‘LE MATRIARCHE’. IL SAGGIO DI CATHERINE CHALIER

Secondo il giudizio di Emmanuel Levinas, lo studio di Catherine Chalier (nata nel 1975) sulle quattro donne che hanno ricoperto il ruolo di costruire la ‘casa di Abramo’ dietro le quinte, ma in modo più incisivo dei patriarchi, realizzando il “non esistere più in sé, ma essere per l’altro, volere la giustizia – anzitutto il diritto del prossimo – che è amore”[1]. La filosofa francese, raccogliendo e sviluppando la lezione di Levinas del ‘femminile’ nell’ebraismo, ridà colore alle storie delle “quattro donne, a questi volti femminili, unici e singolari, vivifica il soffio di queste esistenze in ascolto della voce che le convoca a divenire le madri di Israele”[2]. L’Autrice dimostra, con il riferimento alle fonti bibliche e alla Tradizione ebraica, che le quattro matriarche hanno infranto lo schema del femminile funzionale solo all’intimità della famiglia, ma sono state protagoniste del ‘di fuori’, delle strade, dei crocicchi, affrontando come i patriarchi pericoli e sofferenze, lo sradicamento dal loro vissuto[3].

SARA – Secondo la tradizione ebraica la bellezza di Sara era incomparabile (cf. Gn 12,11), che non si alterò mai con il passare degli anni, segno della realtà inafferrabile da cui era abitata. Secondo la tradizione ebraica, come osserva l’Autrice, “Sara mostra così, nell’eterno presente della sua bellezza, l’immagine della Presenza che seppe accogliere e che, secondo lo Zohar, la protesse dagli attacchi del tempo e degli uomini”[4]. Abramo percepì tardivamente l’eccezionale bellezza e ne restò spaventato, perché la sua incolumità sarebbe stata a rischio, in quanto avrebbero cercato di ucciderlo per impossessarsi della sua donna: “Da qui l’idea del doppio stratagemma: chiudere Sara dentro una cassa, il tempo necessario per entrare in incognito in Egitto, e presentarla come sua sorella quando il paese fosse stato irradiato dalla sovrana forza della sua bellezza”[5]. Abramo non impone a Sara i suoi espedienti per salvarsi, ma si rivolge a lei con la preghiera. Sara gli obbedisce, perché la sua esistenza non è concentrata su se stessa – puntualizza la filosofa francese – ma è proiettata verso l’accoglienza dell’alterità. L’episodio non è forse espressione – si chiede la Chalier – della mentalità patriarcale del tempo secondo cui un uomo, per salvare se stesso offre il corpo della propria donna? Secondo  la tradizione ebraica, Abramo sapeva che Sara era abitata dalla Presenza (di Dio), che non avrebbe permesso che le accadesse del male. “Il Midrash aggiunge che, da allora, Abramo divenne subordinato a sua moglie”[6]. Nell’episodio del Faraone è Sara che rischia e affronta una grande sofferenza come rinuncia alla propria integrità: “Come se lui contasse più di lei, se la sua vita avesse priorità sulla propria. Sara accetta di ascoltarne l’appello come un imperativo al quale non può sottrarsi”[7]. Secondo la filosofa ebrea riprendendo Levinas, Sara manifesta la femminilità come cura per l’altro, non concentrata su se stessa, senso etico dell’incontro e del dialogo, anche se asimmetrico, tra il medesimo e l’altro, cioè la fraternità[8]. Sara non entra direttamente nel dialogo tra Dio e Abramo, ma la sua abnegazione per il bene di Abramo rivela che lei ha colto il vero senso di tale dialogo: non essere per se stessi ma per l’altro.  

