F. Bermejo-Rubio, L’invenzione di Gesù di Nazareth. Storia e finzione, traduzione di E. Tramontin e di S. Sichel, Bollati Boringhieri, Torino 2021, pp. 702, euro 32.
Questo poderoso volume rialza lo steccato tra storia e fede, ricerca esegetico-filologica e dato teologico, a proposito dell’indagine storica su Gesù. L’autore fa proprio il motto di Baruch Spinoza secondo il quale la verità appartiene alla storia e la fede rientra nell’ambito della teologia che può dettare solo i principi etici dell’amore per il prossimo, mentre la verità dei fatti è da ricercare altrove, in ambito filosofico. Bermejo-Rubio s’impegna, in questa indagine storico-critica, semplicemente a «non prendersi gioco né a detestare, ma a limitarsi esclusivamente a comprendere» (p. 483). Il volume è diviso in quattro grandi parti: La costituzione di Gesù come oggetto di studio storico (pp. 17-86: Le fonti; Prospettive sulla possibilità di un discorso storico, Questioni di metodo); Verso una ricostruzione critica (pp. 87-251: Il contesto storico: Galilea e Giudea; La scena del Golgota: Gesù tra gli insorti; Cause della crocifissione, o la dimensione antiromana della storia; Un progetto nazionalista: l’intreccio di “politica” e “religione”; L’identità dei responsabili dell’arresto; Dall’arresto alla crocifissione; Un ebreo classificabile: Gesù nella storia delle religioni); Dalla storia alla finzione (pp. 253-384: Condizioni di intelligibilità. 1: processi psicosociologici; Condizioni di intelligibilità. 2: dati culturali; Da Gesù al Cristo: processi di destoricizzazione; La divinizzazione di Gesù: strategie bio-teografiche; Il consolidamento moderno della finzione, o la secolarizzazione del mito); La storia dell’indagine: un quadro generale (pp. 385-477: Dalla finzione storica alla finzione storiografica; Principi di un paradigma storiografico esplicativo; Gli inizi: verso una genealogia dell’indagine; Un punto di svolta: le pericolose idee di Reimarus; La configurazione del conflitto nell’epoca contemporanea). A seguire: l’Epilogo (pp. 478-483: Il trionfo della finzione e le sue implicazioni), sei Appendici (pp. 487-514: Il Gesù “frainteso”: una finzione antica e moderna; Ridefinì Gesù il conetto della regalità? L’inverosimiglianza di un cliché; Sulla presunta novità dell’idea del “Dio padre” in Gesù; I racconti di miracoli nello sguardo dello storico; La designazione “figlio dell’uomo”; Il Gesù ariano: esegesi biblica e nazismo), le Note (pp. 515-618), Sigle e abbreviazioni (pp. 619-627), i Riferimenti bibliografici (pp. 629-667), l’Indice dei testi citati (pp. 669-693); l’Indice dei nomi (pp. 695-702).
