AMORE, BACIO, FUOCO

Paolo Ricca, Amore, Bacio, Fuoco. Le parole di Gesù, Sezione TeologicaMente, Edizioni Magister, Matera 2023, pp. 147, euro 20.

Questo breve saggio si compone di tredici capitoletti che contengono delle riflessioni bibliche, inedite e non, cariche di afflato spirituale e di una profonda saggezza del cuore che mai banalizzano la Parola di Dio, permettendo al Vangelo di toccare concretamente l’esistenza del credente (lettore e scrittore). L’autore, ben noto a un vasto pubblico di esperti in ambito teologico, dottrinale e storico-ecumenico, rilegge per sé e per noi brani delle Scritture mettendo da parte un approccio storico-critico e filologico e lasciando parlare al cuore la Parola stessa, Cristo che si nasconde nelle pagine variopinte dei Vangeli e dello stesso Evangelo. Per ogni riflessione non mancano rimandi biblici e approfondimenti culturali e letterari, ma soprattutto prende il sopravvento la domanda: “Che cosa dice a me oggi questa Parola?”.

Così, si comprende subito che il fuoco che Gesù è venuto a portare sulla Terra (cf. Lc 12,49-59), è il fuoco della conoscenza, ossia dell’esperienza di Dio che solo i piccoli, i bambini, possono fare. È anche il fuoco della santità, ossia il fuoco della totale consacrazione a Dio senza isolarsi dalla vita umana, dalle nostre stesse relazioni terrestri, consapevoli, citando Lutero, che Cristo abita solo tra i peccatori (cf. p. 8). Tuttavia, ricorda l’autore, il fuoco più grande portato da Gesù è, senza dubbio, il fuoco dell’amore. Anzi, la missione di Gesù, il suo ministero terreno, altro non è stato se non un ininterrotto esercizio di amore. È un amore, un fuoco, già accesso prima, già iniziato in cielo (cf. Gv 17,24). Dio ha amato il mondo dal momento in cui l’ha pensato, desiderato e voluto. Quando il mondo non c’era ancora, c’era già il fuoco dell’amore. «Gesù lo ha portato sulla terra» (p. 9). Lo spazio di Dio è lo spazio dell’amore ed è l’amore divino più forte dell’amore che può risuscitare la vita, ogni vita. Certamente, l’amore di Dio che Gesù ha portato sulla Terra è attraversato, segnato, dalla Croce, dalla morte del Venerdì Santo, segno che l’umanità non sopporta una Verità così vera, così grande, come quella di un Dio Crocifisso, ossia quella che Gesù ha incarnato. Sicuramente, la croce di Gesù non si spiega solo a partire dall’odio del mondo: c’è di mezzo anche l’amore di Dio, è l’amore testimoniato dal battessimo che Gesù stesso ha ricevuto. Sulla croce Gesù adempie la giustizia di Dio, la giustizia del peccatore perdonato, la giustizia che nessuno di noi ha ma che si riceve in quella morte del Figlio di Dio. «Ecco dunque la ragione ultima del battesimo della croce: non solo l’ingiustizia del mondo ha drizzato la croce del Golgotha, ma anche la giustizia di Dio, quella che egli dona al peccatore pentito» (p. 12). Questa croce che ora è motivo di divisione, perché Dio si nasconde nell’umanità di Gesù e la Parola si fa silenzio e non è più evidente, diventerà meeting point, il punto d’incontro, dell’intera umanità (cf. Gv 12,32): «Noi vediamo l’innegabile divisione, ma crediamo nell’unità che non si vede» (p. 14).

Il bacio non è solo quello di Giuda (cf. Mt 21,21-22): può essere anche il nostro! Giuda è vicino a Gesù perché condivide con lui lo stesso destino di essere, al tempo stesso, eletto e reietto: Giuda è eletto perché è scelto da Gesù nel gruppo dei Dodici, ed è reietto come “figlio della perdizione” come lo chiama Gesù (cf. Gv 17,12). «Anche Gesù è stato l’eletto reietto: eletto da Dio al momento del battesimo e della trasfigurazione, e al tempo stesso reietto dagli uomini, che lo hanno condannato a morte. Così Giuda e Gesù compiono la stessa esperienza di elezione e reiezione. Ed entrambi muoiono di morte violenta. Certo, sono due morti molto diverse: Giuda uccide se stesso, Gesù è ucciso da altri. Giuda muore come colpevole, Gesù muore come innocente. Giuda muore perché ha voluto la more di Gesù, Gesù muore perché anche Giuda abbia la vita e l’abbia in abbondanza. Le morti sono diverse, ma i morti sono uguali» (p. 16). Il bacio del tradimento, dunque, vuol dire che nessuno dei Dodici è così vicino a Gesù come Giuda. «Quel bacio è il suggello di un amore che tradisce perché si sente tradito, è il suggello di un amore disperato. Il bacio rivela Giuda come amante tradito prima ancora che traditore» (p. 17). Tuttavia, l’amore di Giuda per Gesù, se pur amore contraddittorio e deluso, resta pur sempre amore. «Se Giovanni, come vuole la tradizione, è stato “il discepolo che Gesù amava”, Giuda potrebbe essere stato il discepolo che, sia pure nel modo contraddittorio con il quale no amiamo, ha amato Gesù» (p. 24). Dalla storia di Giuda si ricavano almeno due cose: nessuno, ma proprio nessuno, neppure un apostolo, neppure il più convinto, il più zelante, il più consacrato dei cristiani, è al riparo dalla possibilità di tradire Gesù; tradire significa vendere, fino a diventare lo spaccio di Dio come terribile possibilità (cf. p. 25).