Per la Bibbia la donna è in funzione della maternità, della posterità che deve assicurare. La donna sterile era disprezzata ed emarginata, anche se spesso prediletta dal marito. Sara, per sfuggire a questa umiliazione, decide di diventare madre tramite la sua schiava Hagar; dopo la maternità, però, deride la sua padrona, e Sara si vede costretta a mandarla via. Questa è la prova di Sara, analoga a quella di Abramo che culmina con l’aqedah (legatura) di Isacco, anche se i saggi – osserva Chalier – non si soffermano su questo aspetto. Sara è benedetta da Dio perché, nonostante la sua età avanzata, diventa madre. Dinanzi all’annuncio della maternità i saggi sottolineano il riso scettico di Sara, a differenza della fede di Abramo che pure aveva riso[9]. La filosofa francese osserva in merito: “A causa di questo riso – della sua provocazione? – per la prima volta Dio si rivolge a Sara, a una donna, come nota il Midrash. Era davvero di scherno questo riso che induce Dio a parlare? E se all’improvviso Sara s’impaurisce e pretende di non aver riso, sarebbe forse per conservare, malgrado tutto, a dispetto dell’evidenza della sua vecchiaia, la speranza della felicità intravista? Di un tempo aperto all’infinito di un figlio, delle generazioni promesse tramite lui”[10].  Anche dopo la nascita del figlio Isacco, Sara, per la sua generosità, non indulge alla possessività, ma riconosce di aver ricevuto un dono, sottolinea Chalier[11], e loda Dio per questo favore gratuito che le è stato accordato: “Cantare allora, come Sara il dono del figlio – osserva la filosofa francese – e nell’alleanza rallegrarsi del dono della Torah significa mettere fine al compiacimento solo di sé, alla commiserazione rivolta unicamente alle proprie sventure e all’orgoglio di chi pretende di contare solamente su di sé. Annunciare a tutti la nascita di Isacco raggiungerebbe così l’amore per una Legge che, venendo da un Altro, ordinando in suo nome, prova a colui che accetta di riceverla e viverne la sua qualità di essere per l’infinito”[12]. Chalier non indulge nell’idealizzazione della figura di Sara, infatti ne evidenzia anche le sue contraddizioni. L’allontanamento di Ismaele con la madre Hagar sembra contrastare con la generosità della prima matriarca, ma per i saggi ciò manifesta la sua lungimiranza. Ismaele era violento, immorale, idolatra e avrebbe influito negativamente su Isacco. E’ pur vero, però, che Sara – rileva Chalier -non si è mai preoccupata dell’educazione di Ismaele per allontanarlo dal male. Con l’opera di Sara e poi con le altre matriarche, l’elezione assume un nuovo significato, supera le leggi naturali, in quanto è offerta al secondogenito, al più debole, a colui “che resta privo di ogni sicurezza nell’essere perché è venuto dopo, dopo che questo mondo si è impregnato della ingenua e spietata convinzione che nessuno deve dubitare del proprio diritto a essere fin dall’istante in cui il solo dinamismo, il solo consolidamento del proprio io e delle sue proprietà gli assicurano una legittimità”[13]. L’Autrice evidenzia che l’Aqedah, la legatura di Isacco sull’altare per essere immolato, non ha riguardato solo Abramo; infatti i saggi sottolineano che la morte solitaria di Sara (cf. Gn 23,2) sia sopraggiunta a causa del suo dolore per la terribile prova, per la sofferenza del figlio, pronta a sostituirsi a lui. La morte di Sara è stato uno scambio, una sostituzione, tra la morte del figlio e la sua [14], anche se secondo qualche maestro, come Rabbi Hanan e lo Zohar, si è trattato di espiazione per la colpa nei confronti di Ismaele. Catherine Chalier sottolinea, invece, che quella di Sara è una vicenda che afferma “il sentimento di precarietà, la certezza che la fragilità di altri, del figlio in particolare, prevale sulla propria, loro sosterrebbero questa vocazione alla giustizia, la insegnerebbero come gravità ultima”[15].

