Queste mie riflessioni si basano sul Documento, sempre molto attuale, del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso ‘Dialogo e annuncio’ (DA / 1991) che riprende il Documento Dialogo e Missione (1984), sviluppandolo in modo più articolato. DA ha come destinatari non solo le guide delle comunità cattoliche, ma anche delle altre comunità cristiane e di altre fedi. Esso va letto alla luce dell’enciclica Redemptoris Missio (RM / 1990 cf. nn. 55-57) e intende promuovere la formazione al dialogo interreligioso (cf. DA 7). Vi sono molteplici fattori che hanno reso necessario affrontare il tema del dialogo e dell’annuncio: “a) Nel mondo di oggi, caratterizzato dalla velocità delle comunicazioni, dalla mobilità delle persone e dall’interdipendenza, vi è una nuova presa di coscienza di un pluralismo religioso. Non si può affermare che le religioni esistono o sopravvivono: incerti casi, esse forniscono una chiara dimostrazione di rinascita. Esse continuano a ispirare e a guidare le vite di milioni dei loro aderenti. Nell’attuale contesto di pluralità religiosa, il ruolo importante che viene svolto dalle tradizioni religiose non può essere ignorato” (DA 4). Il dialogo interreligioso, inaugurato ufficialmente dal Concilio Vaticano II, viene compreso molto gradualmente e stenta a decollare; è attuato, infatti, solo in alcuni paesi a causa anche della consistenza numerica della comunità cristiana. Esso, però, viene anche frainteso, poiché secondo alcuni ha preso il posto dell’annuncio, mentre secondo altri il dialogo interreligioso non ha valore. Vi sono poi coloro che sono perplessi: “[…] se il dialogo interreligioso è diventato così importante, l’annuncio del vangelo ha perso la sua urgenza? Lo sforzo di introdurre di introdurre le persone all’interno della comunità della Chiesa è divenuto secondario o addirittura superfluo?” (DA 4c). L’importanza dl dialogo interreligioso è stato rilanciato da Giovanni Paolo II anche con il significativo incontro di preghiera per la pace ad Assisi il 27 ottobre 1986 con i rappresenti religiosi di tutto il mondo (cf DA 5). Il Documento evidenzia il significato del dialogo, partendo dalla sua dimensione antropologica: “ […] a livello puramente umano, esso significa ‘comunicazione reciproca’, che conduce ad un obiettivo comune o a un livello più profondo, alla comunione interpersonale” (DA 9). Il dialogo in senso lato indica i rapporti umani di amicizia e di rispetto come pure la globalità della missione evangelizzatrice della chiesa, che deve essere realizzata in base allo spirito del dialogo. “In terzo luogo, nel contesto del pluralismo religioso, dialogo significa ‘ogni tipo di relazione interreligiosa positiva e costruttiva con individui e comunità appartenenti ad altre fedi, che sia mirato alla muta comprensione e al mutuo arricchimento’ (DM 3), nel pieno rispetto della verità e della libertà. Esso comprende sia la testimonianza, sia l’esplorazione delle rispettive convinzioni religiose” (DA 9). Il dialogo si distingue dall’annuncio che è la comunicazione del messaggio del Vangelo per favore la fede in Cristo come membra della chiesa (cf. DA 10).
Il dialogo interreligioso si fonda su una valutazione teologica delle altre tradizioni religiose, in base alle prospettive emerse dal Concilio, ma anche su uno stretto contatto con esse: “Queste tradizioni devono essere avvicinate con una grande sensibilità, tenendo sempre conto dei valori sperimentali e umani che sono racchiuse in esse. Esse esigono il nostro rispetto poiché, nel corso dei secoli, hanno reso testimonianza dei (loro) grandi sforzi di trovare risposte ai profondi misteri della condizione umana” (NA 1), e hanno dato espressione all’esperienza religiosa e continuano a farlo tuttora” (DA 14). Il Concilio ha ripreso la dottrina tradizionale secondo cui la salvezza cristologica è aperta a tutte le persone di buona volontà, poiché il nuovo Adamo, per mezzo del mistero pasquale, opera il rinnovamento di ogni essere umano e la grazia del Spirito Santo agisce nei cuori di tutte le persone di buona volontà, come già evidenziato da Dialogo e missione. “Poiché, dal momento che Cristo è morto per tutti, e dal momento che tutti sono di fatto chiamati allo stesso unico destino, che è divino, noi dobbiamo credere fermamente al fatto che lo Spirito Santo offre a tutti la possibilità di essere resi partecipi, in un modo noto a Dio, del mistero pasquale” (Gaudium et Spes 22)” (DA 15). Il Concilio, riprendendo il pensiero di alcuni Padri della chiesa, afferma che in tali tradizioni c’è “un raggio di quella verità che illumina tutti” (NA 2), vi sono i semi del Verbo, cioè “i doni che un Dio generoso ha distribuito presso tutte le nazioni“ (Ad Gentes 11); il bene “è seminato” non solo “nelle menti e nei cuori”, ma anche “nei riti e costumi dei popoli” (LG 17; cf. DA 16). Il Concilio ha chiaramente “riconosciuto la presenza di valori positivi non solo nella vita religiosa dei singoli credenti di altre tradizioni religiose, ma anche nelle tradizioni religiose stesse di cui essi appartengono. Esso attribuisce questi valori alla presenza attiva di Dio per mezzo del Suo Verbo, mettendo in rilievo anche l’azione universale dello Spirito […]” (DA 17), che “era al lavoro nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato” (AG 4)Questi fattori sono come preparazione del Vangelo (cf. LG 16), “hanno svolto e svolgono tuttora un ruolo provvidenziale nella economia divina della salvezza” (DA 17). La chiesa realizza il dialogo e la collaborazione con le altre tradizioni religiose, testimoniando la propria fede, ma anche riconoscendo, preservando e incoraggiando il loro bene spirituale e morale , i loro valori culturali e sociali (cf. NA 2; DA 17). L’attività missionaria della chiesa è sempre necessaria, poiché in Cristo gli elementi positivi delle altre religioni vengono perfezionati. Infatti “ogni verità e grazia vengono trovate presso le nazioni come una sorta di presenza segreta di Dio, vengono liberate da questa attività da ogni macchia di male, e vengono ricondotte a Cristo, il loro Artefice, il quale sbaraglia il potere del diavolo ed estromette la multiforme malizia del vizio. In questo modo, ogni bene seminato nelle menti e nei cuori degli uomini o nei riti e nelle culture peculiari ai vari popoli, non viene perduto, e anzi, ancor più, esso è guarito, reso nobile e perfezionato per la gloria di Dio, la sconfitta del demonio e la felicità degli uomini” (AG 9; DA 18).
Il Documento situa il suo discorso del dialogo interreligioso nell’orizzonte biblico, storico-salvifico. Il piano salvifico è unico e abbraccia tutta l’umanità; infatti il progetto di Dio con la creazione è un Patto con tutte le genti (Gn 1,11); “Noè, l’uomo che “camminava con Dio” (Gn 6,9), è un simbolo dell’intervento divino nella storia delle nazioni. I personaggi non-israelitici dell’Antico Testamento sono considerati, nel Nuovo, appartenenti a tale storia della salvezza. Abele, Enoch e Noè sono proposti come modelli di fede (cfr Eb 11, 4-7). È questa storia della salvezza che vede il suo compimento finale in Gesù Cristo, nel quale è sancita la nuova e definitiva Alleanza per tutti popoli” (DA 19). Israele è il popolo eletto, chiamato ad essere fedele al monoteismo e di santificare il suo Nome dinanzi alle nazioni (missione). I profeti richiamano Israele continuamene alla fedeltà all’Unico Dio e annunciano il Messia promesso. “Questi profeti, in maniera particolare al tempo dell’Esilio, forniscono una prospettiva universalistica, dal momento che la salvezza di Dio viene vista da loro estendersi oltre e attraverso Israele a tutte le nazioni. Così, Isaia preannuncia che negli ultimi giorni tutte le nazioni affluiranno a la casa di Dio, e diranno: ‘Venite, andiamo alla montagna del Signore, alla casa del Dio di Giacobbe; possa Egli insegnarci le Sue vie e possiamo noi camminare suoi sentieri!’ (Is 52,10). Anche nella letteratura sapienziale, che resa testimonianza degli scambi culturali tra Israele e i popoli suoi vicini, viene chiaramente affermata l’azione di Dio all’interno dell’intero universo. Essa va oltre i confini del Popolo Eletto per arrivare a toccare tanto la storia delle nazioni quanto le vite dei singoli individui” (DA 20). La dimensione universale salvifica è confermata anche dalla missione di Gesù. Inizialmente “professa di essere venuto a radunare le pecore perdute di Israele (cfr Mt 15,24) e proibisce ai suoi discepoli, per un certo periodo, di rivolgersi ai Gentili (cfr Mt 10,5). Tuttavia, Egli dimostra un atteggiamento di apertura nei confronti degli uomini e delle donne che non appartengono al popolo eletto di Israele: Egli entra in dialogo con loro e riconosce il bene che è in essi; si meraviglia nella prontezza a credere del centurione, affermando di non aver mai trovato una fede così grande in Israele (cfr Mt 8,5-13); compie miracoli di guarigione degli ‘stranieri’ (cfr Mc 7,24-30; Mt 15,21-28), e questi miracoli sono dei segni della venuta del Regno; conversa con la Samaritana e le parla di un tempo in cui l’adorazione non sarà ristretta ad alcun luogo particolare, in cui tutti i credenti ‘adoreranno il Padre in spirito e verità’ (Gv 4,23)” (DA 21). L’opera salvifica superala realtà locale e si apre agli orizzonti universali per la dimensione cristologica e pneumatologica, in quanto “il nuovo santuario è ora il corpo del Signore Gesù (cfr Gv 2,21), che il Padre ha innalzato nel potere dello Spirito” (DA 21).
Con Gesù il Regno fa irruzione nella storia ed inizia il suo ministero nella Galilea delle genti, annunciando che per entrare in esso occorre la conversione (Mc 1,15). “Questo messaggio non è rivolto solo alla cerchia limitata di quanti appartengono al popolo eletto: Gesù, infatti, annuncia esplicitamente l’ingresso dei Gentili nel Regno di Dio (cfr Mt 8,10-11; Mt 11,20-24, Mt 25,31-32,34), un Regno che deve essere considerato allo storico escatologico. Si tratta del Regno tanto del Padre, per la venuta era necessario pregare (cfr Mt 6,10), quanto del Figlio, dal momento che Gesù dichiara apertamente di essere Re (cfr Gv 18,33-37)” (DA 22) . Gesù Cristo è il Figlio di Dio fatto uomo che realizza la pienezza della rivelazione e della salvezza per tutte le nazioni (cf. DA 22), è la “Sapienza di Dio, la Parola di Dio che illumina ogni uomo (cfr Gv 1,9) e che, con la sua Incarnazione pianta la sua tenda tra di noi (cfr Gv 1,14)” (DA 23). Il NT, da una parte è critico verso coloro che seguono l’idolatria (Rm 1,18-32), nello stesso tempo Paolo apprezza il culto del Dio ignoto (cfr At 17,22-34) che ha trovato ad Atene. Questa dialettica la si riscontra anche nella tradizione postbiblica. Alcuni Padri sono molto critici nei confronti del mondo religioso del loro tempo, mentre altri sviluppano una riflessione positiva: “In particolare, scrittori del secondo secolo e della prima parte del terzo secolo come Giustino, Ireneo e Clemente d’Alessandria, più o meno esplicitamente, parlano dei ‘semi’ piantati dal Verbo di Dio nelle nazioni, tanto che si può dire che secondo loro Dio a già manifestato sé stesso, in maniera incompleta, prima al di fuori della rivelazione cristiana. Questa manifestazione del ‘Logos’ è una primizia della piena rivelazione in Gesù Cristo cui essa tende” (DA 24). Un altro importante contributo patristico è stato quello dalle teologia della storia dei più antichi Padri della chiesa. “La storia diviene storia della salvezza, dal momento che attraverso di essa Dio si manifesta progressivamente e comunica con l’umanità. Questo processo di manifestazione e comunicazione divina raggiunge il suo apice nell’incarnazione del Figlio di Dio in Gesù Cristo. Per questo motivo Ireneo distingue quattro ‘alleanze’ offerte da Dio al genere umano: in Adamo, in Noè, in Mosè ed in Gesù Cristo” (DA 25). Questa corrente patristica culmina in Agostino,“il quale, nelle sue opere più tarde, mette in evidenza la presenza universale e l’influenza del mistero di Cristo anche prima dell’Incarnazione. Per completare il suo piano di salvezza, Dio nel suo Figlio si è offerto all’intera umanità. Per cui, per un certo senso, la Cristianità esiste già ‘all’inizio del genere umano’” (DA 25).
