SECONDA PARTE: LA COMMISSIONE ‘FEDE E COSTITUZIONE’ E IL DIALOGO INTERRELIGIOSO
INTRODUZIONE
Breve storia di Fede e Costituzione (FC)[1] L’Assemblea mondiale delle associazioni missionarie protestanti, convocato ad Edimburgo (Scozia) nel 1910 fece emergere la necessità di un ecumenismo teologico “affinché la solidarietà operativa ecumenica non divenisse mera strategia politica”[2]. Il vescovo episcopaliano C. Brent diede vita a una commissione con il compito di approfondire l’istituzione ecclesiale, i sacramenti, il ministero. La Commissione, nonostante le critiche di coloro che vedevano in essa un’espressione dell’imperialismo dell’America e dell’Inghilterra, iniziò i suoi lavori a Losanna nel 1927; successivamente proseguirono a Edimburgo nel 1937. FC ha elaborato l’Accordo di Lima (Perù) su ‘Battesimo, eucarestia e ministero’ (BEM) nel 1982, ha portato avanti il confronto interconfessionale sulla confessione della fede comune, sull’ecclesiologia[3], con i documenti ‘La natura e lo scopo della missione della chiesa’ (1999), ‘La chiesa verso una visione comune’ (2013); attualmente la Chiesa cattolica ne fa parte a pieno titolo. La commissione ecumenica teologica ha subito un’evoluzione: “Fede e Costituzione è cambiata negli anni. Quel che è iniziato nel primo ‘900 come un movimento ispirato e centrato in nord America ed Europa è ora qualcosa che riflette molto di più la chiesa mondiale. La commissione, l’espressione più ufficiale dell’intero movimento, ora include molte più donne, molte più persone provenienti da quel che potremmo chiamare il Sud del mondo, teologi che affermano che la loro teologia è modellata dal contesto in cui vivono e persone che vengono con una passione per la giustizia e per la pace. Stiamo procedendo non solo con quello che in molti potrebbero vedere come la classica agenda di Fede e Costituzione, ma ci stiamo chiedendo che cosa possiamo fare oggi, in questo tempo e in un luogo di incontro così diverso e sfaccettato, per aiutare le chiese che cercano di evitare la divisione e che si richiamano all’unità”[4].
I PRIMI TENTATIVI DEL CONFRONTO INTERRELIGIOSO DI FC
Durante la Prima Conferenza Mondiale di FC a Losanna (Svizzera) nel 1927, il riferimento alle varie religioni emerge dalla relazione di Francis J. McConnel, metodista episcopale vescovo di Pittsburg, sul tema ‘Il Vangelo, rivelazione di Gesù agli uomini’. Egli opera un confronto tra la mistica cristiana e quella delle varie religioni, rifacendosi anche agli studi degli storici delle religioni. La dimensione mistica – egli rileva – è già presente nell’AT con le visioni dei profeti, la visione della gloria del Signore da parte di Isaia, le scene contemplate da Ezechiele, ma essa emerge anche nelle varie religioni non cristiane. Secondo il relatore, è contraddittorio auspicare una maggiore comprensione fra le varie religioni e poi criticare le credenze non cristiane. Le visioni e le trance dei santi non cristiani, non vanno messe in dubbio, né denigrate, perché sono il segno di un profondo e genuino istinto religioso, ma non hanno lo stesso valore di quella cristiana, infatti, “quando lo studioso prosegue affermando che quella mistica ha la stessa importanza e lo stesso significato religioso della mistica cristiana, noi obiettiamo”[5]. Le varie esperienze mistiche sono, in effetti, un processo “attraverso il quale l’anima che ha lasciato la terra cade in seno all’essere infinito definito in pienezza ma trattato in realtà come vuoto”[6]. Per il relatore, la mistica indù o altra mistica consente di raggiungere un certo rilassamento, ma non può essere equiparata alla mistica cristiana come benessere della vita umana, che consiste in una profonda coscienza della realtà divine che scaturiscono dal fare la volontà di Dio e che porta all’impegno per migliorare l’umanità.