Nell’Introduzione (pp. 11-16) è indicato il punto di partenza di questa ricerca: la constatazione che l’approccio verso Gesù di Nazareth come soggetto storico «è tuttora pervaso di elementi fittizi, non solo nell’immaginario popolare ma anche in ambito accademico» (p. 11). L’autore, docente presso il Dipartimento di Storia antica di Madrid, e specializzato sullo gnosticismo e il Vangelo apocrifo di Giuda, ritiene che il mondo intellettuale contemporaneo continui a dimostrarsi, troppo spesso, incapace di affrontare con il dovuto rigore l’indagine sull’ebreo Yehoshua ben Yosef. È come se un certo processo di mitizzazione/mistificazione della persona storica di Gesù si alternasse di volta in volta nella stessa indagine in corso perché negli ultimi decenni non sono apparse nuove fonti per la ricerca nonostante i ricorrenti proclami sensazionalistici. Di fatti, «né il Vangelo di Giuda, né il presunto ossario di Giacomo, né la tomba di Talpiot, né il papiro con il “Vangelo della moglie di Gesù” rappresentano testimonianze rilevanti. Quanto allo studio storico del personaggio, tutte quelle incredibili novità si sono rivelate una tempesta in un bicchier d’acqua» (p. 12). Il processo di esaltazione di Gesù, che evidentemente non raggiunse gli stessi livelli e le medesimi espressioni in tutti i gruppi che a lui si rifecero, ha alla sua radice non solo una forte prassi devozionale ma il bisogno di superare una certa dissonanza cognitiva per il fallimento sperimentato dagli stessi discepoli per la morte di croce. Bermejo-Rubio applica in pieno ai Vangeli la teoria della dissonanza cognitiva introdotta nella psicologia sociale negli anni cinquanta del Secolo scorso e successivamente affinata da nuovi percorsi e congetture (cf. pp. 256-259). Il gruppo attorno a Gesù superò il fallimento della sua morte infame non attraverso l’accettazione della realtà, bensì mediante un processo di spiritualizzazione di tale fallimento e avviando un processo di comunicazione e di influenza sociale destinato a convincere gli altri della bontà delle proprie credenze, ossia della risurrezione di Gesù dai morti (cf. p. 262). La memoria selettiva permise di eliminare dal ricordo di Gesù aspetti compromettenti o difficilmente conciliabili con la sua magnificazione. «L’elaborazione cognitiva rese possibile la connessione del personaggio con le speranze contenute nella Bibbia ebraica; grazie alla spiritualizzazione delle aspettative fu fattibile affermare che il regno di Dio era già iniziato tramite la presenza dello Spirito, e che Gesù, ben lungi dall’essersi sbagliato, sarebbe ritornato come giudice celestiale per instaurarlo; nelle assemblee comunitarie si generò e rinvigorì il culto di Gesù, mostrandolo e promuovendolo allo stesso tempo, anche mediante la ripetizione intrinseca al rituale» (p. 263). In pratica, all’origine della mistificazione-magnificazione di Gesù ci sarebbe stato un processo di affabulazione del passato, di memoria distorta, che si generò tra i suoi seguaci per il bisogno stesso di superare il fallimento delle aspettative mancate (cf. pp. 263-265).
L’autore individua nella suddivisione del libro in quattro parti o sezioni i motivi stessi della sua ricerca: il bisogno di dare una risposta sistematica all’indagine storica su Gesù vista la mole delle pubblicazioni in atto; la ricostruzione critica della memoria di Gesù nei Vangeli attraverso altri criteri, come quelli della retorica e della devozione religiosa o di tipo emico (dall’interno della cultura in cui è vissuto Gesù), fino a porre in atto la ricerca dei motivi-chiave che hanno portato alla divinizzazione di Gesù (il processo di mistificazione); il bisogno storiografico di superare il modello inadeguato delle tre ricerche sul Gesù della storia; l’offerta di un nuovo modello che «permetta di comprendere con maggior lucidità il senso di tale storia, offrendo alcune indicazioni con cui orientarsi nell’enorme confusione rappresentata dalla sconfinata letteratura su Gesù» (p. 13). Per Bermejo-Rubio, il processo di mitizzazione di Gesù è durato più a lungo di quello che hanno immaginato gli stessi storici: per questo motivo è necessario determinare «l’identità dell’icona culturale rappresentata dalla figura di Gesù» (p. 14) facendo, però, i conti con gli stessi limiti dei criteri di storicità dei Vangeli e delle altre fonti storiche a disposizione.