REBECCA – La morte di Sara fa percepire ad Abramo la fine dei suoi giorni, per cui si premura di assicurare un moglie al figlio Isacco, per continuare a vivere attraverso i suoi nipoti. L’aramea Rebecca viene scelta dal servitore di Abramo inviato nel suo paese natale (cf. Gn 24,2-4). La donna, Rebecca, che sconvolgerà la sua vita lasciando il suo paese natale, i suoi idoli, per andare in un paese sconosciuto, costituisce la conferma dell’alleanza con Abramo. La chiamata di Dio tramite Eli’èzer genera l’amore: “Che il primo matrimonio ebraico sia fondato su questo senso del ‘per l’altro’ – e non – osserva Chalier – sulla passione amorosa, sulle emozioni di un incontro – è estremamente importante e, per i saggi, salutare. La differenza verso gli slanci di cuore, la loro fedeltà e la loro costanza, cede così il passo al contrappeso decisivo della certezza che l’alleanza promessa tra due esseri crea l’amore, e non l’inverso – Isacco prenderà in moglie Rebecca e poi l’amerà, la parola data susciterà l’amore, lo custodirà”[16]. In questo modo l’amore è liberato dall’eros possessivo e afferma l’apertura all’alterità senza sopprimere l’ipseità. L’alleanza si realizza tramite l’unione coniugale tra due esseri che non rinnegano la loro separazione abolendola con la passione. Rebecca, come Abramo proveniente dall’idolatria, è stata scelta per la sua attuazione della mitzvah dell’ospitalità verso lo straniero, vocazione al servizio etico che dà il primato all’altro, alla misericordia: “Rebecca sarà scelta in virtù della responsabilità verso il primo venuto, verso chiunque abbia sete, verso questo sconosciuto senza potere che la richiederà”[17]. Ella, contro le resistenze della sua famiglia, non indugia; prontamente va verso l’elezione, che Chalier definisce ‘utopia  del per-altri’[18]. Rebecca, accolta da Isacco, prende il posto della madre Sara che non c’è più, come rivelano alcuni segni, e ritorna la benedizione di Dio. La seconda matriarca accetta di sua volontà di entrare nell’alleanza, e con lei  Isacco trova consolazione per la morte della madre Sara. Chalier chiarisce il significato di questo ruolo consolatorio, che è tipico del Messia: “ […] consolare lo sposo non è tanto fargli dimenticare sua madre, quanto accettare di incontrarlo come persona singolare, sapersi altra di fronte a lui, ma di una alterità che costituisce la venuta di una identità, quella di un io che è per l’altro, che è ‘io’ solo a questo titolo, in questa unica misura”[19]. Il ruolo della matriarche è anche quello  – sottolinea Chalier – di favorire la riconciliazione tra il fratello eletto e quello non, come tra Isacco e Ismaele. La vicenda delle matriarche è anche segnata dalla sofferenza della sterilità. I Maestri hanno cercato di vedere in essa un significato positivo, come la conservazione della bellezza fisica. La sterilità di Rebecca è superata, perché Dio ascolta la preghiera di Isacco, anche se non quella della matriarca. La filosofa francese evidenzia che il significato di questo particolare risiede nel fatto che “con lui [Isacco], tutto il suo popolo pregava”[20].

La maternità di Rebecca non è accompagnata dalla gioia, poiché nel suo grembo si scontravano due nazioni (cf. Gn 25,22-23). Rebecca è stata la madre delle due possibilità per l’esistenza umana: quella del bene e quella del male, quella della giustizia e quella della violenza. Il figlio Giacobbe, a differenza di Esaù che rappresenta il paganesimo, sottolinea Chalier, costituisce per Rebecca l’essere “confermata, grazie a Giacobbe, la propria venuta all’elezione, assicurata oramai di assumere senso  al di là della singolarità della propria vita”[21]. Giacobbe costituisce per la matriarca  l’inserimento di una Promessa che trascende i limiti della sua vicenda, in virtù della pura grazia che proviene dall’Altissimo. Anche Isacco ricorre allo stratagemma di far passare Rebecca per sua sorella per salvaguardare la propria incolumità. La tradizione ebraica, come rileva l’Autrice, dà una lettura simbolica dell’episodio: la benedizione di Dio ritorna a lui quando viene rispettata la santità del suo legame coniugale. L’alleanza tra Dio e Isacco viene ripresa quando viene rispettata la sua alleanza sponsale con Rebecca[22]. Chalier ne evidenzia anche la conseguenza sociale, il rapporto di alleanza con Avimelèch, cioè la pace con lo straniero, il non ebreo: “Come se l’amore per la donna, lungi – sottolinea la filosofa dell’alterità discepola di Levinas – dal bastare a se stesso, dal chiudersi nell’egoismo della sufficienza a due, facesse ritrovare in sé le risorse e la gioia necessarie per trasmettere un messaggio di unità e di pace: una stessa via conduce verso Dio e altri, ma una via che si inaugura  in modo privilegiato nell’incontro con la donna”[23]. Anche l’episodio dell’inganno, di cui è artefice Rebecca, secondo la tradizione ebraica ha un significato teologico. La matriarca, guidata dallo Spirito di Dio, supera il diritto naturale delle “prerogative del maggiore, anche se iniquo e indegno, fa fallire il disegno del patriarca”[24], facendo trionfare il diritto dell’elezione, la giustizia che prevale sulla forza. L’episodio, rileva Chalier, significa pure che la matriarca Rebecca ha realizzato il superamento, sempre conflittuale, tra l’elezione (Giacobbe) e l’universalità (Esaù), in quanto hanno la stessa origine, la stessa matriarca di di due popoli: quella dell’elezione e quello del potere della forza[25]. La vicenda biblica mostra come l’identità del figlio non si realizza solo con il legame materno, ma anche con quello paterno; ricevendo la seconda benedizione di Isacco, Giacobbe assume in pieno il suo ruolo di eletto e si realizza  l’armonia tra il maschile e il femminile[26].