Un grande contributo alla teologia delle religioni è stato offerto dal Magistero di Giovanni Paolo II che, “In primo momento il Papa ha riconosciuto la presenza operativa dello Spirito Santo nella vita dei membri delle altre tradizioni religiose, come nel passo della ‘Redemptor Hominis’ in cui egli parla della loro ‘fede salda’ come di ‘un effetto dello Spirito di verità operante al di fuori dei confini visibili del Corpo Mistico’ (No. 6). In ‘Dominum et Vivificantem’, il Pontefice compie un passo ulteriore, affermando l’azione universale dello stesso Spirito oggi, anche al di fuori del corpo visibile della Chiesa (cfr No. 53)” (DA 26). Egli ha ripetutamente sottolineato la presenza universale dello Spirito, come, ad esempio, nel suo discorso rivolto alla Curia Romana dopo la Giornata Mondiale della Preghiera per la Pace ad Assisi,: “[…] ‘ogni persona che prega con l’atteggiamento di autenticità è ispirata dallo Spirito Santo, che è misteriosamente presente nel cuore di ognuno’, Cristiano o meno. Ma di ancora nuovo nello stesso discorso, il Papa, andando oltre la prospettiva individuale, ha articolato gli elementi principali che devono essere considerati le basi teologiche per un approccio positivo alle altre tradizioni religiose e alla pratica del dialogo interreligioso” (DA 27).Giovanni Paolo II ha sottolineato che tutta l’umanità costituisce una sola famiglia, poiché tutti gli uomini e le donne sono stati creati ad immagine di Dio e sono destinati alla pienezza della vita in Dio. “Inoltre, vi è un solo piano di salvezza per l’umanità, con il suo centro in Gesù Cristo, il quale nella sua incarnazione ‘si è unito in un certo qual modo ad ogni persona’ (RH 13; cfr 65 22,2). Infine, è necessario menzionare l’attiva presenza dello Spirito Santo nella vita religiosa dei membri delle altre tradizioni religiose. Da tutti questi elementi il Papa arriva a definire il ‘mistero dell’unità’, che è stato manifestato chiaramente ad Assisi, ‘nonostante le differenze tra le confessioni religiose’” (DA 28). Tutti gli uomini e le donne che sono salvati partecipano allo stesso mistero di salvezza in Cristo per mezzo dello Spirito, anche se in modo diverso. I cristiani sono consapevoli del mistero salvifico cristologico e pneumatologico per la loro fede, mentre gli altri uomini e donne sono inconsapevoli di ciò. “Il mistero della salvezza li raggiunge, in una maniera nota a Dio, tramite l’azione invisibile dello Spirito del Cristo. Dal punto di vista concreto, sarà nella pratica sincera di ciò che è buono nelle proprie tradizioni religiose e seguendo la voce della propria coscienza che i membri delle altre religioni risponderanno positivamente alla chiamata di Dio e riceveranno la salvezza in Gesù Cristo, anche se essi non lo ritengono o non lo riconoscono come il loro salvatore (cfr AG 3,9,11)” (DA 29) Discernere l’azione dello Spirito nella vita personale degli individui che seguono altre religioni è semplice, mentre è complesso individuare gli elementi di grazia presenti nelle altre tradizioni religiose, come risposta alla chiamata di Dio, per cui occorre realizzare il discernimento per stabilire dei criteri: “Gli individui sinceri marchiati dallo Spirito di Dio hanno certamente messo il loro sforzo personale nell’elaborazione e nello sviluppo delle loro rispettive tradizioni religiose. Ciò non implica, tuttavia, che ogni cosa che si trova in esse sia buona” (DA 30). Il peccato si manifesta sempre nel mondo, per cui le tradizioni religiose, pur avendo elementi postivi, riflettono anche l’inclinazione al male per la fragilità umana. “Un approccio aperto e positivo alle altre tradizioni religiose non può sorvolare contraddizioni che possono esserci tra di esse e la rivelazione cristiana. Laddove necessario, si devono riconoscere le incompatibilità tra alcuni elementi fondamentali della religione cristiana e alcuni aspetti di tali tradizioni” (DA 31).
I cristiani devono essere aperti verso le altre religioni e con sentimenti pacifici devono informarsi presso di loro dei contenuti della loro fede,“Ma anche i Cristiani devono essere disposti ad essere messi in discussione: nonostante la pienezza della rivelazione in Dio in Gesù Cristo, il modo in cui i Cristiani a volte comprendono e praticano la propria religione può aver bisogno di purificazione” (DA 32). La chiesa è a servizio del Regno di Dio, è il sacramento nel quale il Regno è presente nel mistero, protesa verso il suo compimento escatologico, deve contribuire alla crescita del Reno (Rm 11,15); ad essa fanno riferimento coloro che si orientano (ordinantur) (LG 16), che rispondono alla chiamata di Dio come viene percepita dalla loro coscienza, attraverso la loro tradizione religiosa. Essi sono salvati in Cristo [in modo inconsapevole] e partecipano alla realtà del Regno. Una parte del ruolo della chiesa è quello di “riconoscere che la realtà embrionale del Regno si può trovare anche al di fuori di confini di se stessa, ad esempio nei cuori dei seguaci delle altre tradizioni religiose, nella misura in questi vivono i valori evangelici e sono aperti all’azione dello Spirito. Si deve ricordare tuttavia che questa è una realtà embrionale, che ha bisogno di trovare il suo compimento essendo posta in relazione con il Regno del Cristo già presente all’interno della Chiesa ma che si realizzerà soltanto nel mondo a venire” (DA 35). La chiesa, mentre procede verso la pienezza della comprensione della Rivelazione, guidata dallo Spirito di Verità, include nella sua missione evangelizzatrice anche il dialogo interreligioso, non solo per un motivo antropologico, il rispetto e l’amore verso tutti gli uomini (cf. DA 39), ma anche teologico: “Dio, in un dialogo che si protrae da lungo tempo, ha offerto e continua ad offrire la salvezza all’umanità. Nella pienezza dell’iniziativa divina, anche la chiesa deve entrare in un dialogo di salvezza con tutti gli uomini e le donne” (DA 38). Il dialogo interreligioso non mira soltanto a realizzare la comprensione reciproca e i rapporti amichevoli con i seguaci di altre fedi, ma anche la condivisione dell’esperienza spirituale, nella docilità allo Spirito del Risorto attivo in modo universale, come “mutua testimonianza della propria fede e una esplorazione comune delle proprie rispettive convinzioni religiose. Nel dialogo, i Cristiani e gli altri credenti sono invitati ad approfondire il loro impegno religioso, per rispondere con sincerità sempre più grande alla chiamata personale di Dio, la donazione di se stessa ispirata dalla Grazia – come ci insegna la nostra fede – passa sempre attraverso la mediazione di Gesù Cristo e il lavoro del Suo Spirito” (DA 40). Nella reciproca accettazione delle differenze o addirittura delle contraddizioni, il dialogo interreligioso è anzitutto conversione a Dio e anche accettazione rispettosa di coloro che, seguendo la loro coscienza, maturano la decisione di passare a un’altra religione, sempre consapevoli del fatto che secondo il Concilio, quando si arriva alla conoscenza della verità occorre aderire ad essa (cf DA 41).
Il Documento evidenzia le varie forme di dialogo, quattro, che non hanno un ordine di priorità tra loro, come indicato nel 1984 dal Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso (cf DM 28-35; DA 42): “a) Il dialogo della vita, che si ha quando le persone si sforzano di vivere con lo spirito aperto e pronta a farsi prossimo, condividendo le loro gioie e le loro pene, i loro problemi e le loro preoccupazioni umani. b) Il dialogo dell’azione, nel quale i cristiani e gli altri credenti collaborano per lo sviluppo integrale e per la liberazione del loro prossimo. c) Il dialogo dello scambio teologico, nel quale gli specialisti cercano di approfondire la propria comprensione delle loro rispettive eredità spirituali, e di apprezzare, ciascuno i valori spirituali dell’altro. d) Il dialogo dell’esperienza religiosa, nel quale le persone, radicate nelle loro tradizioni religiose condividono le loro ricchezze spirituali, per esempio nel campo della preghiera e della contemplazione, della fede e dei modi di ricercare Dio o l’Assoluto” (DA 42). Tra le varie forme di dialogo c’è connessione reciproca e nessuna può avere la supremazia sulle altre. Se il dialogo si riduce solo al contesto teologico diventa un ambito della missione della chiesa e riguarda solo gli specialisti, mentre tutti i cristiani sono chiamati al dialogo, anche se con ruoli diversi (cf. DA 43). Molto importante è il dialogo operativo aperto al sociale: “I contatti all’interno della vita quotidiana e l’impegno comune all’azione apriranno in modo naturale la porta alla collaborazione alla promozione dei valori umani e spirituali; i contatti e l’impegno comune possono anche eventualmente portare al dialogo dell’esperienza religiosa in risposta alle grandi domande che le circostanze della vita non mancano di far sorgere nelle menti degli uomini (cfr NA 2). Gli scambi a livello di esperienza religiosa possono dare maggior vita alle discussioni teologiche, e quest’ultime, in cambio, possono illuminare l’esperienza ed incoraggiare i contatti più stretti” (DA 43). Molto importante è il dialogo finalizzato allo sviluppo integrale dell’uomo, alla giustizia sociale e alla liberazione umana e le chiese locali devono impegnarsi in esso con generosità e imparzialità come testimonianza evangelica. “Bisogna battersi per i diritti umani, sostenere le richieste di giustizia e denunciare l’ingiustizia non soltanto quando ne vengono colpiti i membri della singola chiesa, ma indipendentemente dall’appartenenza religiosa delle vittime. Bisogna anche unire le forze nel tentativo di risolvere i gravi problemi che minacciano la società ed il mondo e nell’impegno all’educazione alla giustizia e alla pace” (DA 44). Una forma urgente di dialogo interreligioso è quello della cultura, che va oltre l’ambito religioso, è più vasto di esso, ma costituisce la sua dimensione trascendente, la sua anima. Le religioni hanno certamente contribuito al progresso della cultura e alla costruzione di una società più umana, ma le pratiche religiose talvolta hanno avuto un influsso alienante sulle culture. “Oggi, una cultura secolare autonoma può avere un ruolo critico nei confronti degli elementi negativi che si trovano in alcune religioni. La questione è complessa, dal momento che molteplici tradizioni religiose possono coesistere all’interno della stessa cornice culturale oppure, al contrario, la stessa religione può esprimersi all’interno di diversi ambiti culturali. Ecco quindi che le differenze religiose possono portare alla formazione di diverse culture all’interno della stessa regione geografica” (DA 45).
Il Documento non ha una visione irenica della realtà, non tace i problemi, poiché mette in risalto che a volte possono nascere tensioni e conflitti: “Un dialogo premuroso indica il riconoscimento e l’accettazione dei valori culturali che rispettano la dignità della persona umana e il suo destino trascendente. Può tuttavia accadere che alcuni aspetti delle culture cristiane tradizionali siano minacciati dalle culture locali o dalle altre tradizioni religiose (cf EN 20)” (DA 46). Il dialogo interreligioso deve contribuire al superamento dei conflitti, poiché promuove “una migliore comprensione tra le varie culture religiose di ogni singola regione geografica. Esso può contribuire a purificare le culture da alcuni elementi disumanizzanti e può essere pertanto un agente di trasformazione. Esso può anche aiutare a mantenere vivi alcuni valori culturali tradizionali che sono minacciati dalla modernità e dal livellamento verso il basso che una globalizzazione indiscriminata può portare con sé” (DA 46). Il Documento indica quali sono gli atteggiamenti richiesti per il dialogo interreligioso. Si richiede anzitutto l’equilibrio da parte di tutti: “Il dialogo richiede, tanto da parte dei Cristiani quanto da parte dei seguaci delle altre tradizioni, un atteggiamento equilibrato. Essi non devono essere ingenui, né eccessivamente critici, ma aperti e recettivi. La non chiusura su sé stessi, l’imparzialità e l’accettazione di differenze e di possibili contraddizioni sono dati già menzionate. Le altre disposizioni richieste sono la volontà di battersi insieme in difesa della verità e della prontezza nell’acconsentire ad essere trasformati dall’incontro” (DA 47). Si richiede di essere fedeli alle proprie convinzioni religiose: “Ciò non significa che quanti partecipano al dialogo debbano mettere da parte le loro rispettive convinzioni religiose. È vero esattamente il contrario: la sincerità del dialogo interreligioso richiede che ciascuno lo affronti nell’integrità della propria fede. Allo stesso tempo i Cristiani, pur rimanendo fermi nel credere che in Gesù Cristo – l’unico mediatore tra Dio e l’uomo (cfr 1Tim, 4 – 6) – è stata data loro la pienezza della rivelazione, devono ricordare che Dio si è manifestato in un certo qual modo anche ai seguaci delle altre tradizioni religiose. Di conseguenza, essi si avvicinano alle convinzioni e ai valori altrui con menti ricettive” (DA 48).