Attraverso un approccio di tipo emico, che è proprio dell’antropologia culturale per indicare il modo in cui gli appartenenti a una cultura ne intendono le concezioni e manifestazioni, Bermejo-Rubio prova a indagare sulle strategie che hanno determinato la divinizzazione di Gesù già nel Vangelo di Marco, con l’ausilio di un linguaggio performativo. Lo stesso ricordo di Gesù fu presto alienato dal suo contesto religioso, politico e culturale: «la sua degiudaizzazione, depoliticizzazione e descatologizzazione, nonché processi complementari di sublimazione caratteriologica e morale, permisero di delineare una figura non condizionata dalle limitazioni consuete nel resto dei mortali, e andarono di pari passo alla sua magnificazione» (p. 340). Tuttavia, per Bermejo-Rubio, quei processi, nonostante la loro importanza, ebbero soltanto una funzione preparatoria. «La positiva divinizzazione del personaggio richiese lo spiegamento di una serie di invenzioni concrete mediante le quali acquisì una fisionomia particolare, una biografia in forma agiografica. Ovviamente, queste costruzioni – racconti su una filiazione adottiva, una nascita verginale, una trasfigurazione o una risurrezione – non sorsero dal nulla, ma si generarono tra le idee disponibili nell’enciclopedia culturale del mondo in cui si sviluppò il movimento di Gesù. È stata la combinazione specifica di queste idee a dotare il personaggio dell’idiosincrasia con cui è conosciuto nella storia della cultura» (p. 340).
Gesù si trasforma in Figlio di Dio già nell’incipit del Vangelo di Marco attraverso un incrocio tra concezione messianica ebraica e la contaminazione con l’ellenismo e la visione dell’imperatore romano come re che adotta adulti e bambini come suoi figli. Il battesimo di Gesù al fiume Giordano (Mc 1,9-11) ha come base culturale di appoggio o di riferimento l’eredità culturale e normativa della patria potestas della famiglia romana o, comunque, ne esige un confronto. L’adozione imperiale nel mondo romano indicava che la cosa più importante, dal punto di vista legale, era il figlio adottato: così, nel racconto del battesimo di Gesù, l’evangelista Marco pone in evidenza l’appartenenza di Gesù a Dio in quanto Figlio adottato che, però, non è inferiore a Dio nel senso che riceve la sua stessa dignità. Una prospettiva più chiara della divinità di Gesù è presente nel Vangelo di Giovanni che ne rivendica l’origine trascendente. «La magnificazione di Gesù comportò […] la sua presentazione come una sorta di evergete o benefattore universale» (p. 348). L’importanza dell’evergetismo (l’energia-forza-potenza che promana dal Nazareno) nel processo di divinizzazione di Gesù è percepibile nella moltiplicazione delle storie di miracoli che servirono a risollevare il suo prestigio, e pertanto quello del movimento che lo invocava come fondatore. «Alcune guarigioni di Gesù presentano notevoli somiglianze a quelle attribuite a Vespasiano ad Alessandria, cercando forse di mostrarne la superiorità sull’imperatore. In un modo ancora più efficace rispetto ai bravi imperatori, Gesù dà pane a chi ne ha bisogno» (p. 349).
I meccanismi per trasformare Gesù in un essere superiore, per il nostro autore, seppur evidenti nel quarto Vangelo, sono già operativi nella composizione dei Sinottici e forse anche nella tradizione sottostante. Il riferimento è, in primis, al racconto della trasfigurazione che evidenzia una particolare dignità riservata a Gesù da parte della primitiva comunità cristiana: lo status privilegiato di Gesù è una sorta di divinizzazione, o comunque di riconoscimento di un’autorità divina, superiore. «La trasfigurazione di Gesù può essere interpretata alla luce delle tradizioni ebraiche sulla trasformazione escatologica dei giusti e delle teofanie bibliche, ma contiene altri elementi che permettono di comprenderla anche nel contesto delle tradizioni greche sulle teofanie […]. Flavio Giuseppe narra la famosa scena in cui il re Agrippa, entrando nel teatro di Cesarea con vesti splendenti, viene acclamato come un dio dagli astanti» (p. 351). Per Bermejo-Rubio, nella trasfigurazione «Gesù non è concepito come un essere divino indipendente, ma come una figura compresa nella sfera di una deità superiore, e subordinata ad essa» (p. 352). Il linguaggio e le categorie da lui utilizzati risentono degli approfondimenti sui Vangeli gnostici nei quali si è specializzato. È chiaro che per gli autori del NT Gesù possiede uno status completamente unico per essere il figlio amato di Dio «ma con questo non si mette sotto scacco il monoteismo inclusivista del giudaismo» (p. 352). In realtà, questo giudizio andrebbe precisato, visto che negli stessi scritti paolini ma anche nei Sinottici, Gesù occupa un posto originalissimo nel rapporto con il Padre proprio in quanto figlio diletto, e l’annuncio del Regno da lui compiuto rientra in quel genere letterario della “buona-dolce” notizia che, nonostante qualche parallelo con la cultura ellenistica e l’impero romano richiamato da Bermejo-Rubio, non ammette paragoni importanti.
