tutto di convertirsi a Dio. In questo contesto la conversione a Dio è intesa come apertura all’azione dello Spirito Santo all’interno di se stessi, cercando in maniera positiva di discernere la volontà di Dio, e la prontezza a compiere questa volontà quando è conosciuta. Il cristiano è consapevole che ciascuno è destinato a cercare la volontà di Dio e a obbedirle quando questa sia resa manifesta da una coscienza consapevole. Ciascuno può, e deve, fare progressi nell’impegno di cercare e compiere la volontà di Dio. Quindi, più i partners in dialogo “cercano il volto di Dio” (cf. Sal 27,8), più vicino essi saranno gli uni agli altri e più possibilità avranno di comprendersi. Si può, dunque, vedere che il dialogo interreligioso è un’attività profondamente religiosa.
È necessario, però, assumere un atteggiamento umile, sincero, discreto, quando ci confrontiamo con gli altri. La reciprocità è auspicabile, ben accetta, ma non condizione necessaria per il dialogo in senso cristiano: perché Cristo è morto per tutti, donando se stesso per i nemici, perdonando i suoi stessi carnefici. È anche vero, però, che dalla reciprocità può nascere la comunione o anche un’esperienza concreta di fraternità fondata su relazioni autentiche. La tensione alla comunione o al riconoscimento reciproco, tuttavia, non deve venire meno quando la reciprocità è soffocata o negata. Ecco perché è importante la dimensione spirituale del dialogo: chi ha incontrato Cristo non può non donarsi ai fratelli pienamente. Ricordiamo che la forma più alta del dialogo è il silenzio: si accoglie l’altro rispettandolo nella sua diversità senza pretendere nulla.
La forma perfetta del dialogo è il martirio, il dono di sé per la salvezza dell’altro: Cristo, infatti, sulla croce si è fatto puro silenzio, rendendosi in tutto simile al Padre. Anche san Francesco, il Poverello, quando si recò in Medio Oriente non volle portare con sé nessuna verità o dottrina, ma semplicemente il suo amore per Cristo, quel dono di pace e di riconciliazione che aveva provato per se stesso, per i suoi fratelli, per i tanti peccatori e smarriti di cuore che Dio aveva posto sul suo cammino. San Francesco era un uomo riconciliato con sé, con i fratelli e con Dio; un uomo pacificato che pacificava, facendo proprio lo stato di vita dell’essere creatura innanzi al Creatore.
La santità è via al dialogo: chi ha paura del confronto con l’altro non ha ancora maturato la propria esperienza di fede e di conoscenza viva con il Signore. Fedeltà alla propria tradizione, apertura coraggiosa alla diversità e rigetto di ogni forma di violenza in nome della religione, che significa l’esigenza di coniugare la fede con la ragione, sono le basi di un dialogo autentico nel quale i cristiani sono chiamati a offrire in maniera credibile la loro collaborazione a tutti coloro che si sforzano di fare di questa terra un luogo dove vivere insieme è un bene.
Quale atteggiamento intimo della mente e del cuore, la spiritualità comporta un’esaltazione dell’uomo interiore e produce una intima trasformazione dell’essere. Lo aveva ben capito il Poverello che non provò a cambiare gli altri, bensì se stesso. L’accento sulla natura spirituale dell’uomo è un accento posto sulla sublime dignità di ogni persona umana. La spiritualità insegna che nel cuore di tutte le apparenze esteriori c’è quell’intima essenza che in tanti modi è legata all’infinito. Questa spiritualità dell’interiorità che è tanto predominante nella tradizione religiosa indiana quanto nel cristianesimo, ha il suo complemento e adempimento nella vita esteriore dell’uomo.
La spiritualità che anima e sostiene il dialogo interreligioso è quella vissuta in fede, speranza e carità. Vi è la fede in Dio, che è Creatore e Padre dell’umanità intera, che abita in una luce inaccessibile e nel cui mistero la mente umana non è in grado di penetrare. La speranza caratterizza un dialogo che non pretende di vedere risultati immediati, ma si tiene saldo al credere che «il dialogo è un cammino verso il Regno e che certamente porterà frutti, anche se il tempo e le stagioni sono conosciute solo dal Padre (cf. At 1,7)». La carità che proviene da Dio, e che ci viene comunicata dallo Spirito Santo, spinge il cristiano a condividere l’amore di Dio con altri credenti in maniera gratuita. Il cristiano è quindi convinto che l’attività interreligiosa sgorga dal cuore della fede cristiana.