Nel dialogo interreligioso bisogna mettere da parte la superbia spirituale, l’atteggiamento di protagonismo sprezzante o di supremazia: “La pienezza della verità ricevuta in Gesù Cristo non dà ai singoli cristiani la garanzia di aver raggiunto pienamente tale verità. Ad un’analisi approfondita emerge il fatto che la verità non è una cosa che noi possediamo, ma una Persona dalla quale dobbiamo accettare di essere posseduti. Questo è un processo senza fine. I Cristiani, sforzandosi di mantenere intatta la propria identità, devono essere pronti ad imparare e a ricevere da e attraverso gli altri credenti i valori positivi delle loro tradizioni. Attraverso il dialogo, essi devono essere spinti ad estirpare pregiudizi radicati, a rivedere idee preconcette e talvolta anche a permettere che venga purificata la comprensione della loro stessa fede” (DA 49).L’effetto, il frutto, del dialogo interreligioso realizzato con lo stile indicato dal Documento è quello di scoprire con gioia i doni delle altre religioni, senza venir meno alla propria fede: “Se i Cristiani coltivano questa apertura e si rendono disponibili ad essere messi alla prova, potranno raccogliere i frutti del dialogo. Essi scoprono con ammirazione tutto ciò che l’azione di Dio per mezzo di Gesù Cristo nel Suo Spirito ha compiuto e continua a compiere nel mondo e in tutta l’umanità. Lunghi dall’indebolire la loro fede, il dialogo antico la approfondirà; essi diverranno sempre più consapevoli della loro propria identità cristiana e percepiranno sempre più chiaramente gli elementi distintivi del messaggio cristiano. La loro fede guadagnerà nuove dimensioni quando essi scopriranno la presenza attiva del mistero di Gesù Cristo oltre i confini visibili della chiesa e della comunità cristiana” (DA 50). Il Documento evidenza anche gli ostacoli per il dialogo in genere e per quello interreligioso in particolare. Per poterli superare occorre essere consapevoli degli ostacoli. Alcuni riguardano tutte le tradizioni religiose mentre altri sono specifici di alcune (cf. DA 51). Gli ostacoli sono svariati: “a) Un insufficiente radicamento nella propria fede. b) Un’insufficiente conoscenza e comprensione della fede e delle pratiche delle altre religioni, che porta a una mancanza di riconoscimento del loro significato e persino, a volte, ad una errata rappresentazione. c) Fattori socio – politici o retaggi del passato. d) Una erronea comprensione del significato di termini come conversione, battesimo, dialogo, etc. e) Supponenza, mancanza di apertura che porta ad atteggiamenti difensivi o aggressivi. f) Una mancanza di convinzione dell’importanza del dialogo interreligioso, che potrebbe essere visto da qualcuno come un obiettivo riservato agli specialisti, e da altri come un segno di debolezza o addirittura un tradimento della fede. g) Sospetti sulle autentiche motivazioni dell’altro nel dialogo. h) Uno spirito polemico nell’esprimere le proprie convinzioni religiose. i) L’intolleranza, che è spesso aggravata dall’interconnessione con i fattori politici, economici, razionali ed etnici, una mancanza di reciprocità nel dialogo che può portare alla frustrazione. j) Alcune realtà dell’attuale clima religioso, come ad esempio il crescente materialismo, l’indifferenza religiosa ed il diffondersi sempre maggiore di sette religiose che creano confusione e fanno sorgere nuovi problemi” (DA 52).
Spesso gli ostacoli in genere provengono dal fatto che manca un’adeguata comprensione della vera natura e dello scopo del dialogo interreligioso, per cui vanno spiegati con molta pazienza. Per la chiesa c’è un altro fattore, cioè la consapevolezza che il dialogo è partecipazione a quello divino a cui spetta l’iniziativa: “Bisogna ricordare che l’impegno della chiesa nel dialogo non dipende dal suo riuscire o meno a raggiungere la matura comprensione e il maturo arricchimento, ma scaturisce dall’iniziativa di Dio di entrare in dialogo con l’umanità e dall’esempio di Gesù Cristo la cui vita, morte e resurrezione hanno dato l’espressione più piena a tale dialogo” (DA 53). Gli ostacoli non devono portare alla sfiducia, poiché non bisogna dimenticare i progressi che ci sono stati sulla comprensione reciproca e sulla cooperazione. Tutto ciò ha influito anche sulla vita delle chiesa e delle altre tradizioni portandole ad una maggiore apertura e al rinnovamento. Per la chiesa il dialogo è anche una testimonianza evangelica: “Il dialogo interreligioso ha consentito alla chiesa di poter condividere con gli altri credenti i valori del Vangelo. Così, nonostante le difficoltà, l’impegno nel dialogo da parte della chiesa rimane fermo e irreversibile” (DA 54). Nonostante la distinzione tra annuncio e dialogo per i cristiani sono intimamente connessi: “[…] il vero dialogo religioso presuppone, da parte dei Cristiani, il desiderio di conoscere meglio, riconoscere e amare Gesù Cristo; l’annuncio di Gesù Cristo deve essere portato avanti nello spirito evangelico del dialogo. Le due attività rimangono distinte, ma come mostra l’esperienza, la stesa Chiesa locale o la stessa persona possono essere impegnate in entrambe in maniera diversa” (DA 77). La stessa missione della chiesa nella sua globalità, aperta al discernimento dei segni dei tempi, richiede lo stile del dialogo (lo spirito di dialogo). La missione evangelizzatrice “richiede un discernimento basato sulla preghiera e una riflessione teologica sul significato del piano di Dio nelle diverse tradizioni religiose e nell’esperienza di quanti si trovano in esse nutrimento spirituale” (DA 78). La chiesa nella sua missione incontra le persone che seguono altre tradizioni religiose e le reazioni alla testimonianza evangelica sono svariate. Ci sono coloro che in piena libertà decidono di aderire al Vangelo, altri sono indifferenti o contrari, oppure sono interessati ma per vari motivi restano solo simpatizzanti. La missione della chiesa si rivolge a tutti: “Si può vedere come la Chiesa possa avere un luogo profetico nel dialogo anche in relazione alle religioni cui le persone alle quali essa si rivolge appartengono: testimoniando i valori del Vangelo, essa fa nascere degli interessi rogativi all’interno di queste religioni” (DA 79). Il confronto interreligioso che è necessario comporta una sfida che diventa anche emulazione reciproca che deve tendere alla realizzazione della fraternità universale: “Al termine della giornata di preghiera, digiuno e pellegrinaggio per la pace, svoltasi ad Assisi, Papa Giovanni Paolo II ha detto: ‘Cerchiamo di vedere in questa giornata un’anteprima di ciò a cui Dio vorrebbe che lo sviluppo della storia dell’umanità porti: una giornata vissuta in fraternità, nella quale ci accompagniamo gli uni agli altri fino alla meta trascendente che Egli ha stabilito per noi’” (DA 79).
La chiesa è impegnata a promuovere e incoraggiare “il dialogo non solo tra sé stessa e le altre tradizioni religiose, ma anche quello tra le varie tradizioni religiose stesse” (DA 80). Tutto ciò costituisce un’espressione dell’identità teologica della chiesa che è quella di essere “sacramento, vale a dire uno strumento di comunione con Dio e di unità tra tutti i popoli” (LG 1). La chiesa non può venire meno al dialogo interreligioso poiché deve testimoniare il dialogo salvifico di Dio e lo Spirito la sostiene per “incoraggiare tutte le istituzioni e i movimenti religiosi a incontrarsi, a entrare in collaborazione e a purificare se stessi al fine di promuovere la verità e la vita, la santità, la giustizia, l’amore e la pace, le dimensioni di quel Regno che, alla fine dei tempi, Cristo riconsegnerà a Suo Padre (cfr 1Cor 15,24)” (DA 80). L’annuncio dialogante della chiesa, che è un dono di Dio da chiedere con la preghiera, non può essere generico, poiché ciascuna religione differisce dalle altre per cui bisogna rivolgere “una particolare attenzione alle relazioni con i seguaci di ciascuna religione” (DA 87). Va tenuto contesto geopoltico, socio-culturale di ciascuna religione per poterla conoscere meglio. La Conferenza episcopale dovrebbe affidare tali studi a commissioni appropriate e agli istituti teologici e pastorali: “Alla luce dei risultati di questi studi, questi istituti potrebbero anche organizzare corsi speciali e sessioni di studio finalizzati a formare le persone al dialogo e all’annuncio. Bisogna rivolgere un’attenzione particolare ai giovani che vivono in un ambiente pluralistico, che incontrano seguaci di altre religioni a scuola, sul lavoro, nei movimenti giovanili, nelle associazioni di altro tipo o persino nelle loro stesse famiglie” (DA 88).
di Lucia Antinucci
L’URGENZA DEL DIALOGO INTERRELIGIOSO
Queste mie riflessioni si basano sul Documento, sempre molto attuale, del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso ‘Dialogo e annuncio’ (DA / 1991) che riprende il Documento Dialogo e Missione (1984), sviluppandolo in modo più articolato. DA ha come destinatari non solo le guide delle comunità cattoliche, ma anche delle altre comunità cristiane e di altre fedi. Esso va letto alla luce dell’enciclica Redemptoris Missio (RM / 1990 cf. nn. 55-57) e intende promuovere la formazione al dialogo interreligioso (cf. DA 7). Vi sono molteplici fattori che hanno reso necessario affrontare il tema del dialogo e dell’annuncio: “a) Nel mondo di oggi, caratterizzato dalla velocità delle comunicazioni, dalla mobilità delle persone e dall’interdipendenza, vi è una nuova presa di coscienza di un pluralismo religioso. Non si può affermare che le religioni esistono o sopravvivono: incerti casi, esse forniscono una chiara dimostrazione di rinascita. Esse continuano a ispirare e a guidare le vite di milioni dei loro aderenti. Nell’attuale contesto di pluralità religiosa, il ruolo importante che viene svolto dalle tradizioni religiose non può essere ignorato” (DA 4). Il dialogo interreligioso, inaugurato ufficialmente dal Concilio Vaticano II, viene compreso molto gradualmente e stenta a decollare; è attuato, infatti, solo in alcuni paesi a causa anche della consistenza numerica della comunità cristiana. Esso, però, viene anche frainteso, poiché secondo alcuni ha preso il posto dell’annuncio, mentre secondo altri il dialogo interreligioso non ha valore. Vi sono poi coloro che sono perplessi: “[…] se il dialogo interreligioso è diventato così importante, l’annuncio del vangelo ha perso la sua urgenza? Lo sforzo di introdurre di introdurre le persone all’interno della comunità della Chiesa è divenuto secondario o addirittura superfluo?” (DA 4c). L’importanza dl dialogo interreligioso è stato rilanciato da Giovanni Paolo II anche con il significativo incontro di preghiera per la pace ad Assisi il 27 ottobre 1986 con i rappresenti religiosi di tutto il mondo (cf DA 5). Il Documento evidenzia il significato del dialogo, partendo dalla sua dimensione antropologica: “ […] a livello puramente umano, esso significa ‘comunicazione reciproca’, che conduce ad un obiettivo comune o a un livello più profondo, alla comunione interpersonale” (DA 9). Il dialogo in senso lato indica i rapporti umani di amicizia e di rispetto come pure la globalità della missione evangelizzatrice della chiesa, che deve essere realizzata in base allo spirito del dialogo. “In terzo luogo, nel contesto del pluralismo religioso, dialogo significa ‘ogni tipo di relazione interreligiosa positiva e costruttiva con individui e comunità appartenenti ad altre fedi, che sia mirato alla muta comprensione e al mutuo arricchimento’ (DM 3), nel pieno rispetto della verità e della libertà. Esso comprende sia la testimonianza, sia l’esplorazione delle rispettive convinzioni religiose” (DA 9). Il dialogo si distingue dall’annuncio che è la comunicazione del messaggio del Vangelo per favore la fede in Cristo come membra della chiesa (cf. DA 10).
