Semplicemente fratelli!
L’incontro tra papa Francesco e Benedetto XVI
Che cosa si saranno mai raccontati papa Francesco e Benedetto XVI nello storico incontro di ieri mattina a Castelgandolfo? Il colloquio privato tra i due presuli è durato circa 45 minuti. Benedetto XVI voleva che papa Francesco si sedesse sull’inginocchiatoio d’onore, preparato apposta per lui, ma Bergoglio ha voluto che si sedessero insieme sul medesimo banco a pregare. Già, a pregare. Mentre tutto il mondo freme per conoscere il contenuto di quell’incontro fraterno e “cicaleggia” sull’abbigliamento dei due anziani – in tal senso la curiosità non è donna, bensì semplicemente di noi comuni mortali! -, Francesco e Benedetto XVI si sono fermati a dialogare con Dio, per ritrovarsi assieme anzitutto come credenti e discepoli del Signore. La fede in Cristo è ciò che li unisce se pur nel modo diverso di rapportarsi al mondo e nonostante le differenze dei rispettivi stili di vita. Se è vero, infatti, che Ratzinger è sopratutto il teologo – tra i più quotati del nostro tempo, ma sempre dopo ai grandi pensatori del calibro di Karl Rahner e Han Urs von Balthasar -, e che Bergoglio è anzitutto il pastore delle favelas – ma non più del già papa tedesco e né meno del compianto Giovanni Paolo II, perché anche loro erano sensibili ai bisogni dei poveri -, è altrettanto vero che entrambi sono servi del Signore e, da quanto ha riferito ieri padre Federico Lombardi, si sono detti: «Siamo fratelli».
Bene, è proprio questo che non dobbiamo dimenticare: papa Francesco e Benedetto XVI sono come due fratelli legati per sempre al Signore da un vincolo fortissimo, quello della fede e della carità. Non dobbiamo dimenticarlo, anche se in questo momento è per noi semplicissimo e automatico percepirne le differenze di stile, di linguaggio, di approccio al ministero, del modo stesso di celebrare e di rapportarsi al mondo e alla stessa gerarchia e ai fedeli dell’unica Chiesa cattolica.
Io credo, sinceramente, che il pontificato di Benedetto XVI e quello di papa Francesco ci aiutano a capire che, nel concetto stesso di cattolicità, si nasconde – o meglio è contenuto – il principio stesso della diversità. Mi spiego: la Chiesa cattolica è sempre una Chiesa di Chiese. Ci sono modi di celebrare la fede, di vivere il Vangelo, di rapportarsi al mondo e di dialogare tra i fedeli che cambiano di Paese in Paese, secondo tradizioni ben consolidate nella storia. Ne sono una prova vivente gli stessi riti presenti nella Chiesa cattolica. Il termine “cattolico” è alquanto complesso: contiene in sé tanti significati. E, per sfatare un luogo comune, non significa principalmente “universale”, bensì “unione secondo il tutto”, ossia “unione di fede e di carità”. Anticamente, siamo già nel II secolo d.C., si definiva cattolica quella comunità che, facendo esperienza di comunione (di fede e di carità) celebrava assieme a tutti i fedeli l’Eucaristia attorno al proprio Vescovo. Dunque, papa Francesco e Benedetto XVI esprimono due modi diversi – ma non in contrasto – di essere cattolici. Il primo è l’espressione di una Chiesa maggiormente estroversa – quella dell’America Latina -; il secondo, invece, di una Chiesa sopratutta eurocentrica, alquanto introversa. Tuttavia, entrambi sono fratelli nel Signore e hanno ricevuto un grande ministero: quello di servire Dio attraverso il cammino di unità (di fede e di amore) nella Chiesa di Cristo. Dunque, entrambi sono cattolici, pur esprimendosi con gesti, linguaggi, simboli e approcci diversi.
Fu dal primo giorno della sua elezione al soglio di Pietro che Ratzinger apparve agli occhi del mondo come un uomo timido, una persona introversa, “pensosa”, un umile servo nella vigna del Signore, per niente capace di stare sotto i riflettori della mondanità e dei media, noncurante della comunicazione, al contrario di papa Francesco che si è trovato a suo agio uscendo dalle righe e da ogni sistema di sicurezza e addirittura fermandosi a dire Messa con i netturbini della Santa Sede e permettendosi di telefonare personalmente al ministro generale dei gesuiti senza passare per il centralino telefonico della Santa Sede. Sono due stili diversi che fanno pensare. Da una parte, c’è stato il papa teologo che ha sentito il bisogno di riscoprire i temi della verità e dell’identità cristiana come proprium del suo ministero petrino – di fatti, il tema del relativismo è stato una costante nella produzione teologica e pastorale di Ratzinger, non senza una certa preoccupazione eccessiva (come se dal mondo e dalla modernità non potesse venire nulla di buono per la Chiesa) -; dall’altra, c’è adesso papa Francesco che ha fatto dell’amore e della riconciliazione il suo programma pastorale: miserando atque eligendo. In realtà, questi due approcci al soglio di Pietro e alla missione nella Chiesa si completano. Ratzinger ha continuamente parlato del Logos – anche della ragionevolezza della fede e del primato della Verità che salva – e papa Francesco ha sottolineato, almeno in queste prime uscite, che il fine della Chiesa, del suo stare nel mondo, non è la Verità, bensì l’Amore, cioè il perdono. La Verità, però, se non è il fine delle nostre relazioni, della capacità di dialogare ad intra e ad extra è, comunque, lo strumento per confrontarsi con l’altro, per vivere concretamente e coerentemente la propria fede e i valori stessi del Vangelo.