8. Lo “spirito di Assisi”
Nel viaggio di Giovanni Paolo II ad Assisi – e in quelli successivi di Benedetto XVI – abbiamo la conferma della volontà della Chiesa di riconoscere le verità che sono contenute nelle tradizioni religiose più diverse. Tale riconoscimento rende possibile il vero dialogo. L’approccio della Chiesa ad altre religioni è fatto di autentico rispetto; con esse cerca reciproca collaborazione. Questo rispetto è duplice: rispetto per l’uomo nella sua ricerca di risposte alle domande più profonde della sua vita, e rispetto per l’azione dello Spirito nell’uomo.
«Il frutto del dialogo è l’unione tra gli uomini e l’unione degli uomini con Dio, che è fonte e rivelazione di tutta la verità e il cui Spirito guida gli uomini alla libertà solo quando questi si fanno incontro l’uno all’altro in tutta onestà e amore. Attraverso il dialogo facciamo in modo che Dio sia presente in mezzo a noi; poiché mentre ci apriamo l’un l’altro nel dialogo, ci apriamo anche a Dio. Dovremmo usare i mezzi legittimi della umana benevolenza, della comprensione reciproca e della persuasione interiore. Dovremmo rispettare i diritti personali e civili dell’individuo. Come seguaci di diverse religioni dovremmo unirci insieme nella promozione e nella difesa degli ideali comuni nei campi della libertà religiosa, della fraternità umana, dell’educazione, della cultura, del benessere sociale e dell’ordine civile. Il dialogo e la collaborazione sono possibili in tutti questi grandi progetti […]. In questo modo Dio sarà onorato e la famiglia umana sperimenterà sempre più pienamente la sua unicità e il suo comune destino. I popoli sentiranno l’urgenza di una solidarietà globale di fronte alle enormi sfide che l’umanità deve affrontare. La saggezza e la forza che provengono dall’impegno religioso umanizzeranno ulteriormente il cammino dell’uomo attraverso la storia».
Questo discorso di Giovanni Paolo II, tenuto nel suo viaggio apostolico in India, ben sintetizza il significato dello “spirito di Assisi”; fu presentato circa sette mesi prima dell’incontro ad Assisi con i rappresentanti delle Chiese cristiane e comunità ecclesiali e delle religioni mondiali nella Piazza inferiore della Basilica di S. Francesco d’Assisi il 27 ottobre 1986.
Alla luce dello “spirito di Assisi”, è indispensabile formare le comunità cristiane a dialogare nella verità e con umiltà, senza approssimazioni o improvvisazioni. Il dialogo, in questo senso, può rafforzare la propria identità e aprire le nostre comunità a un’esperienza di fraternità veramente evangelica e universale. Occorre, altresì, educare le comunità a comprendere che il dialogo è parte integrante della missione della Chiesa e che il confronto con le altre religioni non intende assolutamente sostituire l’annuncio del Vangelo. Il dialogo porta alla conversione reciproca dei partner verso l’unico Dio, Padre di tutti.
Il 27 ottobre 2011, Benedetto XVI incontrò, ad Assisi, i diversi leader delle religioni e, insieme ad essi, ha approfondito il tema dello “spirito di Assisi”, facendo memoria delle diverse giornate di preghiera per la pace che ebbero come testimone e profeta Giovanni Paolo II, un gigante della storia del Novecento. All’ombra della Basilica di S. Francesco, là dove si sono conclusi anche i precedenti raduni, si è tenuto il momento finale della giornata, con la rinnovazione solenne del comune impegno per la pace. In preparazione alla Giornata, Benedetto XVI presiedette in S. Pietro, la sera precedente, una veglia di preghiera, con i fedeli della Diocesi di Roma.
Per essere «costruttori di fraternità e di pace», è necessario «parlare e dialogare con tutti», credenti o non credenti, «senza rinunciare alla propria identità o indulgere a forme di sincretismo». Così, nel comunicato diffuso dalla sala stampa vaticana, furono spiegati i principi dell’incontro interreligioso di preghiera per la pace che Benedetto XVI convocò per il 27 ottobre 2011, ad Assisi, a 25 anni da quello voluto da Giovanni Paolo II. Si risponde indirettamente, a quanti – nelle file più tradizionaliste del mondo cattolico – sostengono che persone di fedi diversi non posso pregare insieme.