Il dialogo interreligioso si fonda su una valutazione teologica delle altre tradizioni religiose, in base alle prospettive emerse dal Concilio, ma anche su uno stretto contatto con esse: “Queste tradizioni devono essere avvicinate con una grande sensibilità, tenendo sempre conto dei valori sperimentali e umani che sono racchiuse in esse. Esse esigono il nostro rispetto poiché, nel corso dei secoli, hanno reso testimonianza dei (loro) grandi sforzi di trovare risposte ai profondi misteri della condizione umana” (NA 1), e hanno dato espressione all’esperienza religiosa e continuano a farlo tuttora” (DA 14). Il Concilio ha ripreso la dottrina tradizionale secondo cui la salvezza cristologica è aperta a tutte le persone di buona volontà, poiché il nuovo Adamo, per mezzo del mistero pasquale, opera il rinnovamento di ogni essere umano e la grazia del Spirito Santo agisce nei cuori di tutte le persone di buona volontà, come già evidenziato da Dialogo e missione. “Poiché, dal momento che Cristo è morto per tutti, e dal momento che tutti sono di fatto chiamati allo stesso unico destino, che è divino, noi dobbiamo credere fermamente al fatto che lo Spirito Santo offre a tutti la possibilità di essere resi partecipi, in un modo noto a Dio, del mistero pasquale” (Gaudium et Spes 22)” (DA 15). Il Concilio, riprendendo il pensiero di alcuni Padri della chiesa, afferma che in tali tradizioni c’è “un raggio di quella verità che illumina tutti” (NA 2), vi sono i semi del Verbo, cioè “i doni che un Dio generoso ha distribuito presso tutte le nazioni“ (Ad Gentes 11); il bene “è seminato” non solo “nelle menti e nei cuori”, ma anche “nei riti e costumi dei popoli” (LG 17; cf. DA 16). Il Concilio ha chiaramente “riconosciuto la presenza di valori positivi non solo nella vita religiosa dei singoli credenti di altre tradizioni religiose, ma anche nelle tradizioni religiose stesse di cui essi appartengono. Esso attribuisce questi valori alla presenza attiva di Dio per mezzo del Suo Verbo, mettendo in rilievo anche l’azione universale dello Spirito […]” (DA 17), che “era al lavoro nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato” (AG 4)Questi fattori sono come preparazione del Vangelo (cf. LG 16), “hanno svolto e svolgono tuttora un ruolo provvidenziale nella economia divina della salvezza” (DA 17). La chiesa realizza il dialogo e la collaborazione con le altre tradizioni religiose, testimoniando la propria fede, ma anche riconoscendo, preservando e incoraggiando il loro bene spirituale e morale , i loro valori culturali e sociali (cf. NA 2; DA 17). L’attività missionaria della chiesa è sempre necessaria, poiché in Cristo gli elementi positivi delle altre religioni vengono perfezionati. Infatti “ogni verità e grazia vengono trovate presso le nazioni come una sorta di presenza segreta di Dio, vengono liberate da questa attività da ogni macchia di male, e vengono ricondotte a Cristo, il loro Artefice, il quale sbaraglia il potere del diavolo ed estromette la multiforme malizia del vizio. In questo modo, ogni bene seminato nelle menti e nei cuori degli uomini o nei riti e nelle culture peculiari ai vari popoli, non viene perduto, e anzi, ancor più, esso è guarito, reso nobile e perfezionato per la gloria di Dio, la sconfitta del demonio e la felicità degli uomini” (AG 9; DA 18).
Il Documento situa il suo discorso del dialogo interreligioso nell’orizzonte biblico, storico-salvifico. Il piano salvifico è unico e abbraccia tutta l’umanità; infatti il progetto di Dio con la creazione è un Patto con tutte le genti (Gn 1,11); “Noè, l’uomo che “camminava con Dio” (Gn 6,9), è un simbolo dell’intervento divino nella storia delle nazioni. I personaggi non-israelitici dell’Antico Testamento sono considerati, nel Nuovo, appartenenti a tale storia della salvezza. Abele, Enoch e Noè sono proposti come modelli di fede (cfr Eb 11, 4-7). È questa storia della salvezza che vede il suo compimento finale in Gesù Cristo, nel quale è sancita la nuova e definitiva Alleanza per tutti popoli” (DA 19). Israele è il popolo eletto, chiamato ad essere fedele al monoteismo e di santificare il suo Nome dinanzi alle nazioni (missione). I profeti richiamano Israele continuamene alla fedeltà all’Unico Dio e annunciano il Messia promesso. “Questi profeti, in maniera particolare al tempo dell’Esilio, forniscono una prospettiva universalistica, dal momento che la salvezza di Dio viene vista da loro estendersi oltre e attraverso Israele a tutte le nazioni. Così, Isaia preannuncia che negli ultimi giorni tutte le nazioni affluiranno a la casa di Dio, e diranno: ‘Venite, andiamo alla montagna del Signore, alla casa del Dio di Giacobbe; possa Egli insegnarci le Sue vie e possiamo noi camminare suoi sentieri!’ (Is 52,10). Anche nella letteratura sapienziale, che resa testimonianza degli scambi culturali tra Israele e i popoli suoi vicini, viene chiaramente affermata l’azione di Dio all’interno dell’intero universo. Essa va oltre i confini del Popolo Eletto per arrivare a toccare tanto la storia delle nazioni quanto le vite dei singoli individui” (DA 20). La dimensione universale salvifica è confermata anche dalla missione di Gesù. Inizialmente “professa di essere venuto a radunare le pecore perdute di Israele (cfr Mt 15,24) e proibisce ai suoi discepoli, per un certo periodo, di rivolgersi ai Gentili (cfr Mt 10,5). Tuttavia, Egli dimostra un atteggiamento di apertura nei confronti degli uomini e delle donne che non appartengono al popolo eletto di Israele: Egli entra in dialogo con loro e riconosce il bene che è in essi; si meraviglia nella prontezza a credere del centurione, affermando di non aver mai trovato una fede così grande in Israele (cfr Mt 8,5-13); compie miracoli di guarigione degli ‘stranieri’ (cfr Mc 7,24-30; Mt 15,21-28), e questi miracoli sono dei segni della venuta del Regno; conversa con la Samaritana e le parla di un tempo in cui l’adorazione non sarà ristretta ad alcun luogo particolare, in cui tutti i credenti ‘adoreranno il Padre in spirito e verità’ (Gv 4,23)” (DA 21). L’opera salvifica superala realtà locale e si apre agli orizzonti universali per la dimensione cristologica e pneumatologica, in quanto “il nuovo santuario è ora il corpo del Signore Gesù (cfr Gv 2,21), che il Padre ha innalzato nel potere dello Spirito” (DA 21).
Con Gesù il Regno fa irruzione nella storia ed inizia il suo ministero nella Galilea delle genti, annunciando che per entrare in esso occorre la conversione (Mc 1,15). “Questo messaggio non è rivolto solo alla cerchia limitata di quanti appartengono al popolo eletto: Gesù, infatti, annuncia esplicitamente l’ingresso dei Gentili nel Regno di Dio (cfr Mt 8,10-11; Mt 11,20-24, Mt 25,31-32,34), un Regno che deve essere considerato allo storico escatologico. Si tratta del Regno tanto del Padre, per la venuta era necessario pregare (cfr Mt 6,10), quanto del Figlio, dal momento che Gesù dichiara apertamente di essere Re (cfr Gv 18,33-37)” (DA 22) . Gesù Cristo è il Figlio di Dio fatto uomo che realizza la pienezza della rivelazione e della salvezza per tutte le nazioni (cf. DA 22), è la “Sapienza di Dio, la Parola di Dio che illumina ogni uomo (cfr Gv 1,9) e che, con la sua Incarnazione pianta la sua tenda tra di noi (cfr Gv 1,14)” (DA 23). Il NT, da una parte è critico verso coloro che seguono l’idolatria (Rm 1,18-32), nello stesso tempo Paolo apprezza il culto del Dio ignoto (cfr At 17,22-34) che ha trovato ad Atene. Questa dialettica la si riscontra anche nella tradizione postbiblica. Alcuni Padri sono molto critici nei confronti del mondo religioso del loro tempo, mentre altri sviluppano una riflessione positiva: “In particolare, scrittori del secondo secolo e della prima parte del terzo secolo come Giustino, Ireneo e Clemente d’Alessandria, più o meno esplicitamente, parlano dei ‘semi’ piantati dal Verbo di Dio nelle nazioni, tanto che si può dire che secondo loro Dio a già manifestato sé stesso, in maniera incompleta, prima al di fuori della rivelazione cristiana. Questa manifestazione del ‘Logos’ è una primizia della piena rivelazione in Gesù Cristo cui essa tende” (DA 24). Un altro importante contributo patristico è stato quello dalle teologia della storia dei più antichi Padri della chiesa. “La storia diviene storia della salvezza, dal momento che attraverso di essa Dio si manifesta progressivamente e comunica con l’umanità. Questo processo di manifestazione e comunicazione divina raggiunge il suo apice nell’incarnazione del Figlio di Dio in Gesù Cristo. Per questo motivo Ireneo distingue quattro ‘alleanze’ offerte da Dio al genere umano: in Adamo, in Noè, in Mosè ed in Gesù Cristo” (DA 25). Questa corrente patristica culmina in Agostino,“il quale, nelle sue opere più tarde, mette in evidenza la presenza universale e l’influenza del mistero di Cristo anche prima dell’Incarnazione. Per completare il suo piano di salvezza, Dio nel suo Figlio si è offerto all’intera umanità. Per cui, per un certo senso, la Cristianità esiste già ‘all’inizio del genere umano’” (DA 25).
Un grande contributo alla teologia delle religioni è stato offerto dal Magistero di Giovanni Paolo II che, “In primo momento il Papa ha riconosciuto la presenza operativa dello Spirito Santo nella vita dei membri delle altre tradizioni religiose, come nel passo della ‘Redemptor Hominis’ in cui egli parla della loro ‘fede salda’ come di ‘un effetto dello Spirito di verità operante al di fuori dei confini visibili del Corpo Mistico’ (No. 6). In ‘Dominum et Vivificantem’, il Pontefice compie un passo ulteriore, affermando l’azione universale dello stesso Spirito oggi, anche al di fuori del corpo visibile della Chiesa (cfr No. 53)” (DA 26). Egli ha ripetutamente sottolineato la presenza universale dello Spirito, come, ad esempio, nel suo discorso rivolto alla Curia Romana dopo la Giornata Mondiale della Preghiera per la Pace ad Assisi,: “[…] ‘ogni persona che prega con l’atteggiamento di autenticità è ispirata dallo Spirito Santo, che è misteriosamente presente nel cuore di ognuno’, Cristiano o meno. Ma di ancora nuovo nello stesso discorso, il Papa, andando oltre la prospettiva individuale, ha articolato gli elementi principali che devono essere considerati le basi teologiche per un approccio positivo alle altre tradizioni religiose e alla pratica del dialogo interreligioso” (DA 27).Giovanni Paolo II ha sottolineato che tutta l’umanità costituisce una sola famiglia, poiché tutti gli uomini e le donne sono stati creati ad immagine di Dio e sono destinati alla pienezza della vita in Dio. “Inoltre, vi è un solo piano di salvezza per l’umanità, con il suo centro in Gesù Cristo, il quale nella sua incarnazione ‘si è unito in un certo qual modo ad ogni persona’ (RH 13; cfr 65 22,2). Infine, è necessario menzionare l’attiva presenza dello Spirito Santo nella vita religiosa dei membri delle altre tradizioni religiose. Da tutti questi elementi il Papa arriva a definire il ‘mistero dell’unità’, che è stato manifestato chiaramente ad Assisi, ‘nonostante le differenze tra le confessioni religiose’” (DA 28). Tutti gli uomini e le donne che sono salvati partecipano allo stesso mistero di salvezza in Cristo per mezzo dello Spirito, anche se in modo diverso. I cristiani sono consapevoli del mistero salvifico cristologico e pneumatologico per la loro fede, mentre gli altri uomini e donne sono inconsapevoli di ciò. “Il mistero della salvezza li raggiunge, in una maniera nota a Dio, tramite l’azione invisibile dello Spirito del Cristo. Dal punto di vista concreto, sarà nella pratica sincera di ciò che è buono nelle proprie tradizioni religiose e seguendo la voce della propria coscienza che i membri delle altre religioni risponderanno positivamente alla chiamata di Dio e riceveranno la salvezza in Gesù Cristo, anche se essi non lo ritengono o non lo riconoscono come il loro salvatore (cfr AG 3,9,11)” (DA 29) Discernere l’azione dello Spirito nella vita personale degli individui che seguono altre religioni è semplice, mentre è complesso individuare gli elementi di grazia presenti nelle altre tradizioni religiose, come risposta alla chiamata di Dio, per cui occorre realizzare il discernimento per stabilire dei criteri: “Gli individui sinceri marchiati dallo Spirito di Dio hanno certamente messo il loro sforzo personale nell’elaborazione e nello sviluppo delle loro rispettive tradizioni religiose. Ciò non implica, tuttavia, che ogni cosa che si trova in esse sia buona” (DA 30). Il peccato si manifesta sempre nel mondo, per cui le tradizioni religiose, pur avendo elementi postivi, riflettono anche l’inclinazione al male per la fragilità umana. “Un approccio aperto e positivo alle altre tradizioni religiose non può sorvolare contraddizioni che possono esserci tra di esse e la rivelazione cristiana. Laddove necessario, si devono riconoscere le incompatibilità tra alcuni elementi fondamentali della religione cristiana e alcuni aspetti di tali tradizioni” (DA 31).