Durante la Seconda Conferenza Mondiale di FC, tenutasi ad Edimburgo 1937, nel Rapporto della seconda Sezione ‘La chiesa di Cristo e la Parola di Dio’, emerge il dibattito che si era creato attorno alla questione se sia possibile conoscere Dio anche attraverso altre rivelazioni, senza, tuttavia, omologarle all’unicità della rivelazione cristologica: “Ma mentre alcuni sono disposti a riconoscere una preparatio evangelica non solo nella religione ebraica ma anche in altre religioni, e credono che Dio si rivela nella natura e nella storia, altri affermano che l’unica rivelazione, che la chiesa può conoscere e deve testimoniare, è la rivelazione in Gesù Cristo, contenuta nell’Antico e nel Nuovo Testamento”[7]. Nel discorso del vescovo anglicano di Manchester (Inghilterra) William Temple, viene evidenziato il rifiuto da parte di Israele del Vangelo di Cristo, pur essendo stato preparato a ciò dai santi e dai profeti. Questa è stata la prima mutilazione della chiesa – rileva il relatore – che ha avuto gravi conseguenze, in quando essendosi separata dalla tradizione ebraica subì una forte trasformazione per l’influenza della cultura ellenistica. La situazione sarebbe stata diversa se non ci fosse stata la separazione originaria, per cui il cristianesimo è diventato poi prevalentemente europeo, occidentale: “Ma Israele non era nella chiesa per offrire il suo contributo. […] Se Israele non fosse mancato all’inizio, oggi l’abitante dell’India e della Cina non percepirebbe il cristianesimo come europeo”[8].
Nella Terza Conferenza mondiale di FC, tenutasi a Lund (Svezia) nel 1952, Farid Audeh, arabo cristiano presidente del Consiglio supremo delle Chiese evangeliche in Siria e Libano, e presidente del Consiglio cristiano in Medio Oriente, con la sua relazione su ‘La vocazione delle chiese del Medio Oriente alla missione all’unità’, evidenzia che il Medio Oriente è la culla delle tre religioni monoteistiche, ebraismo, cristianesimo e islam, che vivono in quella regione a stretto contatto, in competizione e anche in contrapposizione. Farid Audeh pone in risalto vari problemi del Medio Oriente, tra cui quello collegato allo Stato d’Israele, “la costituzione dello Stato d’Israele (1948) ha causato una situazione di vera e propria guerra fra gli stati arabi e lo Stato d’Israele negli ultimi due anni e mezzo”[9]. Le missioni cristiane – evidenzia il relatore – sono destinate a scomparire e i cristiani hanno dovuto lasciare le loro case e vivere nei campi per i rifugiati, oppure hanno girovagato, sperimentando miseria e privazioni. In quella regione, a causa di tale situazione, attualmente c’è “più paura, più frustrazione e più odio di quanto ve ne siano stati in questa tormentata regione del mondo dalla fine delle crociate”[10]. L’occidente, inoltre, considera l’islam il focolaio di un estremo nazionalismo. La soluzione dei conflitti del Medio Oriente passa per l’unità delle chiese cristiane, che devono intensificare la loro testimonianza del Cristo, intesa come missione evangelizzatrice – secondo il relatore – promuovendo pure la pace e la riconciliazione[11].
EVOLUZIONE DEL CONFRONTO INTERRELIGIOSO
Durante il meeting di FC, tenutosi a Lovanio (Belgio) dal 2 al 12 agosto 1971, nel Documento della Seconda Sezione ‘Unità della chiesa e incontro con le religioni del nostro tempo’ si evidenzia che le diverse parti del mondo si trovano in una situazione di interdipendenza, per cui anche le religioni attraversano una fase di incontro e di reciproca scoperta: “Si prende progressivamente coscienza della diversità e della ricchezza delle tradizioni religiose dell’umanità, così come della sostanziale analogia delle rispettive posizioni nei confronti dei problemi della nostra epoca”[12]. I seguaci delle varie religioni sono i diretti interlocutori dei cristiani e con loro bisogna cercare le vie di una costruttiva coesistenza, superando la semplice coabitazione geografica. Il rapporto con le varie religioni, il dialogo con l’induismo, il buddhismo, l’islam, le religioni tradizionali africane, le varie ideologie, tra cui il marxismo, si può realizzare in modo diverso secondo le varie situazioni locali: “In taluni ambienti è già stato abbozzato e si sviluppa con rapidità; altrove si tratterà di muovere con prudenza i primi passi. Sarà certo la situazione a determinare in gran parte quanto ci si possa attendere da simili incontri”[13]. Si stanno realizzando tali incontri con una molteplicità di forme, partendo da una fase di reciproca influenza spontanea e di confronto delle spiritualità, si è passati alla collaborazione interreligiosa per la promozione della giustizia e della solidarietà tra gli uomini e le nazioni e alle discussioni degli specialisti su questioni dottrinali. Secondo molti, questi tentavi di dialogo sono un’espressione autentica dello stile evangelico, tenendo presente che sin dall’epoca apostolica i missionari cristiani hanno fatto ricorso ad una qualche forma di dialogo; ci sono, però, anche coloro che li ritengono un serio pericolo per l’evangelizzazione e per l’integrità della fede cristiana. Il dialogo si può realizzare – viene sottolineato – solo se c’è un terreno comune, come l’”appartenenza all’umanità, l’attitudine