La Giornata ebbe come tema Pellegrini della verità, pellegrini della pace. Ogni persona umana è, in fondo, un pellegrino dell’Assoluto, in ricerca della verità e del bene. Anche l’uomo religioso rimane sempre in cammino verso Dio: da qui nasce la possibilità, anzi la necessità, di parlare e dialogare con tutti. Nella misura in cui il pellegrinaggio della verità è vissuto autenticamente, esso apre al dialogo con l’altro, non esclude nessuno e impegna tutti ad essere costruttori di fraternità e di pace. Per questo motivo, sono invitate a condividere il cammino dei rappresentanti delle comunità cristiane e delle principali tradizioni religiose anche alcune personalità del mondo della cultura e della scienza che, pur non professandosi religiose, si sentono sulla strada della ricerca della verità e avvertono la comune responsabilità per la causa della giustizia e della pace in questo nostro mondo. D’altronde, chi è in cammino verso Dio non può non trasmettere pace, chi costruisce pace non può non avvicinarsi a Dio.
L’immagine del pellegrinaggio riassume il senso dell’evento che si è celebrato: si è fatto memoria delle tappe percorse, dal primo incontro di Assisi, a quello successivo del gennaio 2002 e, al tempo stesso, si è volto lo sguardo al futuro, con il proposito di continuare, con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, a camminare sulla via del dialogo e della fraternità, nel contesto di un mondo in rapida trasformazione. San Francesco, povero e umile, ha accolto di nuovo tutti nella sua città, divenuta simbolo di fraternità e di pace. Egli stesso, d’altronde, si è sempre percepito come pellegrino e forestiero in questo mondo e, animato dalla misericordia di Dio e dall’amore per Cristo, s’incamminò per le strade dell’Oriente, in Egitto, per incontrare il Sultano e divenire suo amico.
Questo nuovo incontro ha dimostrato come la pace sia possibile e il dialogo una via concreta per la costruzione di una fraternità universale, dove le diversità e le alterità si affermano come risorsa e non quale ostacolo all’incontro tra popoli, culture e religioni. Lo “spirito di Assisi” è contro ogni forma di violenza religiosa e di fondamentalismo, ma anche di sincretismo.
Papa Francesco, all’inizio del suo pontificato, ha richiamato l’importanza del dialogo interreligioso per la Chiesa oggi e anche del contributo specifico di san Francesco d’Assisi, soprattutto per il tema della pace e per la salvaguardia del creato.
Alla luce dello “spirito di Assisi” possiamo affermare, senza sbagliare, che c’è un’autentica esperienza di Dio lì dove avviene la trasformazione interiore dell’uomo. Dunque, religione è, come affermava Gandhi, «quella che cambia la vera natura di ciascuno, quella che lega indissolubilmente alla verità interiore e che sempre purifica. È l’elemento permanente della natura umana, che non richiede uno sforzo troppo grande per trovare una piena espressione e che lascia l’anima completamente insoddisfatta fino a che non ha trovato se stessa, conosciuto il suo Creatore e apprezzato la vera corrispondenza tra il Creatore ed essa stessa».
9. Qual è il contributo delle religioni?
Benedetto XVI, in occasione della 44ª Giornata mondiale per la pace, si è soffermato sulla libertà religiosa come via per la pace. Nella libertà religiosa «trova espressione la specificità della persona umana, che per essa può ordinare la propria vita personale e sociale a Dio, alla cui luce si comprendono pienamente l’identità, il senso e il fine della persona. Negare o limitare in maniera arbitraria tale libertà significa coltivare una visione riduttiva della persona umana; oscurare il ruolo pubblico della religione significa generare una società ingiusta, poiché non proporzionata alla vera natura della persona umana; ciò significa rendere impossibile l’affermazione di una pace autentica e duratura di tutta la famiglia umana» (Messaggio, n. 1).