Circa la decostruzione che fa Bermejo-Rubio a proposito della presunta novità dell’idea del “Dio Padre” in Gesù (cf. pp.496-501), le sue critiche sono condivisibili sul piano filologico nel senso che non è semplicemente l’uso rarissimo di Abbà sulle labbra di Gesù a manifestare il suo rapporto speciale con il Dio d’Israele, bensì il suo stesso stile di vita che, però, non è come quello di un «visionario religioso che si credette destinato a guidare un movimento collettivo» (p. 501), ma è paragonabile a quello dei profeti, a chi si percepisce a servizio del Regno che sta venendo con la sua stessa persona.
Sulla risurrezione, l’autore rileva che la credenza nel Risorto è semplicemente la conseguenza dell’adattamento a nuove necessità di credenze esistenti nel contesto mediterraneo. Tuttavia, è nell’affermazione stessa della risurrezione che Gesù riceve la sua trasfigurazione definitiva in cielo come Dio. L’autore, appoggiandosi alla storia comparata delle religioni, riconosce una graduale e progressiva magnificazione di Gesù nella sfera divina che ha permesso l’attribuzione a lui di tanti altri prodigi e segni: «La genesi e l’espansione dei racconti di miracoli è perfettamente comprensibile come un’attribuzione tarda a Gesù di fatti prodigiosi da parte di chi credeva che fosse stato risuscitato e messo sul trono alla destra di Dio. Alla luce di tali credenze, gli evangelisti – o le tradizioni dalle quali parzialmente dipendono – non ebbero alcun problema ad attribuire a Gesù qualsiasi sorta di azione sovrannaturale. È una credenza tarda quella che proiettò sulla sua vita non ciò che realmente fece, ma ciò che avrebbe potuto e dovuto fare se la sua natura fosse stata quella che i suoi seguaci gli attribuivano. Questa conclusione si vede corroborata dal percepibile incremento di questo tipo di materiale nei Vangeli. La sua presenza risponde a una dinamica “mitopoietica” ben nota nella storia delle religioni, che ha a che vedere con entusiasmi e necessità spirituali ed è del tutto indipendente da fatti effettivamente accaduti» (p. 505).
A tratti, sembra che il nostro autore emetta sentenze definitive più per portare avanti il manifesto di demitizzazione di bultmanniana memoria che per un’indagine precisa e critica rispetto al metodo utilizzato. Di fatti, i richiami ai miracoli e ai prodigi di Gesù non sono di una tradizione tardiva, ma appartengono al nucleo centrale della stessa tradizione sinottica. È anche troppo affrettato il giudizio circa la de-giudaizzazione di Gesù avvenuta nei Sinottici e nella tradizione cristiana antica, soprattutto alla luce del tratto ebraico dell’identità del Nazareno oggi riscoperto e ben evidenziato. Il modo di agire di Gesù è sempre più comprensibile alla luce del contesto giudaico (culturale, religioso, sociale e politico) in cui egli stesso si pone e non creando fantasiosi e inverificabili parallelismi con la cultura romana di quel tempo. La “magnificazione” di Gesù – ossia il culto o la venerazione della sua persona – non ha solo una spiegazione sociologica o culturale, che s’intreccia con l’analisi comparata della storia delle religioni, ma esige anche il confronto con il dato teologico di cui sono intrisi i Vangeli, ossia