religiosa, l’aspirazione a costruire la comunità”[14]. Nel Documento si analizzano anche le problematiche ecclesiologiche del dialogo interreligioso, manifestando, però, la criticità della prospettiva ecclesiocentrica esclusivista che non rende possibile un autentico dialogo, il confronto rispettoso e la testimonianza senza alcuno scopo proselitistico. Le varie religioni hanno forme diverse di preghiera, di culto, di meditazione, di dottrina, di vita politica e morale. L’induismo e il buddhismo ricercano l’eterno attraverso la meditazione e la vita interiore, mentre per il cristianesimo la preghiera e il culto sono cristocentrici. Per l’ebraismo e in misura minore per l’islam il mondo è il luogo dell’azione di Dio, mentre i cristiani comunicano con Dio attraverso Cristo. Nel dialogo interreligioso – ci si chiede – come è possibile comunicare il cristocentrismo? Il dialogo richiede il rispetto della specifica identità di ciascuna religione, la disponibilità ad accettare l’influenza dell’interlocutore. Qui, però, nasce il problema, poiché il cristianesimo non può modificare il suo kerygma per confrontarsi con le altre religioni. Nel Documento si rileva che spesso il dialogo viene definito la ricerca della verità, ma applicandolo al dialogo interreligioso significherebbe cadere nel relativismo della fede cristiana; invece la verità non può essere messa in discussione. Ci sono però correnti teologiche diverse in merito: “Altri rilevano che, anche a prescindere da ogni dialogo, la chiesa ridefinisce e reinterpreta costantemente la verità, secondo le situazioni. Il dialogo modifica dunque il nostro concetto di verità divina? In che modo la nostra fede ne risulterà influenzata?”[15]. Il dialogo con le altre religioni può compromettere l’ecclesiologia, cioè i caratteri distintivi e la struttura della comunità cristiana, la prassi sacramentale, l’autorità della Bibbia, in quanto anche le altre religioni rivendicano questa caratteristica per i loro testi sacri. Le varie religioni sono espressioni diversificate della fede nell’eterno, per i cristiani – si puntualizza nel Documento – possono scorgervi un segno lasciato da Dio per testimoniare la sua esistenza? Viene rimarcata la preoccupazione del relativismo: “Il fatto che si ammetta che Dio è presente, potenzialmente, in ogni situazione, persino quando la sua presenza è negata, modificata in maniera essenziale la posizione e la missione della chiesa?”[16]. L’evangelizzazione, per rendere comprensibile il suo messaggio, ha bisogno di inculturazione, di integrazione nelle culture autoctone[17], vigilando, però, affinché non si cada nel sincretismo, che non permette più di riconoscere i caratteri specifici della cultura cristiana.
Nell’assemblea di Accra (Ghana), tenutasi dal 23 luglio al 4 agosto 1974, sul tema ‘Rendere ragione della speranza che è in noi. Unità della chiesa. Un solo battesimo, una sola eucarestia e un reciproco riconoscimento dei ministeri, nel Rapporto dei teologi olandesi su ‘L’unità della chiesa: il fine e il cammino’, che ha incontrato varie critiche per la tendenza all’attualizzazione e alla storicizzazione adottando il metodo della storia delle religioni, viene affrontato l’argomento del rapporto con le religioni dell’ AT. Nel Rapporto si afferma che è possibile “riconoscere ciò che viene da Dio nella ricerca religiosa degli uomini e possiamo affermare che questa ricerca si compie in Cristo”[18]. Viene messo in risalto l’interrogativo se, in modo analogo all’AT, le varie religioni possano avere una funzione propedeutica all’evento cristologico che costituisce il loro compimento, la vera luce che illumina gli uomini. L’AT è profondamente radicato in un contesto religioso da cui Israele riceveva la sua linfa vitale, ma, nonostante ciò, è critico nei suoi confronti, come dimostrano il secondo e il terzo comandamento, la lotta contro i Baal, i profeti che smascherano gli dèi e la falsa fiducia nel culto e nel tempio e per questo motivo sono stati perseguitati anche dai membri del popolo d’Israele che subiva, invece, il fascino della religiosità politeista; anche Cristo è stato messo a morte per motivi religiosi. “Il cammino di Israele nell’Antico Testamento rivela la contestazione del Dio vivente contro la nostra arbitraria ambizione – si sottolinea nel Documento – di volerci realizzare con le nostre forze e divinizzare il creato. Noi non conosciamo nessuna religione che possa rimpiazzare questa proclamazione”[19]. A partire dalla premessa cristocentrica è possibile affermare che Dio ha assunto il cammino religioso delle varie nazioni per condurle alla salvezza. Non c’è altro Dio all’infuori della rivelazione ebraico-cristiana, anche se per la sua manifestazione ha utilizzato anche elementi delle religioni circostanti al popolo d’Israele, che però ha modificato tali elementi, per cui alcuni rifiutano l’affermazione della propedeuticità delle religioni alla fede biblica. Nel Documento in modo dialettico, si evidenzia “l’esistenza di un’identica relazione critica tra la fede, da un lato, e la religione ebraico-cristiana, dall’altro. Dio ci chiama tutti, ebrei e non ebrei, cristiani e non cristiani, ad andare dalle nostre diverse religioni verso la sua salvezza”[20].