Il diritto alla libertà religiosa è radicato nella stessa dignità della persona umana, la cui natura trascendente non deve essere ignorata o trascurata. Senza il riconoscimento del proprio essere spirituale, senza l’apertura al trascendente, la persona umana si ripiega su se stessa, non riesce a trovare risposte agli interrogativi del suo cuore circa il senso della vita e a conquistare valori e principi etici duraturi, e non riesce nemmeno a sperimentare un’autentica libertà e a sviluppare una società giusta. In tal senso, la libertà religiosa è anche un’acquisizione di civiltà politica e giuridica. Dunque, è un bene essenziale: ogni persona deve poter esercitare liberamente il diritto di professare e di manifestare, individualmente o comunitariamente, la propria religione o la propria fede, sia in pubblico che in privato, nell’insegnamento, nelle pratiche, nelle pubblicazioni, nel culto e nell’osservanza dei riti. La libertà religiosa non è patrimonio esclusivo dei credenti, ma dell’intera famiglia dei popoli della terra e, come ogni libertà, pur muovendo dalla sfera personale, si realizza nella relazione con gli altri. Una libertà senza relazione non è libertà compiuta.
La storia di Francesco d’Assisi e del Sultano d’Egitto, come anche di tanti altri profeti del dialogo, sembra dirci che il mondo ha bisogno di Dio. Ha bisogno di valori etici e spirituali, universali e condivisi, e la religione può offrire un contributo prezioso nella loro ricerca, per la costruzione di un ordine sociale giusto e pacifico, a livello nazionale e internazionale. Dunque, il dialogo non è un’utopia come le altre, né uno strumento diplomatico, bensì la via per divenire costruttori di pace e di fraternità…
Nel mondo complesso che abbiamo costruito, tutto si coniuga al plurale, comprese la cultura e la religione. Due grandi ostacoli condizionano la testimonianza dei credenti: la crisi dell’intelligenza e la difficoltà nella trasmissione dei valori. In tal senso, il dialogo tra le religioni rappresenta un’utopia originalissima perché è un bene e una profezia che si pongono davanti a noi, fino a quando l’unità dei popoli non si aprirà al senso di una fratellanza universale, così come auspicava san Francesco; ma è, altresì, una risorsa, perché, attraverso l’esperienza della fede, ogni persona credente lavora ininterrottamente per l’affermazione della giustizia e della pace.
È da ricordare che, tutte le religioni, considerano la famiglia come ambito nel quale si apprende a vivere insieme, e che la terra d’origine è il luogo che plasma la nostra identità, e ancora che l’educazione non è un semplice fattore di conoscenza, bensì un’esperienza di vita attraverso la quale si trasmettono i valori fondamentali dell’esistenza. In ultimo, ma non meno importante, tutte le religioni considerano la necessità della vita interiore.
Cf. XIIIª Assemblea Generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, Lineamenta La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana (4-3-2011), nn. 5-6: Il Regno-Documenti 5 (2011) 129-154, qui 134-137.
In proposito, cf. B. Naaman – E. Scognamiglio, Volti dell’islâm post-moderno, Città del Vaticano 2006; Id., Islâm-imân. Verso una comprensione, Padova 2008. Cf. altresì A. Russo – E. Scognamiglio, Vivere insieme nella nuova Europa. Il ruolo delle religioni, Napoli 2006; E. Scognamiglio, Islam, in G. Calabrese e altri (edd.), Dizionario di ecclesiologia, Roma 2010, 747-755; Id., Introduzione al dialogo [Prefazione], in B. Aprile (cur.), Dialogo tra le culture. Ebraismo – Cristianesimo – Islam, Padova 2011, 5-12.
«Inoltre ingiungo per obbedienza ai ministri che chiedano al signor papa uno dei cardinali della santa Chiesa romana, il quale sia governatore, protettore e correttore di questa fraternità»: Rb 12,3 (FF 108). In questo versetto troviamo l’origine dell’istituzione del cardinale protettore dell’Ordine (cf. 2Cel 17,25: FF 612).