I cristiani devono essere aperti verso le altre religioni e con sentimenti pacifici devono informarsi presso di loro dei contenuti della loro fede,“Ma anche i Cristiani devono essere disposti ad essere messi in discussione: nonostante la pienezza della rivelazione in Dio in Gesù Cristo, il modo in cui i Cristiani a volte comprendono e praticano la propria religione può aver bisogno di purificazione” (DA 32). La chiesa è a servizio del Regno di Dio, è il sacramento nel quale il Regno è presente nel mistero, protesa verso il suo compimento escatologico, deve contribuire alla crescita del Reno (Rm 11,15); ad essa fanno riferimento coloro che si orientano (ordinantur) (LG 16), che rispondono alla chiamata di Dio come viene percepita dalla loro coscienza, attraverso la loro tradizione religiosa. Essi sono salvati in Cristo [in modo inconsapevole] e partecipano alla realtà del Regno. Una parte del ruolo della chiesa è quello di “riconoscere che la realtà embrionale del Regno si può trovare anche al di fuori di confini di se stessa, ad esempio nei cuori dei seguaci delle altre tradizioni religiose, nella misura in questi vivono i valori evangelici e sono aperti all’azione dello Spirito. Si deve ricordare tuttavia che questa è una realtà embrionale, che ha bisogno di trovare il suo compimento essendo posta in relazione con il Regno del Cristo già presente all’interno della Chiesa ma che si realizzerà soltanto nel mondo a venire” (DA 35). La chiesa, mentre procede verso la pienezza della comprensione della Rivelazione, guidata dallo Spirito di Verità, include nella sua missione evangelizzatrice anche il dialogo interreligioso, non solo per un motivo antropologico, il rispetto e l’amore verso tutti gli uomini (cf. DA 39), ma anche teologico: “Dio, in un dialogo che si protrae da lungo tempo, ha offerto e continua ad offrire la salvezza all’umanità. Nella pienezza dell’iniziativa divina, anche la chiesa deve entrare in un dialogo di salvezza con tutti gli uomini e le donne” (DA 38). Il dialogo interreligioso non mira soltanto a realizzare la comprensione reciproca e i rapporti amichevoli con i seguaci di altre fedi, ma anche la condivisione dell’esperienza spirituale, nella docilità allo Spirito del Risorto attivo in modo universale, come “mutua testimonianza della propria fede e una esplorazione comune delle proprie rispettive convinzioni religiose. Nel dialogo, i Cristiani e gli altri credenti sono invitati ad approfondire il loro impegno religioso, per rispondere con sincerità sempre più grande alla chiamata personale di Dio, la donazione di se stessa ispirata dalla Grazia – come ci insegna la nostra fede – passa sempre attraverso la mediazione di Gesù Cristo e il lavoro del Suo Spirito” (DA 40). Nella reciproca accettazione delle differenze o addirittura delle contraddizioni, il dialogo interreligioso è anzitutto conversione a Dio e anche accettazione rispettosa di coloro che, seguendo la loro coscienza, maturano la decisione di passare a un’altra religione, sempre consapevoli del fatto che secondo il Concilio, quando si arriva alla conoscenza della verità occorre aderire ad essa (cf DA 41).
Il Documento evidenzia le varie forme di dialogo, quattro, che non hanno un ordine di priorità tra loro, come indicato nel 1984 dal Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso (cf DM 28-35; DA 42): “a) Il dialogo della vita, che si ha quando le persone si sforzano di vivere con lo spirito aperto e pronta a farsi prossimo, condividendo le loro gioie e le loro pene, i loro problemi e le loro preoccupazioni umani. b) Il dialogo dell’azione, nel quale i cristiani e gli altri credenti collaborano per lo sviluppo integrale e per la liberazione del loro prossimo. c) Il dialogo dello scambio teologico, nel quale gli specialisti cercano di approfondire la propria comprensione delle loro rispettive eredità spirituali, e di apprezzare, ciascuno i valori spirituali dell’altro. d) Il dialogo dell’esperienza religiosa, nel quale le persone, radicate nelle loro tradizioni religiose condividono le loro ricchezze spirituali, per esempio nel campo della preghiera e della contemplazione, della fede e dei modi di ricercare Dio o l’Assoluto” (DA 42). Tra le varie forme di dialogo c’è connessione reciproca e nessuna può avere la supremazia sulle altre. Se il dialogo si riduce solo al contesto teologico diventa un ambito della missione della chiesa e riguarda solo gli specialisti, mentre tutti i cristiani sono chiamati al dialogo, anche se con ruoli diversi (cf. DA 43). Molto importante è il dialogo operativo aperto al sociale: “I contatti all’interno della vita quotidiana e l’impegno comune all’azione apriranno in modo naturale la porta alla collaborazione alla promozione dei valori umani e spirituali; i contatti e l’impegno comune possono anche eventualmente portare al dialogo dell’esperienza religiosa in risposta alle grandi domande che le circostanze della vita non mancano di far sorgere nelle menti degli uomini (cfr NA 2). Gli scambi a livello di esperienza religiosa possono dare maggior vita alle discussioni teologiche, e quest’ultime, in cambio, possono illuminare l’esperienza ed incoraggiare i contatti più stretti” (DA 43). Molto importante è il dialogo finalizzato allo sviluppo integrale dell’uomo, alla giustizia sociale e alla liberazione umana e le chiese locali devono impegnarsi in esso con generosità e imparzialità come testimonianza evangelica. “Bisogna battersi per i diritti umani, sostenere le richieste di giustizia e denunciare l’ingiustizia non soltanto quando ne vengono colpiti i membri della singola chiesa, ma indipendentemente dall’appartenenza religiosa delle vittime. Bisogna anche unire le forze nel tentativo di risolvere i gravi problemi che minacciano la società ed il mondo e nell’impegno all’educazione alla giustizia e alla pace” (DA 44). Una forma urgente di dialogo interreligioso è quello della cultura, che va oltre l’ambito religioso, è più vasto di esso, ma costituisce la sua dimensione trascendente, la sua anima. Le religioni hanno certamente contribuito al progresso della cultura e alla costruzione di una società più umana, ma le pratiche religiose talvolta hanno avuto un influsso alienante sulle culture. “Oggi, una cultura secolare autonoma può avere un ruolo critico nei confronti degli elementi negativi che si trovano in alcune religioni. La questione è complessa, dal momento che molteplici tradizioni religiose possono coesistere all’interno della stessa cornice culturale oppure, al contrario, la stessa religione può esprimersi all’interno di diversi ambiti culturali. Ecco quindi che le differenze religiose possono portare alla formazione di diverse culture all’interno della stessa regione geografica” (DA 45).
Il Documento non ha una visione irenica della realtà, non tace i problemi, poiché mette in risalto che a volte possono nascere tensioni e conflitti: “Un dialogo premuroso indica il riconoscimento e l’accettazione dei valori culturali che rispettano la dignità della persona umana e il suo destino trascendente. Può tuttavia accadere che alcuni aspetti delle culture cristiane tradizionali siano minacciati dalle culture locali o dalle altre tradizioni religiose (cf EN 20)” (DA 46). Il dialogo interreligioso deve contribuire al superamento dei conflitti, poiché promuove “una migliore comprensione tra le varie culture religiose di ogni singola regione geografica. Esso può contribuire a purificare le culture da alcuni elementi disumanizzanti e può essere pertanto un agente di trasformazione. Esso può anche aiutare a mantenere vivi alcuni valori culturali tradizionali che sono minacciati dalla modernità e dal livellamento verso il basso che una globalizzazione indiscriminata può portare con sé” (DA 46). Il Documento indica quali sono gli atteggiamenti richiesti per il dialogo interreligioso. Si richiede anzitutto l’equilibrio da parte di tutti: “Il dialogo richiede, tanto da parte dei Cristiani quanto da parte dei seguaci delle altre tradizioni, un atteggiamento equilibrato. Essi non devono essere ingenui, né eccessivamente critici, ma aperti e recettivi. La non chiusura su sé stessi, l’imparzialità e l’accettazione di differenze e di possibili contraddizioni sono dati già menzionate. Le altre disposizioni richieste sono la volontà di battersi insieme in difesa della verità e della prontezza nell’acconsentire ad essere trasformati dall’incontro” (DA 47). Si richiede di essere fedeli alle proprie convinzioni religiose: “Ciò non significa che quanti partecipano al dialogo debbano mettere da parte le loro rispettive convinzioni religiose. È vero esattamente il contrario: la sincerità del dialogo interreligioso richiede che ciascuno lo affronti nell’integrità della propria fede. Allo stesso tempo i Cristiani, pur rimanendo fermi nel credere che in Gesù Cristo – l’unico mediatore tra Dio e l’uomo (cfr 1Tim, 4 – 6) – è stata data loro la pienezza della rivelazione, devono ricordare che Dio si è manifestato in un certo qual modo anche ai seguaci delle altre tradizioni religiose. Di conseguenza, essi si avvicinano alle convinzioni e ai valori altrui con menti ricettive” (DA 48).
Nel dialogo interreligioso bisogna mettere da parte la superbia spirituale, l’atteggiamento di protagonismo sprezzante o di supremazia: “La pienezza della verità ricevuta in Gesù Cristo non dà ai singoli cristiani la garanzia di aver raggiunto pienamente tale verità. Ad un’analisi approfondita emerge il fatto che la verità non è una cosa che noi possediamo, ma una Persona dalla quale dobbiamo accettare di essere posseduti. Questo è un processo senza fine. I Cristiani, sforzandosi di mantenere intatta la propria identità, devono essere pronti ad imparare e a ricevere da e attraverso gli altri credenti i valori positivi delle loro tradizioni. Attraverso il dialogo, essi devono essere spinti ad estirpare pregiudizi radicati, a rivedere idee preconcette e talvolta anche a permettere che venga purificata la comprensione della loro stessa fede” (DA 49).L’effetto, il frutto, del dialogo interreligioso realizzato con lo stile indicato dal Documento è quello di scoprire con gioia i doni delle altre religioni, senza venir meno alla propria fede: “Se i Cristiani coltivano questa apertura e si rendono disponibili ad essere messi alla prova, potranno raccogliere i frutti del dialogo. Essi scoprono con ammirazione tutto ciò che l’azione di Dio per mezzo di Gesù Cristo nel Suo Spirito ha compiuto e continua a compiere nel mondo e in tutta l’umanità. Lunghi dall’indebolire la loro fede, il dialogo antico la approfondirà; essi diverranno sempre più consapevoli della loro propria identità cristiana e percepiranno sempre più chiaramente gli elementi distintivi del messaggio cristiano. La loro fede guadagnerà nuove dimensioni quando essi scopriranno la presenza attiva del mistero di Gesù Cristo oltre i confini visibili della chiesa e della comunità cristiana” (DA 50). Il Documento evidenza anche gli ostacoli per il dialogo in genere e per quello interreligioso in particolare. Per poterli superare occorre essere consapevoli degli ostacoli. Alcuni riguardano tutte le tradizioni religiose mentre altri sono specifici di alcune (cf. DA 51). Gli ostacoli sono svariati: “a) Un insufficiente radicamento nella propria fede. b) Un’insufficiente conoscenza e comprensione della fede e delle pratiche delle altre religioni, che porta a una mancanza di riconoscimento del loro significato e persino, a volte, ad una errata rappresentazione. c) Fattori socio – politici o retaggi del passato. d) Una erronea comprensione del significato di termini come conversione, battesimo, dialogo, etc. e) Supponenza, mancanza di apertura che porta ad atteggiamenti difensivi o aggressivi. f) Una mancanza di convinzione dell’importanza del dialogo interreligioso, che potrebbe essere visto da qualcuno come un obiettivo riservato agli specialisti, e da altri come un segno di debolezza o addirittura un tradimento della fede. g) Sospetti sulle autentiche motivazioni dell’altro nel dialogo. h) Uno spirito polemico nell’esprimere le proprie convinzioni religiose. i) L’intolleranza, che è spesso aggravata dall’interconnessione con i fattori politici, economici, razionali ed etnici, una mancanza di reciprocità nel dialogo che può portare alla frustrazione. j) Alcune realtà dell’attuale clima religioso, come ad esempio il crescente materialismo, l’indifferenza religiosa ed il diffondersi sempre maggiore di sette religiose che creano confusione e fanno sorgere nuovi problemi” (DA 52).