RACHELE E LEA – Giacobbe non ritiene possibile trovare la sposa dell’elezione tra una delle figlie dell’idolatra Labano. Egli incontra Rachele presso un pozzo, luogo degli eventi decisivi secondo le Scritture, donna intraprendente a cui il padre ha affidato il gregge. Giacobbe fu preso subito dall’amore per lei. La filosofa francese osserva: “Donna del di fuori, in opposizione a Lea [sua sorella] , installata nella dimora [il padre le aveva affidato le faccende domestiche], ritirata dalla distesa degli spazi, dall’aria e dalla luce, Rachele si presenta subito molto più audace della sorella. […]. Meno legata alla specificità di un luogo, Rachele sarà, forse per questo, la futura madre degli Ebrei dell’esilio, mentre Lea degli Ebrei della Terra santa”[27]. Secondo la Tradizione ebraica – evidenzia la filosofa francese –  il matrimonio crea l’amore, invece, con Giacobbe e Rachele il sentimento profondo, imprevedibile ed esclusivo, nasce spontaneamente e per sempre, già al primo incontro, noncuranti della sofferenza causata alla primogenita Lea che era destinata a Esaù. L’elezione, come dimostra la Bibbia, non tiene conto del diritto naturale, delle prerogative – ribadisce l’Autrice – della primogenitura. Labano, non legato all’elezione, imporrà il rispetto del diritto naturale con il matrimonio della primogenita Lea, che, invece, si era umilmente rassegnata al destino di essere la sposa di un uomo violento, Esaù[28].  L’inganno di Labano, a cui Lea si sottomette senza proferire parola, consiste nella sostituzione di Rachele con la primogenita la notte delle nozze. Solo il mattino seguente il patriarca si rende conto della sostituzione; Rachele aveva intuito ciò che stava per succedere ma si era chiusa nel silenzio per non umiliare la sorella, manifestando così una grande generosità. Nonostante l’inganno, Giacobbe fu sempre indifferente nei confronti di Lea e si sottopose a  lavorare come schiavo per Labano per sette anni per poter avere anche Rachele in moglie. Chalier osserva: “Al di là della singolarità di una congiuntura che rende a Rachele difficile, ovvero impensabile e irrealizzabile, l’idea  di una felicità insensibile alla miseria della sorella, la sua abnegazione, meshirut nefesh, rivela l’innata non-indifferenza alla sorte di altri che inquieta, sin dal più lontano, i padri e le madri d’Israele”[29]. Giacobbe proverà sempre disprezzo e risentimento nei confronti di Lea da cui era stato ingannato. Secondo Chalier però bisogna rivedere i pregiudizi su Lea: “Sembra dunque che la sorte di Lea, sia quella di saper far fronte, in modo mirabile ma quanto mi duro, all’odio. Infatti colei che aveva tanto pregato e pianto per sfuggire alla violenza e all’animosità fondamentale di Esaù, alla sua alleanza con il male, riesce ad allontanare questo destino sfortunato solo per trovarsi a confronto con l’odio dell’altro fratello e con le voci poco lusinghiere sul suo conto. Come se, a ogni modo, si esigesse da lei di sapere affrontare i sentimenti di antipatia e di malevolenza e di riuscire a trionfare su di loro.  Di essere pronta a sfidare l’odio, a non indebolirsi o crollare sotto il peso, anche della sua sola percezione; a perseverare ad amare lo stesso, per tentare di vincere la forza di questo odio, di sviarla, di rivelarne l’inanità e il disastro”[30].  Questa nobiltà d’animo ha consentito a Lea di entrare nell’alleanza, anche se non c’è mai stato il riconoscimento da parte di Giacobbe, nonostante gli avesse dato numerosi figli. Secondo il Midrash Tanhuma Dio consola Lea per la sua sofferenza con le maternità, nonostante fosse anche inadatta biologicamente.  