È bene rivalutare la figura del cardinale protettore nell’ottica delle risorse, cioè in senso positivo. Di fatto, l’autorità del cardinale protettore fu limitata, nel tempo, a tre casi specifici: quando l’Ordine si allontanasse dall’obbedienza alla Santa Sede; nel caso di abbandono o allontanamento dalla fede cattolica; quando l’Ordine decadesse dall’osservanza della propria Regola. In tal senso, la figura autorevole del cardinale protettore è al servizio della comunione fraterna ed ecclesiale. È il caso proprio in cui l’istituzione garantisce l’affermarsi dinamico e positivo del carisma nella storia e nella vita della Chiesa. Cf. Bullarium Franciscanum VI,505-531.
Rb 12,4: FF 109. Queste parole conclusive della Regola rivelano con semplicità le attese di san Francesco e il suo ideale di vita fraterna che appare anche nel piccolo Testamento di Siena (aprile-maggio 1226) che si può sintetizzare in tre parole: amore fraterno vicendevole, amore alla santa povertà e amore e fedeltà alla Chiesa. Cf. 1Test 1-5: FF 132-135; LegM 14,5: FF 1241.
In proposito, cf. J.M. Powell, The Papacy and the Early Franciscans, in Franciscan Studies 36 (1976) 248-262; P. Etzi, Iuridica franciscana. Percorsi monografici di storia della legislazione dei tre Ordini francescani, Padova 2005, 36-46.
«E allora egli è suddito e sottomesso a tutti gli uomini che sono nel mondo, e non soltanto ai soli uomini, ma anche a tutte le bestie e alle fiere, così che possano fare di lui quello che vogliono, per quanto sarà loro concesso dall’alto dal Signore»: (Salvir 16-18: FF 258). Nelle parole conclusive di questa stupenda lauda affiorano i grandi modelli ai quali si ispira l’obbedienza universale di Francesco: l’eroico martire Giovanni Battista, del quale gli uomini hanno fatto tutto quello che hanno voluto (cf. Mt 17,12), e il Signore Gesù che dice a Pilato: «Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto» (Gv19,11). Il Saluto alle virtù si conclude con l’invito alla missione e al martirio che è la più alta di tutte le obbedienze in cui non ha alcuna parte la carne e il sangue (cf. 2Cel 152: FF 736). Il concetto di obbedienza così come lo intende Francesco è molto diverso da quello di sottomissione presente nel Corano e nella spiritualità e nella teologia islamica. Per il Poverello, il punto di riferimento è il Cristo crocifisso o il Verbo della vita che viene ad abitare in mezzo a noi. È il Cristo povero e umile la fonte della nostra obbedienza. Diversamente, il concetto islamico di obbedienza ha la sua radice nell’onnipotenza e unicità-unità di Dio.
Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale Vita consacrata (25-3-1996), n. 77: EV 15,674 [d’ora in poi VC].
Il capitolo XVII della Regola non bollata è destinato a disciplinare la missione dei predicatori. Vi è un richiamo alla normativa ecclesiale e interna che diventa occasione per un invito appassionato – per tutti i frati – a non appropriarsi del bene che Dio opera in loro e per mezzo loro, e a combattere la prudenza della carne che cerca le apparenze con l’autentico “Spirito del Signore”, che cerca la vita interiore, restituendo ogni bene a Dio, fonte d’ogni bene. Se ne deduce che l’annuncio o missione (ad intra e ad extra) è, innanzitutto, un dono del Signore, un’ispirazione dello Spirito Santo e non un vanto personale, né il frutto delle proprie capacità progettuali e pastorali. Cf. Rnb 17,1-19: FF 46-49.
«Nel 1219, Francesco ottenne il permesso di recarsi a parlare, in Egitto, con il sultano musulmano Melek-el-Kâmel, per predicare anche lì il Vangelo di Gesù. Desidero sottolineare questo episodio della vita di san Francesco, che ha una grande attualità. In un’epoca in cui era in atto uno scontro tra il cristianesimo e l’islam, Francesco, armato volutamente solo della sua fede e della sua mitezza personale, percorse con efficacia la via del dialogo. Le cronache ci parlano di un’accoglienza benevola e cordiale ricevuta dal sultano musulmano. È un modello al quale anche oggi dovrebbero ispirarsi i rapporti tra cristiani e musulmani: promuovere un dialogo nella verità, nel rispetto reciproco e nella mutua comprensione (cf. NA 3). Sembra poi che nel 1220 Francesco abbia visitato la Terra Santa, gettando così un seme, che avrebbe portato molto frutto: i suoi figli spirituali, infatti, fecero dei luoghi in cui visse Gesù un ambito privilegiato della loro missione. Con gratitudine penso oggi ai grandi meriti della Custodia francescana di Terra Santa»: (Benedetto XVI, Discorso [27-1-2010]).