La Commissione FC durante l’Assemblea sul tema ‘Verso l’espressione della comune fede apostolica oggi. Unità della chiesa e rinnovamento della comunità umana. La comunità di donne e uomini nella chiesa’, tenutasi a Lima (Perù) dal 2 al 16 gennaio 1982, nel Rapporto del gruppo di lavoro ‘Verso l’espressione comune della fede apostolica oggi’ c’è un riferimento alla sfida per la fede ecclesiale cristologica e trinitaria che proviene dall’incontro con le altre religioni, evidenziando, però, anche il valore teologico di tale dialogo: “Ma le altre religioni e ideologie non sono solo e sempre contrarie a Gesù Cristo. Possono contenere molti elementi di verità che la chiesa cristiana dovrebbe riconoscere e anche introdurre nella propria vita e concezione”[21].
IL CONFRONTO INTERRELIGIOSO ALLA LUCE DELLA KOINONIA
Durante Quinta Conferenza Mondiale di FC a Santiago de Compostela (Spagna), tenutasi dal 3 al 14 agosto 1993, sul tema ‘Sulla via della piena Koinonia’, c’è stato un confronto con le religioni monoteistiche ed è stato anche affrontato il tema del dialogo interreligioso. Il luterano John Reumann, nella sua relazione sulla koinonia nella Scrittura, mette in risalto che l’equivalente della categoria koinonia non esiste nel popolo d’Israele, poiché il suo rapporto con Dio si basa sull’elezione, non sulla comunione (fellowship). Dio è il Signore e il popolo il suo servo che opera la salvezza (cf. Is 46,13; 51,, 5-6.8), la giustizia: “In Israele non esistevano la concezione greca e le associazioni greche basate sull’’amicizia’ (friendship). Perciò la radice koinon non ha un esatto equivalente in ebraico; la radice che più si avvicina è quella del verbo chabar (congiungere, legare, unire). Ma chbr sembra indicare l’evento’, mentre koinon indica piuttosto l’’essere’”[22]. Dei 65 casi in cui chbr ricorre nelle Scritture ebraiche non indica mai la comunione con Dio, solo una dozzina è resa con koinon nella versione greca dei Settanta (a esempio le tribù unite con il legno di Giuseppe in Ez 37,16.19) e l’accezione è perlopiù negativa, come nel caso dell’infedeltà, “la tua compagna, la donna legata a te da un patto” (Ml 2,14). Nella versione greca dei Settanta la koinonia indica l’associazione (fellowship) con le divinità pagane (cf. Os 4,17). Nei libri sapienziali più recenti e nei deuterocanonici il termine koinonia è più rilevante, per indicare la condivisione della vita coniugale (cf. 3Mac 4,6), l’invidia che non ha nulla in comune con la sapienza (cf. Sap 6,23). Un contenuto analogo lo si riscontra però nel fariseismo, anche se il relatore ha una concezione molto negativa di tale gruppo. Dalla radice ebraica deriva il sostantivo chaburah, usato soprattutto dai farisei, in riferimento all’osservanza rigida della Legge da parte del gruppo elitario – puntualizza Reumann – purità rituale, il pagamento delle decime: “Un maestro e un gruppo di discepoli potevano essere definiti una chaburah, una conventicola, separata dagli altri e dedita a una rigorosa osservanza della Legge. Essi coltivavano l’amicizia e la comunione (fellowship) scambievole”[23]. Gli scrittori ebrei ellenisti, come Filone e Giuseppe Flavio, impropriamente usarono il termine koinonia in riferimento alla comunità di Qumran, che invece, ha usato solo cinque volte termini derivati da chbr – nei testi conosciuti attualmente – rileva il relatore – mai per indicare il rapporto con Dio: “Ma poiché la loro vita era caratterizzata da una condotta ordinata e dalla condivisione dei beni, gli scrittori ebrei ellenisti, come Filone, usarono il termine koinonia per descrivere gli esseni in modo che i lettori greci potessero facilmente comprendere, come se fossero una comunità pitagorica. Ma i membri della comunità di Qumran pensavano di essere non un’’associazione di amici’ (friendship), bensì una comunità sacerdotale chiamata