La vicenda di Rachele e Lea conferma il progetto dell’alleanza: Dio sceglie coloro che nella società del tempo non contavano, come il secondogenito (Giacobbe) o la secondogenita (Rachele) e ribalta lo schema del matrimonio in funzione della procreazione: “Lea, la madre, colei attraverso cui è assicurato l’avvenire di Giacobbe, resta detestata, trascurata forse, e in ogni caso non amata; Rachele, la donna sterile, ma che conserva l’amore del patriarca – ‘continuò ad amare Rachele più di Lea’ – rimane per lui la sola a esistere, a contare veramente, la moglie principale”[31]. Per Giacobbe Lea sarà sempre soltanto la madre dei suoi figli; non avrà alcuna considerazione per lei come donna, come persona. Per Rachele, però, diventa insopportabile la sua sterilità; per avere dei figli ricorre alla schiava Bilhà e la situazione si ribalta: “Rachele rimane sterile durante la nascita dei figli di Lea e quest’ultima cessa di partorire nel momento preciso in cui sfida un simile destino”[32]. Con l’andare del tempo i rapporti tra le due sorelle si incrinano e subentra la rivalità. A Rachele viene concessa anche la personale maternità con la nascita di Giuseppe e la sua felicità fu totale. La tradizione ebraica le attribuisce uno spirito profetico, per cui il suo ruolo di matriarca si consolidò ancor più: “Rachele voleva che da lei nascesse l’ultimo fondatore delle tribù. Il Midrash pensa anche che, prevedendo il destino infelice dei discendenti di Giacobbe, la scomparsa di dieci delle dodici tribù, lei desiderasse un figlio la cui sorte fosse diversa, un figlio la cui posterità avesse potuto durare. E questo sarà precisamente il caso della famiglia di Beniamino e di quella di Giuda”[33]. Le matriarche, questa volta entrambe, dopo la nascita di Giuseppe – sottolinea Chalier –, incoraggiano Giacobbe a lasciare la casa di Labano, ad  abbandonare la terra dell’idolatria per tornare nella terra del Padri e delle madri, pur essendo di origine pagane ed alle quali Dio non si è mai rivolto loro direttamente. In tutto questo la filosofa francese coglie la grandezza delle matriarche: “Come se queste donne di origine pagana, quali furono le matriarche, adatte a comprendere nel discorso di altri ciò per cui esso rivela l’Altissimo, fossero state scelte proprio in ragione di questa dignità; di questa eccezionale distinzione che consiste nel saper cogliere la parola di Dio quando il prossimo si avvicina”[34]. Le matriarche riescono a cogliere la traccia del Totalmente Altro come chiamata a realizzare la giustizia attraverso l’alterità con cui si viene a contatto; percepiscono le esortazioni di Dio nella stessa umanità dell’uomo. Dio non si rivolge a loro direttamente per disprezzo, ma per il fatto che le matriarche sono capaci  – osserva Chalier – di cogliere, di percepire la parola di Dio nel volto del prossimo[35]. Rebecca morì prematuramente, a trentasei anni, e fu sepolta sulla strada verso Efrath, cioè Betlemme, mentre il sepolcro di Machpelà venne riservato alla prima moglie, poiché le spettava di diritto. Per la tradizione ebraica, rileva l’Autrice, la vocazione di Rachele è quella di consolare i suoi figli, non solo quelli biologici, e la consolazione è una prerogativa del Messia, ma rimanda anche alla Shekinah, alla Presenza divina che soffre con il suo popolo, soprattutto con i poveri e i reietti[36]. La vicenda delle matriarche d’Israele, come emerge dalla riflessione di Catherine Chalier, manifesta che l’alleanza di Dio è apertura e servizio all’alterità con generosità.

di Lucia Antinucci

 

[1] C. CHALIER, Le Matriarche. Sara, Rebecca, Rachele e Lea, Giuntina, Firenze 2002 (tit. orig. Les Matriarches, Ed. du Cerf, Paris 1985), 16 (Prefazione).

[2] Ivi 271 (Nota di Orietta Ombrosi che ha curato la traduzione).

[3] Cf. ivi 273.

[4] CHALIER, Le Matriarche, 29.

[5] Ivi 28. Un episodio analogo si verifica con Avimelech di Gherar (cf. ivi 67-73).

[6] CHALIER, Le Matriarche, 31.

[7] Ivi 38.

[8] Cf. ivi 38-39.

[9] Cf. ivi 57-59.

[10] Ivi 63.

[11] Cf. ivi 75.

[12] Ivi 79-80.

[13] Ivi 85.

[14] Cf. ivi 89-99.

[15] Ivi 100-101.

[16] Ivi 109.

[17] Ivi 115.

[18] Cf. ivi 124.

[19] Ivi 132.

[20] Ivi 142.

[21] Ivi 158.

[22] Cf. ivi 162-165.

[23] Ivi 166.

[24] Ivi 171.

[25] Cf. ivi 176-177.

[26] Cf. ivi 183.

[27] Ivi 188.

[28] Cf. ivi 194.

[29] Ivi 203.

[30] Ivi 210.

[31] Ivi 216.

[32] Ivi 225.

[33] Ivi 242.

[34] Ivi 247-248.

[35] Cf. ivi 248-249.

[36] Cf. ivi 268-269.

 

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