Per questa parte, cf. i nostri studi approfonditi: Il volto di Dio nelle religioni. Approccio storico-critico, narrativo e simbolico, Milano 2001; Dia-Logos. I. Prospettive. Verso una pedagogia del dialogo, Cinisello Balsamo (Milano) 2009; Dia-Logos. II. Orientamenti. Per una teologia del dialogo, Cinisello Balsamo (Milano) 2012; Homo religiosus et symbolicus. Breve introduzione alla storia delle religioni, Leumann (Torino) 2012.
Per i documenti, cf. almeno Segretariato per i non cristiani, Documento L’atteggiamento della Chiesa di fronte ai seguaci di altre religioni. Riflessioni e orientamenti su dialogo e missione (4-9-1984): EV 9,988-1031; Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso – Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, Istruzione Dialogo e annuncio: riflessioni e orientamenti sul dialogo interreligioso e l’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo (19-5-1991): EV 13,287-386; Commissione Teologica Internazionale, Documento Il cristianesimo e le religioni, in Il Regno-Documenti 3 (1997) 75-89; Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso, Lettera Though there have [La spiritualità del dialogo] (3-3-1999): EV 18,248-261; Congregazione per la dottrina della fede, Dichiarazione Dominus Iesus. Circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa (6-8-2000): EV 19,1142-1199.
Il documento Dialogo e missione, al n. 17, propone due modelli per il dialogo interreligioso: Francesco d’Assisi, che invia i suoi frati “in mezzo” ai musulmani, per testimoniare più che per predicare; Charles de Foucauld, che diviene il fratello universale. Cf. Segretariato per i non cristiani, Documento L’atteggiamento della Chiesa di fronte ai seguaci di altre religioni. Riflessioni e orientamenti su dialogo e missione (4-9-1984), n. 17: EV 9,1004.
Giovanni Paolo II, Discorso ai rappresentanti delle varie religioni dell’India [Madras, 5 febbraio 1986], nn. 5-6: Insegnamenti IX [1986] 319-324.
Su questo aspetto, cf. il nostro contributo Di coloro che vanno tra i saraceni e tra gli altri infedeli. In missione per il mondo, in P. Maranesi – F. Accrocca (curr.), La Regola di frate Francesco. Eredità e sfida, Padova 2012, 589-620.
«La Chiesa cattolica è consapevole dell’importanza che ha la promozione dell’amicizia e del rispetto tra uomini e donne di diverse tradizioni religiose – questo voglio ripeterlo: promozione dell’amicizia e del rispetto tra uomini e donne di diverse tradizioni religiose – lo attesta anche il prezioso lavoro che svolge il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Essa è ugualmente consapevole della responsabilità che tutti portiamo verso questo nostro mondo, verso l’intero creato, che dobbiamo amare e custodire. E noi possiamo fare molto per il bene di chi è più povero, di chi è debole e di chi soffre, per favorire la giustizia, per promuovere la riconciliazione, per costruire la pace. Ma, soprattutto, dobbiamo tenere viva nel mondo la sete dell’assoluto, non permettendo che prevalga una visione della persona umana ad una sola dimensione, secondo cui l’uomo si riduce a ciò che produce e a ciò che consuma: è questa una delle insidie più pericolose per il nostro tempo. Sappiamo quanta violenza abbia prodotto nella storia recente il tentativo di eliminare Dio e il divino dall’orizzonte dell’umanità, e avvertiamo il valore di testimoniare nelle nostre società l’originaria apertura alla trascendenza che è insita nel cuore dell’uomo. In ciò, sentiamo vicini anche tutti quegli uomini e donne che, pur non riconoscendosi appartenenti ad alcuna tradizione religiosa, si sentono tuttavia in ricerca della verità, della bontà e della bellezza, questa verità, bontà e bellezza di Dio, e che sono nostri preziosi alleati nell’impegno a difesa della dignità dell’uomo, nella costruzione di una convivenza pacifica fra i popoli e nel custodire con cura il creato»: (Papa Francesco, Discorso [20-3-2013]).
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