Spesso gli ostacoli in genere provengono dal fatto che manca un’adeguata comprensione della vera natura e dello scopo del dialogo interreligioso, per cui vanno spiegati con molta pazienza. Per la chiesa c’è un altro fattore, cioè la consapevolezza che il dialogo è partecipazione a quello divino a cui spetta l’iniziativa: “Bisogna ricordare che l’impegno della chiesa nel dialogo non dipende dal suo riuscire o meno a raggiungere la matura comprensione e il maturo arricchimento, ma scaturisce dall’iniziativa di Dio di entrare in dialogo con l’umanità e dall’esempio di Gesù Cristo la cui vita, morte e resurrezione hanno dato l’espressione più piena a tale dialogo” (DA 53). Gli ostacoli non devono portare alla sfiducia, poiché non bisogna dimenticare i progressi che ci sono stati sulla comprensione reciproca e sulla cooperazione. Tutto ciò ha influito anche sulla vita delle chiesa e delle altre tradizioni portandole ad una maggiore apertura e al rinnovamento. Per la chiesa il dialogo è anche una testimonianza evangelica: “Il dialogo interreligioso ha consentito alla chiesa di poter condividere con gli altri credenti i valori del Vangelo. Così, nonostante le difficoltà, l’impegno nel dialogo da parte della chiesa rimane fermo e irreversibile” (DA 54). Nonostante la distinzione tra annuncio e dialogo per i cristiani sono intimamente connessi: “[…] il vero dialogo religioso presuppone, da parte dei Cristiani, il desiderio di conoscere meglio, riconoscere e amare Gesù Cristo; l’annuncio di Gesù Cristo deve essere portato avanti nello spirito evangelico del dialogo. Le due attività rimangono distinte, ma come mostra l’esperienza, la stesa Chiesa locale o la stessa persona possono essere impegnate in entrambe in maniera diversa” (DA 77). La stessa missione della chiesa nella sua globalità, aperta al discernimento dei segni dei tempi, richiede lo stile del dialogo (lo spirito di dialogo). La missione evangelizzatrice “richiede un discernimento basato sulla preghiera e una riflessione teologica sul significato del piano di Dio nelle diverse tradizioni religiose e nell’esperienza di quanti si trovano in esse nutrimento spirituale” (DA 78). La chiesa nella sua missione incontra le persone che seguono altre tradizioni religiose e le reazioni alla testimonianza evangelica sono svariate. Ci sono coloro che in piena libertà decidono di aderire al Vangelo, altri sono indifferenti o contrari, oppure sono interessati ma per vari motivi restano solo simpatizzanti. La missione della chiesa si rivolge a tutti: “Si può vedere come la Chiesa possa avere un luogo profetico nel dialogo anche in relazione alle religioni cui le persone alle quali essa si rivolge appartengono: testimoniando i valori del Vangelo, essa fa nascere degli interessi rogativi all’interno di queste religioni” (DA 79). Il confronto interreligioso che è necessario comporta una sfida che diventa anche emulazione reciproca che deve tendere alla realizzazione della fraternità universale: “Al termine della giornata di preghiera, digiuno e pellegrinaggio per la pace, svoltasi ad Assisi, Papa Giovanni Paolo II ha detto: ‘Cerchiamo di vedere in questa giornata un’anteprima di ciò a cui Dio vorrebbe che lo sviluppo della storia dell’umanità porti: una giornata vissuta in fraternità, nella quale ci accompagniamo gli uni agli altri fino alla meta trascendente che Egli ha stabilito per noi’” (DA 79).
La chiesa è impegnata a promuovere e incoraggiare “il dialogo non solo tra sé stessa e le altre tradizioni religiose, ma anche quello tra le varie tradizioni religiose stesse” (DA 80). Tutto ciò costituisce un’espressione dell’identità teologica della chiesa che è quella di essere “sacramento, vale a dire uno strumento di comunione con Dio e di unità tra tutti i popoli” (LG 1). La chiesa non può venire meno al dialogo interreligioso poiché deve testimoniare il dialogo salvifico di Dio e lo Spirito la sostiene per “incoraggiare tutte le istituzioni e i movimenti religiosi a incontrarsi, a entrare in collaborazione e a purificare se stessi al fine di promuovere la verità e la vita, la santità, la giustizia, l’amore e la pace, le dimensioni di quel Regno che, alla fine dei tempi, Cristo riconsegnerà a Suo Padre (cfr 1Cor 15,24)” (DA 80). L’annuncio dialogante della chiesa, che è un dono di Dio da chiedere con la preghiera, non può essere generico, poiché ciascuna religione differisce dalle altre per cui bisogna rivolgere “una particolare attenzione alle relazioni con i seguaci di ciascuna religione” (DA 87). Va tenuto contesto geopoltico, socio-culturale di ciascuna religione per poterla conoscere meglio. La Conferenza episcopale dovrebbe affidare tali studi a commissioni appropriate e agli istituti teologici e pastorali: “Alla luce dei risultati di questi studi, questi istituti potrebbero anche organizzare corsi speciali e sessioni di studio finalizzati a formare le persone al dialogo e all’annuncio. Bisogna rivolgere un’attenzione particolare ai giovani che vivono in un ambiente pluralistico, che incontrano seguaci di altre religioni a scuola, sul lavoro, nei movimenti giovanili, nelle associazioni di altro tipo o persino nelle loro stesse famiglie” (DA 88).
Lucia Antinucci
L’URGENZA DEL DIALOGO INTERRELIGIOSO
Queste mie riflessioni si basano sul Documento, sempre molto attuale, del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso ‘Dialogo e annuncio’ (DA / 1991) che riprende il Documento Dialogo e Missione (1984), sviluppandolo in modo più articolato. DA ha come destinatari non solo le guide delle comunità cattoliche, ma anche delle altre comunità cristiane e di altre fedi. Esso va letto alla luce dell’enciclica Redemptoris Missio (RM / 1990 cf. nn. 55-57) e intende promuovere la formazione al dialogo interreligioso (cf. DA 7). Vi sono molteplici fattori che hanno reso necessario affrontare il tema del dialogo e dell’annuncio: “a) Nel mondo di oggi, caratterizzato dalla velocità delle comunicazioni, dalla mobilità delle persone e dall’interdipendenza, vi è una nuova presa di coscienza di un pluralismo religioso. Non si può affermare che le religioni esistono o sopravvivono: incerti casi, esse forniscono una chiara dimostrazione di rinascita. Esse continuano a ispirare e a guidare le vite di milioni dei loro aderenti. Nell’attuale contesto di pluralità religiosa, il ruolo importante che viene svolto dalle tradizioni religiose non può essere ignorato” (DA 4). Il dialogo interreligioso, inaugurato ufficialmente dal Concilio Vaticano II, viene compreso molto gradualmente e stenta a decollare; è attuato, infatti, solo in alcuni paesi a causa anche della consistenza numerica della comunità cristiana. Esso, però, viene anche frainteso, poiché secondo alcuni ha preso il posto dell’annuncio, mentre secondo altri il dialogo interreligioso non ha valore. Vi sono poi coloro che sono perplessi: “[…] se il dialogo interreligioso è diventato così importante, l’annuncio del vangelo ha perso la sua urgenza? Lo sforzo di introdurre di introdurre le persone all’interno della comunità della Chiesa è divenuto secondario o addirittura superfluo?” (DA 4c). L’importanza dl dialogo interreligioso è stato rilanciato da Giovanni Paolo II anche con il significativo incontro di preghiera per la pace ad Assisi il 27 ottobre 1986 con i rappresenti religiosi di tutto il mondo (cf DA 5). Il Documento evidenzia il significato del dialogo, partendo dalla sua dimensione antropologica: “ […] a livello puramente umano, esso significa ‘comunicazione reciproca’, che conduce ad un obiettivo comune o a un livello più profondo, alla comunione interpersonale” (DA 9). Il dialogo in senso lato indica i rapporti umani di amicizia e di rispetto come pure la globalità della missione evangelizzatrice della chiesa, che deve essere realizzata in base allo spirito del dialogo. “In terzo luogo, nel contesto del pluralismo religioso, dialogo significa ‘ogni tipo di relazione interreligiosa positiva e costruttiva con individui e comunità appartenenti ad altre fedi, che sia mirato alla muta comprensione e al mutuo arricchimento’ (DM 3), nel pieno rispetto della verità e della libertà. Esso comprende sia la testimonianza, sia l’esplorazione delle rispettive convinzioni religiose” (DA 9). Il dialogo si distingue dall’annuncio che è la comunicazione del messaggio del Vangelo per favore la fede in Cristo come membra della chiesa (cf. DA 10).
Il dialogo interreligioso si fonda su una valutazione teologica delle altre tradizioni religiose, in base alle prospettive emerse dal Concilio, ma anche su uno stretto contatto con esse: “Queste tradizioni devono essere avvicinate con una grande sensibilità, tenendo sempre conto dei valori sperimentali e umani che sono racchiuse in esse. Esse esigono il nostro rispetto poiché, nel corso dei secoli, hanno reso testimonianza dei (loro) grandi sforzi di trovare risposte ai profondi misteri della condizione umana” (NA 1), e hanno dato espressione all’esperienza religiosa e continuano a farlo tuttora” (DA 14). Il Concilio ha ripreso la dottrina tradizionale secondo cui la salvezza cristologica è aperta a tutte le persone di buona volontà, poiché il nuovo Adamo, per mezzo del mistero pasquale, opera il rinnovamento di ogni essere umano e la grazia del Spirito Santo agisce nei cuori di tutte le persone di buona volontà, come già evidenziato da Dialogo e missione. “Poiché, dal momento che Cristo è morto per tutti, e dal momento che tutti sono di fatto chiamati allo stesso unico destino, che è divino, noi dobbiamo credere fermamente al fatto che lo Spirito Santo offre a tutti la possibilità di essere resi partecipi, in un modo noto a Dio, del mistero pasquale” (Gaudium et Spes 22)” (DA 15). Il Concilio, riprendendo il pensiero di alcuni Padri della chiesa, afferma che in tali tradizioni c’è “un raggio di quella verità che illumina tutti” (NA 2), vi sono i semi del Verbo, cioè “i doni che un Dio generoso ha distribuito presso tutte le nazioni“ (Ad Gentes 11); il bene “è seminato” non solo “nelle menti e nei cuori”, ma anche “nei riti e costumi dei popoli” (LG 17; cf. DA 16). Il Concilio ha chiaramente “riconosciuto la presenza di valori positivi non solo nella vita religiosa dei singoli credenti di altre tradizioni religiose, ma anche nelle tradizioni religiose stesse di cui essi appartengono. Esso attribuisce questi valori alla presenza attiva di Dio per mezzo del Suo Verbo, mettendo in rilievo anche l’azione universale dello Spirito […]” (DA 17), che “era al lavoro nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato” (AG 4)Questi fattori sono come preparazione del Vangelo (cf. LG 16), “hanno svolto e svolgono tuttora un ruolo provvidenziale nella economia divina della salvezza” (DA 17). La chiesa realizza il dialogo e la collaborazione con le altre tradizioni religiose, testimoniando la propria fede, ma anche riconoscendo, preservando e incoraggiando il loro bene spirituale e morale , i loro valori culturali e sociali (cf. NA 2; DA 17). L’attività missionaria della chiesa è sempre necessaria, poiché in Cristo gli elementi positivi delle altre religioni vengono perfezionati. Infatti “ogni verità e grazia vengono trovate presso le nazioni come una sorta di presenza segreta di Dio, vengono liberate da questa attività da ogni macchia di male, e vengono ricondotte a Cristo, il loro Artefice, il quale sbaraglia il potere del diavolo ed estromette la multiforme malizia del vizio. In questo modo, ogni bene seminato nelle menti e nei cuori degli uomini o nei riti e nelle culture peculiari ai vari popoli, non viene perduto, e anzi, ancor più, esso è guarito, reso nobile e perfezionato per la gloria di Dio, la sconfitta del demonio e la felicità degli uomini” (AG 9; DA 18).
Il Documento situa il suo discorso del dialogo interreligioso nell’orizzonte biblico, storico-salvifico. Il piano salvifico è unico e abbraccia tutta l’umanità; infatti il progetto di Dio con la creazione è un Patto con tutte le genti (Gn 1,11); “Noè, l’uomo che “camminava con Dio” (Gn 6,9), è un simbolo dell’intervento divino nella storia delle nazioni. I personaggi non-israelitici dell’Antico Testamento sono considerati, nel Nuovo, appartenenti a tale storia della salvezza. Abele, Enoch e Noè sono proposti come modelli di fede (cfr Eb 11, 4-7). È questa storia della salvezza che vede il suo compimento finale in Gesù Cristo, nel quale è sancita la nuova e definitiva Alleanza per tutti popoli” (DA 19). Israele è il popolo eletto, chiamato ad essere fedele al monoteismo e di santificare il suo Nome dinanzi alle nazioni (missione). I profeti richiamano Israele continuamene alla fedeltà all’Unico Dio e annunciano il Messia promesso. “Questi profeti, in maniera particolare al tempo dell’Esilio, forniscono una prospettiva universalistica, dal momento che la salvezza di Dio viene vista da loro estendersi oltre e attraverso Israele a tutte le nazioni. Così, Isaia preannuncia che negli ultimi giorni tutte le nazioni affluiranno a la casa di Dio, e diranno: ‘Venite, andiamo alla montagna del Signore, alla casa del Dio di Giacobbe; possa Egli insegnarci le Sue vie e possiamo noi camminare suoi sentieri!’ (Is 52,10). Anche nella letteratura sapienziale, che resa testimonianza degli scambi culturali tra Israele e i popoli suoi vicini, viene chiaramente affermata l’azione di Dio all’interno dell’intero universo. Essa va oltre i confini del Popolo Eletto per arrivare a toccare tanto la storia delle nazioni quanto le vite dei singoli individui” (DA 20). La dimensione universale salvifica è confermata anche dalla missione di Gesù. Inizialmente “professa di essere venuto a radunare le pecore perdute di Israele (cfr Mt 15,24) e proibisce ai suoi discepoli, per un certo periodo, di rivolgersi ai Gentili (cfr Mt 10,5). Tuttavia, Egli dimostra un atteggiamento di apertura nei confronti degli uomini e delle donne che non appartengono al popolo eletto di Israele: Egli entra in dialogo con loro e riconosce il bene che è in essi; si meraviglia nella prontezza a credere del centurione, affermando di non aver mai trovato una fede così grande in Israele (cfr Mt 8,5-13); compie miracoli di guarigione degli ‘stranieri’ (cfr Mc 7,24-30; Mt 15,21-28), e questi miracoli sono dei segni della venuta del Regno; conversa con la Samaritana e le parla di un tempo in cui l’adorazione non sarà ristretta ad alcun luogo particolare, in cui tutti i credenti ‘adoreranno il Padre in spirito e verità’ (Gv 4,23)” (DA 21). L’opera salvifica superala realtà locale e si apre agli orizzonti universali per la dimensione cristologica e pneumatologica, in quanto “il nuovo santuario è ora il corpo del Signore Gesù (cfr Gv 2,21), che il Padre ha innalzato nel potere dello Spirito” (DA 21).