l’esperienza di fede (soprattutto liturgica) vissuta dalle prime comunità cristiane che hanno sperimentato la potenza del Crocifisso-Risorto. Nel processo di “magnificazione” di Gesù, inoltre, il dato storico e ignobile della morte di croce non scompare: anzi, diviene una costante che fa da premessa al novum della risurrezione e alla condizione nuova d’esistenza. Tale elemento ingiurioso non rientra in alcuna biografia degli imperatori o dei re perché evidenzia il limite e la fragilità di Gesù stesso. L’insistenza, poi, sulla risurrezione corporale da parte degli autori del NT fa ben comprendere come il contesto essenziale in cui rileggere tale evento è più giudaico che ellenistico, visto che nel mondo ebraico conta più la concretezza dell’esistenza che una possibile vita solo spirituale post-mortem tipica della concezione greca tardo-antica. Comunque, al di là di qualche nostra precisazione, che non vuole assolutamente avere un carattere apologetico, bensì di istanza critica, l’autore conclude così la sua ricerca: di Gesù, «l’immagine tradizionale tramandata dalle fonti cristiane […] è il prodotto di un’invenzione. La genesi della finzione è, comunque, testualmente e concettualmente discernibile […]. Trasformare Gesù in un qualcuno di molto diverso rispetto a ciò che coglie lo sguardo critico richiese ai suoi seguaci di togliere e mettere, di sottrarre e aggiungere. Il predicatore apocalittico venne privato del suo carattere ebraico, dell’impegno con il suo popolo, della sua coscienza nazionale, della complicità dei suoi compagni, del suo radicamento reale in un tempo e uno spazio determinati, nonché di alcune delle sue convinzioni e speranze più solide e concrete. In cambio, gli sono stati ripetutamente iniettati steroidi narrativi fino a renderlo ciò che tutte le apparenze indicano che non è stato: una vittima innocente e volontaria, un uomo universale e universalista, un campione del pacifismo, un immacolato paradigma morale, un essere totalmente unico, e perfino un dio» (pp. 478-479).
La mole di lavoro, la raccolta di dati e il confronto con tesi e teorie e i rimandi bibliografici, soprattutto di natura storica e di taglio critico-culturale, dimostrano la serietà della ricerca del nostro autore e il valore scientifico di questo saggio che ha come punto di partenza un luogo comune, un pregiudizio non passato al setaccio dallo stesso Fernando Bermejo-Rubio nel quale egli medesimo rimane setacciato. Il pregiudizio è il seguente: i Vangeli offrono una visione distorta della storicità di Gesù che, come personaggio reale, è farcito di immagini e miti, dicerie e poteri, che non sono riscontrabili nella realtà. Dunque, lo storico, che svolge il suo lavoro con l’esigibile probità, è chiamato a “spogliare i testi”, a “sottrarre” degli elementi, più che a valutare il dato filologico e gli atteggiamenti “registrati”, se pur attraverso il filtro della comunità e del redattore finale, dello stile di vita di Gesù. I Vangeli sono pieni di distorsioni al servizio degli interessi delle comunità cristiane che utilizzarono la memoria del loro Maestro per autolegittimarsi, «anche a costo di offrirne una rappresentazione inconsistente e contraddittoria» (p. 479).