Nella storia dell’adultera perdonata (cf. Gv 8,11), l’autore ritrova l’Evangelo come grazia pura, senza confini e senza condizioni, consapevole che «che cosa poi ne faremo, dipende solo da noi» (p. 35). La donna non è condannata, lo sarà Gesù. La donna non muore lapidata, Gesù sarà innalzato sulla croce anche per lei. L’adultera è l’amica per la quale egli dà la vita. Così la donna è assolta, è libera, è perdonata, è graziata: la sua colpa l’ha presa Gesù, che le conferisce la sua giustizia. «Il racconto dell’adultera è la più limpida illustrazione del perdono di Dio, della grazia senza condizioni» (p. 34).

Interessante la riflessione che segue la domanda di Gesù dopo il discorso sul pane della vita in Gv 6, con le parole a mo’ di riposta messe liberamente nella traduzione sulla bocca di Pietro in Gv 6,68 (con un refuso nel libro a pag. 37 che riporta Giovanni 8,68): «Signore, a chi ce ne andremmo noi? Tu hai parole di vita eterna». La domanda “Ve ne volete andare anche voi?” è sempre attuale perché rivolta a tutti noi oggi. «Ce ne siamo andati! L’Europa e l’Italia se ne sono già andate! L’Europa, e in essa un’Italia, che nella maggioranza della sua popolazione – che nei secoli passati era considerata cristiana – se n’è già andata da tempo: c’è un’appartenenza di tipo sociologico che ha ancora una certa consistenza, ma la fede cristiana si è largamente volatilizzata» (p. 37).  L’autore fa notare che la stessa cosa è successa a Gesù: egli muore in croce tra due ladri e non tra due discepoli. Tutti abbandonano Gesù, sena eccezioni: «da cinquemila siamo passati a Dodici, da Dodici a nessuno» (p. 38). La storia di Gesù è cominciata bene ed è finita male. Finché Gesù sfamava la folla, i cinquemila, distribuendo pani e pesci, o acclamavano e volevano farlo re. Ma quando ha incominciato a parlare di un altro pane, che era lui stesso, e che sazia non il corpo ma l’anima, allora “molti si tirarono indietro, e non andavano più con lui”. «All’inizio Gesù li aveva incantati, alla fine li ha delusi, e lo abbandonano certamente per la paura di finire come lui, ma anche per la delusione di un Messia così totalmente diverso da come se lo erano immaginato» (p. 40). Oggi diventa difficile seguire Gesù e credere in Dio perché ci viene consegnato l’immagine di un Dio troppo invisibile, da ricercare solo nella fede: «Ce ne andiamo perché non vediamo nulla di quello che crediamo. Dentro di noi è cresciuto il sospetto che sia tutto un’illusione. Possiamo persino comprendere coloro che, per il grande desiderio di vedere qualcosa, dicono di aver visto la Madonna (Lourdes, Fatima, Guadalupe, Medjugorje, Civitavecchia, Siracusa e altrove). Molti non ce la fanno a sopportare l’invisibilità. Un motivo dell’abbandono di Gesù da parte della nostra generazione è l’impressione che il mondo non sia governato da Dio, che le redini della storia umana non siano nelle sue mani, che il mondo sia in balìa di se stesso. Anche solo pensando a quello che è successo nel secolo scorso e alle tante terribili tragedie che stanno avvenendo sotto i nostri occhi, il mondo sembra davvero abbandonato a se stesso. Noi abbiamo creduto che Cristo è salito in cielo e siede alla destra di Dio, Padre onnipotente, proprio per assumere il governo del mondo. Ma ci chiediamo: “è proprio così? Cristo sta effettivamente governando il mondo? Dove sono, se non le prove, quanto meno i segni di questo governo?”. Molti non ne vedono e perciò abbandonano la fede nel governo del mondo da parte di Dio. Si tirano indietro e non credono più che, come diceva Gesù, il regno di Dio sia vicino; no, non è vicino, ma sempre più lontano […]. Avremmo degli argomenti per abbandonare Gesù e la Chiesa che porta il suo nome» (pp. 43-44). Gli argomenti per andare via, per lasciare, sono tanti. Tuttavia, uno solo vale per restare: saremo più liberi solo restando con Gesù.