Con Gesù il Regno fa irruzione nella storia ed inizia il suo ministero nella Galilea delle genti, annunciando che per entrare in esso occorre la conversione (Mc 1,15). “Questo messaggio non è rivolto solo alla cerchia limitata di quanti appartengono al popolo eletto: Gesù, infatti, annuncia esplicitamente l’ingresso dei Gentili nel Regno di Dio (cfr Mt 8,10-11; Mt 11,20-24, Mt 25,31-32,34), un Regno che deve essere considerato allo storico escatologico. Si tratta del Regno tanto del Padre, per la venuta era necessario pregare (cfr Mt 6,10), quanto del Figlio, dal momento che Gesù dichiara apertamente di essere Re (cfr Gv 18,33-37)” (DA 22) . Gesù Cristo è il Figlio di Dio fatto uomo che realizza la pienezza della rivelazione e della salvezza per tutte le nazioni (cf. DA 22), è la “Sapienza di Dio, la Parola di Dio che illumina ogni uomo (cfr Gv 1,9) e che, con la sua Incarnazione pianta la sua tenda tra di noi (cfr Gv 1,14)” (DA 23). Il NT, da una parte è critico verso coloro che seguono l’idolatria (Rm 1,18-32), nello stesso tempo Paolo apprezza il culto del Dio ignoto (cfr At 17,22-34) che ha trovato ad Atene. Questa dialettica la si riscontra anche nella tradizione postbiblica. Alcuni Padri sono molto critici nei confronti del mondo religioso del loro tempo, mentre altri sviluppano una riflessione positiva: “In particolare, scrittori del secondo secolo e della prima parte del terzo secolo come Giustino, Ireneo e Clemente d’Alessandria, più o meno esplicitamente, parlano dei ‘semi’ piantati dal Verbo di Dio nelle nazioni, tanto che si può dire che secondo loro Dio a già manifestato sé stesso, in maniera incompleta, prima al di fuori della rivelazione cristiana. Questa manifestazione del ‘Logos’ è una primizia della piena rivelazione in Gesù Cristo cui essa tende” (DA 24). Un altro importante contributo patristico è stato quello dalle teologia della storia dei più antichi Padri della chiesa. “La storia diviene storia della salvezza, dal momento che attraverso di essa Dio si manifesta progressivamente e comunica con l’umanità. Questo processo di manifestazione e comunicazione divina raggiunge il suo apice nell’incarnazione del Figlio di Dio in Gesù Cristo. Per questo motivo Ireneo distingue quattro ‘alleanze’ offerte da Dio al genere umano: in Adamo, in Noè, in Mosè ed in Gesù Cristo” (DA 25). Questa corrente patristica culmina in Agostino,“il quale, nelle sue opere più tarde, mette in evidenza la presenza universale e l’influenza del mistero di Cristo anche prima dell’Incarnazione. Per completare il suo piano di salvezza, Dio nel suo Figlio si è offerto all’intera umanità. Per cui, per un certo senso, la Cristianità esiste già ‘all’inizio del genere umano’” (DA 25).
Un grande contributo alla teologia delle religioni è stato offerto dal Magistero di Giovanni Paolo II che, “In primo momento il Papa ha riconosciuto la presenza operativa dello Spirito Santo nella vita dei membri delle altre tradizioni religiose, come nel passo della ‘Redemptor Hominis’ in cui egli parla della loro ‘fede salda’ come di ‘un effetto dello Spirito di verità operante al di fuori dei confini visibili del Corpo Mistico’ (No. 6). In ‘Dominum et Vivificantem’, il Pontefice compie un passo ulteriore, affermando l’azione universale dello stesso Spirito oggi, anche al di fuori del corpo visibile della Chiesa (cfr No. 53)” (DA 26). Egli ha ripetutamente sottolineato la presenza universale dello Spirito, come, ad esempio, nel suo discorso rivolto alla Curia Romana dopo la Giornata Mondiale della Preghiera per la Pace ad Assisi,: “[…] ‘ogni persona che prega con l’atteggiamento di autenticità è ispirata dallo Spirito Santo, che è misteriosamente presente nel cuore di ognuno’, Cristiano o meno. Ma di ancora nuovo nello stesso discorso, il Papa, andando oltre la prospettiva individuale, ha articolato gli elementi principali che devono essere considerati le basi teologiche per un approccio positivo alle altre tradizioni religiose e alla pratica del dialogo interreligioso” (DA 27).Giovanni Paolo II ha sottolineato che tutta l’umanità costituisce una sola famiglia, poiché tutti gli uomini e le donne sono stati creati ad immagine di Dio e sono destinati alla pienezza della vita in Dio. “Inoltre, vi è un solo piano di salvezza per l’umanità, con il suo centro in Gesù Cristo, il quale nella sua incarnazione ‘si è unito in un certo qual modo ad ogni persona’ (RH 13; cfr 65 22,2). Infine, è necessario menzionare l’attiva presenza dello Spirito Santo nella vita religiosa dei membri delle altre tradizioni religiose. Da tutti questi elementi il Papa arriva a definire il ‘mistero dell’unità’, che è stato manifestato chiaramente ad Assisi, ‘nonostante le differenze tra le confessioni religiose’” (DA 28). Tutti gli uomini e le donne che sono salvati partecipano allo stesso mistero di salvezza in Cristo per mezzo dello Spirito, anche se in modo diverso. I cristiani sono consapevoli del mistero salvifico cristologico e pneumatologico per la loro fede, mentre gli altri uomini e donne sono inconsapevoli di ciò. “Il mistero della salvezza li raggiunge, in una maniera nota a Dio, tramite l’azione invisibile dello Spirito del Cristo. Dal punto di vista concreto, sarà nella pratica sincera di ciò che è buono nelle proprie tradizioni religiose e seguendo la voce della propria coscienza che i membri delle altre religioni risponderanno positivamente alla chiamata di Dio e riceveranno la salvezza in Gesù Cristo, anche se essi non lo ritengono o non lo riconoscono come il loro salvatore (cfr AG 3,9,11)” (DA 29) Discernere l’azione dello Spirito nella vita personale degli individui che seguono altre religioni è semplice, mentre è complesso individuare gli elementi di grazia presenti nelle altre tradizioni religiose, come risposta alla chiamata di Dio, per cui occorre realizzare il discernimento per stabilire dei criteri: “Gli individui sinceri marchiati dallo Spirito di Dio hanno certamente messo il loro sforzo personale nell’elaborazione e nello sviluppo delle loro rispettive tradizioni religiose. Ciò non implica, tuttavia, che ogni cosa che si trova in esse sia buona” (DA 30). Il peccato si manifesta sempre nel mondo, per cui le tradizioni religiose, pur avendo elementi postivi, riflettono anche l’inclinazione al male per la fragilità umana. “Un approccio aperto e positivo alle altre tradizioni religiose non può sorvolare contraddizioni che possono esserci tra di esse e la rivelazione cristiana. Laddove necessario, si devono riconoscere le incompatibilità tra alcuni elementi fondamentali della religione cristiana e alcuni aspetti di tali tradizioni” (DA 31).
I cristiani devono essere aperti verso le altre religioni e con sentimenti pacifici devono informarsi presso di loro dei contenuti della loro fede,“Ma anche i Cristiani devono essere disposti ad essere messi in discussione: nonostante la pienezza della rivelazione in Dio in Gesù Cristo, il modo in cui i Cristiani a volte comprendono e praticano la propria religione può aver bisogno di purificazione” (DA 32). La chiesa è a servizio del Regno di Dio, è il sacramento nel quale il Regno è presente nel mistero, protesa verso il suo compimento escatologico, deve contribuire alla crescita del Reno (Rm 11,15); ad essa fanno riferimento coloro che si orientano (ordinantur) (LG 16), che rispondono alla chiamata di Dio come viene percepita dalla loro coscienza, attraverso la loro tradizione religiosa. Essi sono salvati in Cristo [in modo inconsapevole] e partecipano alla realtà del Regno. Una parte del ruolo della chiesa è quello di “riconoscere che la realtà embrionale del Regno si può trovare anche al di fuori di confini di se stessa, ad esempio nei cuori dei seguaci delle altre tradizioni religiose, nella misura in questi vivono i valori evangelici e sono aperti all’azione dello Spirito. Si deve ricordare tuttavia che questa è una realtà embrionale, che ha bisogno di trovare il suo compimento essendo posta in relazione con il Regno del Cristo già presente all’interno della Chiesa ma che si realizzerà soltanto nel mondo a venire” (DA 35). La chiesa, mentre procede verso la pienezza della comprensione della Rivelazione, guidata dallo Spirito di Verità, include nella sua missione evangelizzatrice anche il dialogo interreligioso, non solo per un motivo antropologico, il rispetto e l’amore verso tutti gli uomini (cf. DA 39), ma anche teologico: “Dio, in un dialogo che si protrae da lungo tempo, ha offerto e continua ad offrire la salvezza all’umanità. Nella pienezza dell’iniziativa divina, anche la chiesa deve entrare in un dialogo di salvezza con tutti gli uomini e le donne” (DA 38). Il dialogo interreligioso non mira soltanto a realizzare la comprensione reciproca e i rapporti amichevoli con i seguaci di altre fedi, ma anche la condivisione dell’esperienza spirituale, nella docilità allo Spirito del Risorto attivo in modo universale, come “mutua testimonianza della propria fede e una esplorazione comune delle proprie rispettive convinzioni religiose. Nel dialogo, i Cristiani e gli altri credenti sono invitati ad approfondire il loro impegno religioso, per rispondere con sincerità sempre più grande alla chiamata personale di Dio, la donazione di se stessa ispirata dalla Grazia – come ci insegna la nostra fede – passa sempre attraverso la mediazione di Gesù Cristo e il lavoro del Suo Spirito” (DA 40). Nella reciproca accettazione delle differenze o addirittura delle contraddizioni, il dialogo interreligioso è anzitutto conversione a Dio e anche accettazione rispettosa di coloro che, seguendo la loro coscienza, maturano la decisione di passare a un’altra religione, sempre consapevoli del fatto che secondo il Concilio, quando si arriva alla conoscenza della verità occorre aderire ad essa (cf DA 41).