Non ripeteremo mai abbastanza che le comunità cristiane delle origini hanno dovuto faticare molto per far comprendere che i Vangeli non sono un documento storico in senso tradizionale, e non sono neanche un archivio suddiviso per anni e per autori o soggetti, ma una testimonianza o biografia di fede. Questo è un dato fondamentale del quale tener conto sempre. Il Vangelo non è una biografia di Gesù secondo il modello antico e non è un’opera di storia kerygmatica, perché non vuole tracciare semplicemente un’immagine della personalità di Gesù né esaltare la sua figura, ma è intenzionato a mostrare che in Gesù e su Gesù opera Dio che conduce alla liberazione degli uomini. In questo genere letterario si pone attenzione anche al ruolo della comunità e al culto che è reso a Gesù in quanto Cristo. Il Vangelo, come genere letterario, è una testimonianza di fede che non separa il ricordo del Gesù terreno o reale dall’esperienza del Cristo della fede o del Risorto. L’attenzione è rivolta alla figura complessiva di Gesù Cristo, anche se ogni volta in una maniera particolare. Così, si può ritenere per vero, senza sbagliare, che il Vangelo è un genere letterario originalissimo perché è sorto dall’attività di Gesù che annuncia il Regno e si è sviluppato a partire dalla sua persona e dalla sua opera che ingloba soprattutto la passione e la morte di croce alla luce della risurrezione, ossia dell’esperienza di chi l’ha incontrato dopo la morte violenta del venerdì santo. Dunque, se Gesù non è un’invenzione letteraria o il frutto di una mistificazione o di una magnificazione, è necessario ribadire un dato di fatto: senza di lui il cristianesimo non sarebbe stato possibile e il movimento da lui scaturito presenta, già dal principio, una cristologia, anzi più approcci cristologici. Tuttavia, ogni cristologia post-pasquale nata nelle comunità delle origini porta in sé un’ermeneutica della fede che comunque fa riferimento all’evento storico che è Cristo stesso. Di questa dinamica lo storico non può farne a meno, anche quando svolge un’indagine fondata sull’esigibile probità (cf. p. 479).
Consapevoli che una cosa è la gesuologia e un’altra cosa è la cristologia, bisogna però ribadire che i Vangeli non sono interessati a ricostruire il profilo strettamente biografico di Gesù, il Galileo, e neanche vogliono precisare in senso cronologico il decorso e le tappe della sua vita. Certamente, il fondamento gesuano del NT e degli stessi Vangeli non può essere negato e neanche ridotto a pochi frammenti e a brevissime informazioni di prima mano. In realtà, se si dovesse dimostrare che la cristologia non ha appoggio sul Gesù storico e che sarebbe piuttosto una falsa interpretazione di Gesù, allora la cristologia stessa sarebbe liquidata. Di conseguenza, è indispensabile riconoscere alle origini dei Vangeli la fede della Chiesa come punto di partenza storico per ogni indagine relativa a Gesù. Ciò significa, concretamente, che l’indagine storica su Gesù deve vagliare il fondamento storico delle tracce del Galileo che ci sono consegnate nella Chiesa, ossia nelle testimonianze evangeliche che sono autentiche biografie di fede. In fin dei conti, la ricerca storico-critica su Gesù non può far a meno, oggi più di ieri, di confrontarsi con quel processo ermeneutico della fede che è definito dal razionalista David Friedrich Strauss come la “sterzata” o il “ribaltamento” di una condizione che è l’evento della risurrezione. Strauss riconobbe che ci fu, nel caso di Gesù, una formidabile sterzata che, dalla profonda depressione e totale disperazione causata dalla morte di Gesù, portò alla forza della fede e all’entusiasmo con cui i discepoli lo annunciarono come Messia. Si tratta d’indagare su un avvenimento eccezionalmente incoraggiante che determinò l’annuncio della fede e, che, in cristologia, è la risurrezione di Cristo, ossia l’incontro vivo dei discepoli con il Risorto. I Vangeli raccolgono questo avvenimento eccezionale e prendono forma a partire da esso attraverso l’apporto delle comunità cristiane delle origini che coprono un ampio arco geografico, che va dalla Palestina fino a Roma passando per la Siria, l’Asia e la Grecia, tenendo conto del breve filo cronologico che percorre il periodo compreso tra gli anni Trenta e quelli di fine secolo I. Di questo