È da questo motivo di fede, restare per Gesù, che nasce il bisogno di lasciarsi cristianizzare da Gesù stesso, non scandalizzandosi del suo insegnamento, del Vangelo, della sua persona che è segno di contraddizione, d’inciampo. Il nodo è proprio la persona di Gesù, la sua storia, la sua vita (cf. pp. 48-51). I dubbi prendono d’assalto tutti noi, come successe anche per il Battista che, forse, dalla prigione, dovette pensare: «Gesù non ha fatto niente per liberarmi» (p. 51). Di fatti, Gesù ha risuscitato il suo amico Lazzaro, ma non mio padre o mia madre; e poi ci sono troppe ingiustizie non riparate, troppe cose in sospeso, troppe attese frustrate, troppe sofferenze non risarcite, troppe infelicità senza spiegazioni, troppe domande senza risposte. Ci sono dei segni, sì, ma sono pochi, insufficienti come prove che Gesù è il Messia. Le sue opere potenti, i miracoli che ha compiuto, sono certamente eccezionali, ma non sono così esclusive come si dice. Il dubbio permane, anche se Gesù continua a ripeterci: “Beato colui che non si scandalizza di me!”. Scandalizzarsi di Gesù o di Dio significa far dipendere la fede dai segni cioè dai prodigi, dai miracoli, anziché dalla persona di Gesù, dimenticando che il Vangelo è paradossale, che Gesù è il paradosso assoluto. Se, da una parte, molti non si scandalizzano più di Gesù, in quanto la sua presenza è ritenuta scontata, come appartenenza culturale, sociale, di tradizione religiosa (uniformando Gesù a noi, addomesticandolo), dall’altra parte, invece, ci viene chiesto di accogliere il Vangelo con fiducia in Gesù, ossia non come un dossier archiviato o una pratica chiusa, bensì come una domanda aperta, una questione vitale. Così, solo chi ancora si scandalizza di lui è beato, è vero discepolo, è in ricerca, è animato da vera fede. La possibilità dello scandalo è una specie di bivio: ci si allontana da questa possibilità per andare o allo scandalo o alla fede. Tuttavia, non si giunge mai alla fede senza passare per la possibilità dello scandalo.

Nella tredicesima riflessione, dedicata al primato di Pietro (pp.135-141) e pronunciata nella Basilica di San Pietro in Roma il 22 novembre 2022, nel quadro di una Lectio Petri, l’autore pone in evidenza il ministero specifico di questo apostolo che, se pur pieno di contraddizioni, impulsivo, è il primo che ha riconosciuto Gesù come il Cristo. «Il Tu es Christus di Pietro è una rivelazione di Dio, non un’intuizione di Pietro! E qui vediamo una cosa importante: Pietro, nel racconto evangelico, è spesso il portavoce dei discepoli; qui, invece, è il portavoce non dei discepoli, ma di Dio. E qui vediamo una seconda cosa, ancora più importante: è Dio il protagonista segreto dell’episodio centrale dell’Evangelo avvenuto a Cesarea di Filippo; non dunque Pietro è il protagonista, e neppure Gesù, ma Dio stesso che, attraverso Pietro, riconosce in Gesù il suo Figlio benedetto» (p. 137). La beatitudine di Pietro è paradossale perché è dichiarato beato non per qualcosa che lui è o fa, ma per qualcosa che Dio fa tramite lui: «Sei beato, Pietro, perché non sei tu che hai capito o intuito, è Dio che te l’ha rivelato» (p. 137). Per noi oggi l’esperienza di Pietro significa che Gesù «ha bisogno di molti “piccoli Pietro” per costruire, o ricostruire, lui, la sua Chiesa» (p. 138). Da qui nasce il bisogno di pensare al primato di Pietro in modo più ecumenico, nell’ambito della diakonia, a servizio dell’unità delle Chiese e non semplicemente dell’unità cattolica. La conversione indispensabile, secondo l’autore, da un papato finora solo cattolico romano a un servizio petrino o a un papato ecumenico è ancora una profezia che sta davanti a noi, cioè tutta da realizzare.

[Edoardo Scognamiglio]

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