Il Documento evidenzia le varie forme di dialogo, quattro, che non hanno un ordine di priorità tra loro, come indicato nel 1984 dal Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso (cf DM 28-35; DA 42): “a) Il dialogo della vita, che si ha quando le persone si sforzano di vivere con lo spirito aperto e pronta a farsi prossimo, condividendo le loro gioie e le loro pene, i loro problemi e le loro preoccupazioni umani. b) Il dialogo dell’azione, nel quale i cristiani e gli altri credenti collaborano per lo sviluppo integrale e per la liberazione del loro prossimo. c) Il dialogo dello scambio teologico, nel quale gli specialisti cercano di approfondire la propria comprensione delle loro rispettive eredità spirituali, e di apprezzare, ciascuno i valori spirituali dell’altro. d) Il dialogo dell’esperienza religiosa, nel quale le persone, radicate nelle loro tradizioni religiose condividono le loro ricchezze spirituali, per esempio nel campo della preghiera e della contemplazione, della fede e dei modi di ricercare Dio o l’Assoluto” (DA 42). Tra le varie forme di dialogo c’è connessione reciproca e nessuna può avere la supremazia sulle altre. Se il dialogo si riduce solo al contesto teologico diventa un ambito della missione della chiesa e riguarda solo gli specialisti, mentre tutti i cristiani sono chiamati al dialogo, anche se con ruoli diversi (cf. DA 43). Molto importante è il dialogo operativo aperto al sociale: “I contatti all’interno della vita quotidiana e l’impegno comune all’azione apriranno in modo naturale la porta alla collaborazione alla promozione dei valori umani e spirituali; i contatti e l’impegno comune possono anche eventualmente portare al dialogo dell’esperienza religiosa in risposta alle grandi domande che le circostanze della vita non mancano di far sorgere nelle menti degli uomini (cfr NA 2). Gli scambi a livello di esperienza religiosa possono dare maggior vita alle discussioni teologiche, e quest’ultime, in cambio, possono illuminare l’esperienza ed incoraggiare i contatti più stretti” (DA 43). Molto importante è il dialogo finalizzato allo sviluppo integrale dell’uomo, alla giustizia sociale e alla liberazione umana e le chiese locali devono impegnarsi in esso con generosità e imparzialità come testimonianza evangelica. “Bisogna battersi per i diritti umani, sostenere le richieste di giustizia e denunciare l’ingiustizia non soltanto quando ne vengono colpiti i membri della singola chiesa, ma indipendentemente dall’appartenenza religiosa delle vittime. Bisogna anche unire le forze nel tentativo di risolvere i gravi problemi che minacciano la società ed il mondo e nell’impegno all’educazione alla giustizia e alla pace” (DA 44). Una forma urgente di dialogo interreligioso è quello della cultura, che va oltre l’ambito religioso, è più vasto di esso, ma costituisce la sua dimensione trascendente, la sua anima. Le religioni hanno certamente contribuito al progresso della cultura e alla costruzione di una società più umana, ma le pratiche religiose talvolta hanno avuto un influsso alienante sulle culture. “Oggi, una cultura secolare autonoma può avere un ruolo critico nei confronti degli elementi negativi che si trovano in alcune religioni. La questione è complessa, dal momento che molteplici tradizioni religiose possono coesistere all’interno della stessa cornice culturale oppure, al contrario, la stessa religione può esprimersi all’interno di diversi ambiti culturali. Ecco quindi che le differenze religiose possono portare alla formazione di diverse culture all’interno della stessa regione geografica” (DA 45).
Il Documento non ha una visione irenica della realtà, non tace i problemi, poiché mette in risalto che a volte possono nascere tensioni e conflitti: “Un dialogo premuroso indica il riconoscimento e l’accettazione dei valori culturali che rispettano la dignità della persona umana e il suo destino trascendente. Può tuttavia accadere che alcuni aspetti delle culture cristiane tradizionali siano minacciati dalle culture locali o dalle altre tradizioni religiose (cf EN 20)” (DA 46). Il dialogo interreligioso deve contribuire al superamento dei conflitti, poiché promuove “una migliore comprensione tra le varie culture religiose di ogni singola regione geografica. Esso può contribuire a purificare le culture da alcuni elementi disumanizzanti e può essere pertanto un agente di trasformazione. Esso può anche aiutare a mantenere vivi alcuni valori culturali tradizionali che sono minacciati dalla modernità e dal livellamento verso il basso che una globalizzazione indiscriminata può portare con sé” (DA 46). Il Documento indica quali sono gli atteggiamenti richiesti per il dialogo interreligioso. Si richiede anzitutto l’equilibrio da parte di tutti: “Il dialogo richiede, tanto da parte dei Cristiani quanto da parte dei seguaci delle altre tradizioni, un atteggiamento equilibrato. Essi non devono essere ingenui, né eccessivamente critici, ma aperti e recettivi. La non chiusura su sé stessi, l’imparzialità e l’accettazione di differenze e di possibili contraddizioni sono dati già menzionate. Le altre disposizioni richieste sono la volontà di battersi insieme in difesa della verità e della prontezza nell’acconsentire ad essere trasformati dall’incontro” (DA 47). Si richiede di essere fedeli alle proprie convinzioni religiose: “Ciò non significa che quanti partecipano al dialogo debbano mettere da parte le loro rispettive convinzioni religiose. È vero esattamente il contrario: la sincerità del dialogo interreligioso richiede che ciascuno lo affronti nell’integrità della propria fede. Allo stesso tempo i Cristiani, pur rimanendo fermi nel credere che in Gesù Cristo – l’unico mediatore tra Dio e l’uomo (cfr 1Tim, 4 – 6) – è stata data loro la pienezza della rivelazione, devono ricordare che Dio si è manifestato in un certo qual modo anche ai seguaci delle altre tradizioni religiose. Di conseguenza, essi si avvicinano alle convinzioni e ai valori altrui con menti ricettive” (DA 48).
Nel dialogo interreligioso bisogna mettere da parte la superbia spirituale, l’atteggiamento di protagonismo sprezzante o di supremazia: “La pienezza della verità ricevuta in Gesù Cristo non dà ai singoli cristiani la garanzia di aver raggiunto pienamente tale verità. Ad un’analisi approfondita emerge il fatto che la verità non è una cosa che noi possediamo, ma una Persona dalla quale dobbiamo accettare di essere posseduti. Questo è un processo senza fine. I Cristiani, sforzandosi di mantenere intatta la propria identità, devono essere pronti ad imparare e a ricevere da e attraverso gli altri credenti i valori positivi delle loro tradizioni. Attraverso il dialogo, essi devono essere spinti ad estirpare pregiudizi radicati, a rivedere idee preconcette e talvolta anche a permettere che venga purificata la comprensione della loro stessa fede” (DA 49).L’effetto, il frutto, del dialogo interreligioso realizzato con lo stile indicato dal Documento è quello di scoprire con gioia i doni delle altre religioni, senza venir meno alla propria fede: “Se i Cristiani coltivano questa apertura e si rendono disponibili ad essere messi alla prova, potranno raccogliere i frutti del dialogo. Essi scoprono con ammirazione tutto ciò che l’azione di Dio per mezzo di Gesù Cristo nel Suo Spirito ha compiuto e continua a compiere nel mondo e in tutta l’umanità. Lunghi dall’indebolire la loro fede, il dialogo antico la approfondirà; essi diverranno sempre più consapevoli della loro propria identità cristiana e percepiranno sempre più chiaramente gli elementi distintivi del messaggio cristiano. La loro fede guadagnerà nuove dimensioni quando essi scopriranno la presenza attiva del mistero di Gesù Cristo oltre i confini visibili della chiesa e della comunità cristiana” (DA 50). Il Documento evidenza anche gli ostacoli per il dialogo in genere e per quello interreligioso in particolare. Per poterli superare occorre essere consapevoli degli ostacoli. Alcuni riguardano tutte le tradizioni religiose mentre altri sono specifici di alcune (cf. DA 51). Gli ostacoli sono svariati: “a) Un insufficiente radicamento nella propria fede. b) Un’insufficiente conoscenza e comprensione della fede e delle pratiche delle altre religioni, che porta a una mancanza di riconoscimento del loro significato e persino, a volte, ad una errata rappresentazione. c) Fattori socio – politici o retaggi del passato. d) Una erronea comprensione del significato di termini come conversione, battesimo, dialogo, etc. e) Supponenza, mancanza di apertura che porta ad atteggiamenti difensivi o aggressivi. f) Una mancanza di convinzione dell’importanza del dialogo interreligioso, che potrebbe essere visto da qualcuno come un obiettivo riservato agli specialisti, e da altri come un segno di debolezza o addirittura un tradimento della fede. g) Sospetti sulle autentiche motivazioni dell’altro nel dialogo. h) Uno spirito polemico nell’esprimere le proprie convinzioni religiose. i) L’intolleranza, che è spesso aggravata dall’interconnessione con i fattori politici, economici, razionali ed etnici, una mancanza di reciprocità nel dialogo che può portare alla frustrazione. j) Alcune realtà dell’attuale clima religioso, come ad esempio il crescente materialismo, l’indifferenza religiosa ed il diffondersi sempre maggiore di sette religiose che creano confusione e fanno sorgere nuovi problemi” (DA 52).
Spesso gli ostacoli in genere provengono dal fatto che manca un’adeguata comprensione della vera natura e dello scopo del dialogo interreligioso, per cui vanno spiegati con molta pazienza. Per la chiesa c’è un altro fattore, cioè la consapevolezza che il dialogo è partecipazione a quello divino a cui spetta l’iniziativa: “Bisogna ricordare che l’impegno della chiesa nel dialogo non dipende dal suo riuscire o meno a raggiungere la matura comprensione e il maturo arricchimento, ma scaturisce dall’iniziativa di Dio di entrare in dialogo con l’umanità e dall’esempio di Gesù Cristo la cui vita, morte e resurrezione hanno dato l’espressione più piena a tale dialogo” (DA 53). Gli ostacoli non devono portare alla sfiducia, poiché non bisogna dimenticare i progressi che ci sono stati sulla comprensione reciproca e sulla cooperazione. Tutto ciò ha influito anche sulla vita delle chiesa e delle altre tradizioni portandole ad una maggiore apertura e al rinnovamento. Per la chiesa il dialogo è anche una testimonianza evangelica: “Il dialogo interreligioso ha consentito alla chiesa di poter condividere con gli altri credenti i valori del Vangelo. Così, nonostante le difficoltà, l’impegno nel dialogo da parte della chiesa rimane fermo e irreversibile” (DA 54). Nonostante la distinzione tra annuncio e dialogo per i cristiani sono intimamente connessi: “[…] il vero dialogo religioso presuppone, da parte dei Cristiani, il desiderio di conoscere meglio, riconoscere e amare Gesù Cristo; l’annuncio di Gesù Cristo deve essere portato avanti nello spirito evangelico del dialogo. Le due attività rimangono distinte, ma come mostra l’esperienza, la stesa Chiesa locale o la stessa persona possono essere impegnate in entrambe in maniera diversa” (DA 77). La stessa missione della chiesa nella sua globalità, aperta al discernimento dei segni dei tempi, richiede lo stile del dialogo (lo spirito di dialogo). La missione evangelizzatrice “richiede un discernimento basato sulla preghiera e una riflessione teologica sul significato del piano di Dio nelle diverse tradizioni religiose e nell’esperienza di quanti si trovano in esse nutrimento spirituale” (DA 78). La chiesa nella sua missione incontra le persone che seguono altre tradizioni religiose e le reazioni alla testimonianza evangelica sono svariate. Ci sono coloro che in piena libertà decidono di aderire al Vangelo, altri sono indifferenti o contrari, oppure sono interessati ma per vari motivi restano solo simpatizzanti. La missione della chiesa si rivolge a tutti: “Si può vedere come la Chiesa possa avere un luogo profetico nel dialogo anche in relazione alle religioni cui le persone alle quali essa si rivolge appartengono: testimoniando i valori del Vangelo, essa fa nascere degli interessi rogativi all’interno di queste religioni” (DA 79). Il confronto interreligioso che è necessario comporta una sfida che diventa anche emulazione reciproca che deve tendere alla realizzazione della fraternità universale: “Al termine della giornata di preghiera, digiuno e pellegrinaggio per la pace, svoltasi ad Assisi, Papa Giovanni Paolo II ha detto: ‘Cerchiamo di vedere in questa giornata un’anteprima di ciò a cui Dio vorrebbe che lo sviluppo della storia dell’umanità porti: una giornata vissuta in fraternità, nella quale ci accompagniamo gli uni agli altri fino alla meta trascendente che Egli ha stabilito per noi’” (DA 79).
La chiesa è impegnata a promuovere e incoraggiare “il dialogo non solo tra sé stessa e le altre tradizioni religiose, ma anche quello tra le varie tradizioni religiose stesse” (DA 80). Tutto ciò costituisce un’espressione dell’identità teologica della chiesa che è quella di essere “sacramento, vale a dire uno strumento di comunione con Dio e di unità tra tutti i popoli” (LG 1). La chiesa non può venire meno al dialogo interreligioso poiché deve testimoniare il dialogo salvifico di Dio e lo Spirito la sostiene per “incoraggiare tutte le istituzioni e i movimenti religiosi a incontrarsi, a entrare in collaborazione e a purificare se stessi al fine di promuovere la verità e la vita, la santità, la giustizia, l’amore e la pace, le dimensioni di quel Regno che, alla fine dei tempi, Cristo riconsegnerà a Suo Padre (cfr 1Cor 15,24)” (DA 80). L’annuncio dialogante della chiesa, che è un dono di Dio da chiedere con la preghiera, non può essere generico, poiché ciascuna religione differisce dalle altre per cui bisogna rivolgere “una particolare attenzione alle relazioni con i seguaci di ciascuna religione” (DA 87). Va tenuto contesto geopoltico, socio-culturale di ciascuna religione per poterla conoscere meglio. La Conferenza episcopale dovrebbe affidare tali studi a commissioni appropriate e agli istituti teologici e pastorali: “Alla luce dei risultati di questi studi, questi istituti potrebbero anche organizzare corsi speciali e sessioni di studio finalizzati a formare le persone al dialogo e all’annuncio. Bisogna rivolgere un’attenzione particolare ai giovani che vivono in un ambiente pluralistico, che incontrano seguaci di altre religioni a scuola, sul lavoro, nei movimenti giovanili, nelle associazioni di altro tipo o persino nelle loro stesse famiglie” (DA 88).
Lucia Antinucci
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