aspetto, ad esempio, la ricerca storica di Bermejo-Rubio su Gesù non ne tiene proprio conto. Il nostro autore si limita a liquidare l’evento della risurrezione come parte del processo di magnificazione e di mistificazione di Gesù per le nuove esigenze delle comunità cristiane delle origini! Così, il Gesù frainteso nella sua predicazione (che non volle essere assolutamente accolto come re) è la risposta del redattore finale all’idea più verosimile di un Gesù didatticamente inetto perché circondato da un gruppo di goffi discenti che sono disorientati (cf. pp. 488-489). Il fraintendimento della missione di Gesù da parte dei suoi discepoli viene ad essere, per il nostro storico, un dispositivo apologetico privo di realismo. L’idea che Gesù, poi, abbia ridefinito il concetto di regalità è un cliché tipico di numerose indagini che non hanno alcun riscontro storico. La verità è, per il nostro autore, che l’insperata crocifissione di Gesù e il fallimento delle aspettative del suo gruppo obbligarono i suoi membri a reinterpretare il ruolo della loro guida (cf. pp. 493-495). Conservare «la memoria del Maestro e garantire la sopravvivenza del gruppo nazoreo in un mondo dominato da Roma e condizionato dalla sconfitta del popolo ebraico e la privazione di ogni potere politico esigette l’eliminazione dal messaggio originale delle dimensioni terrene e materiali, nonché il ripensamento della pretesa regale di Gesù, facendolo propendere per una visione in cui offriva la propria vita come riscatto per molti. Pertanto, la ridefinizione della regalità […] che si trova in alcuni testi neotestamentari, non proviene da Gesù, ma dalla tradizione successiva» (p. 495).
Per Bermejo-Rubio, ci sono «molti indizi del fatto che, lungi dall’essere un paradigma di virtù antigerarchica, Gesù confermò gli ideali teocratici del giudaismo, che implicavano la nozione che certe persone erano i legittimi rappresentanti di Dio, e che ritenne se stesso autorizzato a dettare ai suoi simili ciò che lui interpretò come la volontà divina» (p. 496). È come se la memoria di Gesù conservata nei Vangeli fosse da sempre adulterata e, da qui, sopraggiunge il bisogno di agire con lo scalpello in nome dell’esigibile probità dei fatti e delle idee attorno a Gesù che ne hanno ingigantito la sua personalità. È come se i Vangeli fossero la realtà aumentata di Gesù che, per comprenderlo come personaggio storico, ha bisogno di tagli, riduzioni e decostruzioni, ossia di “scalpellare”, sottraendo ogni traccia di mistificazione e di magnificazione.
In realtà, i Vangeli e gli altri scritti del NT comprendono approcci cristologici radicati nella “storia di Gesù” e nella “storia con Gesù”, senza mai lasciar intendere alcuna forma di separazione tra il Gesù terreno e l’annuncio del Risorto. Detto altrimenti, se il cristianesimo è un fatto storico (la persona concreta di Gesù che annuncia il Regno e muore in croce), è altrettanto vero che è una realtà teologica indivisibile (il Cristo risuscitato dai morti), in cui s’intrecciano la verità oggettiva dell’evento che accade (Gesù, il Galileo) e la sua ermeneutica (l’incontro dei discepoli con il Risorto). I Vangeli mettono per iscritto le impressioni (memoria, ricordi, affetti ed esperienza vissuta) dell’incontro con il Risorto da parte dei discepoli e offrono una rilettura post-pasquale dei pochi anni vissuti accanto a Gesù, con adattamento del messaggio pasquale per le singole comunità cristiane, il tutto reso attraverso un linguaggio religioso, ossia di fede, che richiede la conoscenza dei diversi generi letterari utilizzati e i contesti socio-culturali di quel tempo e di quelle comunità. È la memoria stessa di Gesù, il Crocifisso-Risorto, ad essere “l’esigibile probità” tanto cara allo storico che sembra operare certamente una riduzione che costituisce, in molti casi, un’effettiva diminuzione o una dimostrazione di cortezza di vedute su Gesù. Questa cortezza di vedute si manifesta, anche come diminuzione, nel momento in cui si esprime un giudizio sulla “fabbricazione di Gesù” (come Signore e divinità) da parte delle comunità cristiane per garantire una sorta di potere ideologico, sociale ed economico che lo reclamano e proclamano loro fondatore (cf. p. 480).
[Edoardo Scognamiglio].
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