Io credo che in questo tempo dobbiamo approfondire lo stretto rapporto tra Verità e Amore. La Verità non è una clava che si abbatte sul capo dell’altro, bensì uno strumento utile e importante – anzi indispensabile – per raggiungere il fine di ogni dialogo e tentativo di rapporto con gli altri (e anche con Dio): la riconciliazione, il perdono. Ratzinger ha molto sofferto e faticato per farci comprendere che Cristo è la Verità crocifissa, anche se ha poco sottolineato – se non negli ultimi anni di pontificato – che noi cattolici non siamo la Verità, bensì siamo posseduti da una Verità più grande che è Cristo! C’è da lavorare, oggi, visto che abbiamo un cristianesimo di carta molto solido – di encicliche, documenti del magistero, lettere, discorsi etc… ce ne sono fin troppi -, sul cristianesimo di carne, quello vissuto giorno per giorno da noi tutti discepoli di Gesù Cristo, affinché questa Verità che ci appartiene, che ci libera, che ci sostiene, che è più grande di noi, si è data e si è consegnata nella forma storica di Gesù Cristo, l’Amore del Padre.
Papa Francesco sembra voler lavorare su questo aspetto: la Verità, Cristo, è la forma definitiva che il Figlio, l’Amato del Padre, si è dato nella storia. Questa Verità non s’impone, non ha pretese: si rivela al mondo rendendosi credibile nel nostro vissuto, nell’impegno quotidiano di tutti i credenti in Cristo. Secondo me è in questa direzione che papa Francesco vuole andare. Occorrono, oggi più di ieri, segni concreti di Verità: ossia un agire nella carità che rende credibili e testimonia la vera fede. L’intelligenza della fede, tema preferito da Ratzinger, si completa e si rivela nell’agire agapico – caritatevole – di noi battezzati. Certamente, questi due aspetti si completano: la perfezione della fede – potremmo dire della Verità – è l’amore per il prossimo! In questo momento siamo tentati di soffermarci troppo sulle differenze che esistono tra i due papi: il tedesco formato nella migliore tradizione teologica europea; l’argentino segnato dall’amore per gli ultimi e dall’esperienza delle comunità di base. Ma in realtà vivono lo stesso Vangelo e servono lo stesso Signore Gesù Cristo.
Io credo che dobbiamo comprendere i loro diversi approcci alla fede, alla vita, alla missione della Chiesa, al pontificato, come pure al dialogo con il mondo e con i non credenti e le altre tradizioni religiose a partire dal loro temperamento, dalla loro storia personale di uomini e non solo di credenti. Mi spiego. Se leggiamo con attenzione il primo messaggio di Ratzinger rivolto ai signori cardinali nel lontano 20 aprile 2005, durante la Messa in Cappella Sistina, ci accorgiamo subito del tipo di approccio anche psicologico che il papa tedesco ebbe nei confronti del ministero petrino. Ratzinger provò «un senso di inadeguatezza e di umano turbamento per la responsabilità» che gli fu affidata, quale successore dell’apostolo Pietro nella Sede di Roma e nei confronti della Chiesa universale. Tuttavia, se pur turbato, il papa Benedetto XVI sentì la presenza di Dio e la vicinanza di Giovanni Paolo II.
Lo stile vigoroso di papa Francesco lo si percepisce già dalla sua prima omelia, quella del 14 marzo 2013, tenuta sempre nella Cappella Sistina davanti ai fratelli cardinali. Qui ha usato tre verbi oramai noti a mezzo mondo: “camminare” (perché la nostra vita è un cammino alla presenza del Signore); “edificare” (la Chiesa fatta di pietre vive); “confessare” (Gesù Cristo con la vita senza tornare indietro). Quando salutò i fedeli in piazza S. Pietro dopo la sua elezione proferì un semplice “buona sera”. Ciò significa che ci sono due storie, due vissuti, due spaccati di umanità molto differenti tra di loro ma non in contrasto.
Chissà cosa si saranno detti ieri mattina i due vegliardi: forse si saranno semplicemente abbracciati e parlati come due vecchi amici. Forse avranno pianto e condiviso la stessa ansia per la Chiesa di Cristo. Forse avranno gioito perché uniti dalla stessa fede o, più naturalmente, si saranno guardati negli occhi e, silenziosamente, avranno ringraziato il Signore perché erano lì, perché potevano testimoniare al mondo e a tutti i credenti in Cristo che sono semplicemente fratelli, si, solo questo, semplicemente fratelli! Edoardo Scognamiglio
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