da Dio e basata sull’alleanza”[24]. Giuseppe Flavio e soprattutto Filone usarono il termine koinonia anche in riferimento ai terapeuti, per descrivere i terapeuti, per definire Mosè amico di Dio (cf. Es 33,11), come pure Israele; viene anche riferito a Dio che essendo benefattore, fa partecipare (koinon) coloro che sono nel bisogno al banchetto dei sacerdoti che offrono i sacrifici. “Ma per il giudaismo palestinese il concetto di koinonia non era un concetto indigeno o ampiamente usato. Perciò, non giocò alcun ruolo negli insegnamenti di Gesù e nella vita della chiesa palestinese […]. Ma poiché in certi ambienti in concetto greco di koinonia era penetrato nel giudaismo ellenistico, Saulo di Tarso poteva avere conosciuto il termine”[25]. A mio avviso, aldilà del dato esegetico, teologicamente bisogna tener conto dell’evoluzione, della gradualità dell’autorivelazione di Dio, che tiene conto anche dei vari contesti culturali. Aldilà del termine koinonia, le Scritture ebraiche testimoniano la familiarità di Dio con il suo popolo ed in particolare con alcuni personaggi che egli sceglie per una particolare missione, come Abramo, Mosè, i profeti.
John Onaiyekan, vescovo cattolico romano di Abuja (Nigeria), nella sua relazione su ‘La benedizione promessa ai popoli: la vocazione di Abramo (Gn 12,1-9). Una visione personale della koinonia’, si sofferma sul ruolo del popolo d’Israele, alla luce delle Scritture ebraiche, ravvisando la prospettiva della koinonia con Dio e in Dio nella vocazione di Abramo, vocazione che viene estesa ai suoi discendenti e a tutta l’umanità. Del racconto biblico di tale vocazione il relatore evidenzia le varie interpretazioni nell’AT e nel NT, partendo dalla storicità di Abramo e dei patriarchi[26]. Secondo il racconto della Genesi la vocazione di Abramo è stata una scelta libera e gratuita di Dio, ma nella rilettura sapienziale è presentata come la ricompensa ad Abramo per la sua rettitudine, in un mondo confuso e malvagio (cf. Sap 19,5; Sir 44,19-23; 1Mac ,52): “La versione coranica della vocazione di Abramo sviluppa questa tendenza con ulteriori dettagli”[27]. Anche San Paolo sottolinea la gratuità della vocazione di Abramo. Dio sceglie Abramo come suo amico (cf. Is 41,8) e la vocazione costituisce un’esperienza personale di Dio, ma in effetti Abramo non è stato un uomo eccezionale, era figlio del suo tempo, per cui risentiva del suo contesto culturale nel concepire la divinità come patrono e protettore della sua famiglia. Il Dio della chiamata non era sconosciuto a lui e neppure a coloro con i quali il patriarca intratteneva delle relazioni religiose[28]. Gesù è stato un discendente di Abramo (cf. Mt 1,1), ma anche superiore ad Abramo (cf. Gv 8,58), poiché con lui si compiono le promesse che Dio aveva fatto al patriarca (cf. Lc 1,55). Nonostante l’oppressione politica ed economica, la comunità giudaica in cui visse Gesù era fiera della sua discendenza abramitica (cf. Lc 3,8; Gv 8,39); anche Paolo sottolineerà che i giudei sono il popolo eletto (cf Rm 9-11). Da Vangeli emerge pure che Gesù nel suo dibattito con i giudei – puntualizza il vescovo J. Onaiyekan – pone in risalto la dimensione universale della vocazione di Abramo (cf Gn 11,3); ciò che conta è la fede, non la discendenza fisica da Abramo[29]. Il cammino ecumenico dei cristiani passa attraverso la riscoperta della comune figliolanza da Abramo, per cui la “koinonia non può essere trattata come una preoccupazione esclusiva dei cristiani nelle loro relazioni interne. La grazia della comunione (fellowship) riguarda tutti. […]. L’umanità ha molto sofferto a causa delle divisioni religiose. Dobbiamo esplorare – sottolinea il vescovo nigeriano – e sfruttare ogni opportunità che ci viene offerta dalla religione per unire maggiormente le persone e i popoli”[30]. Dio è padre di tutti, ma proprio nel suo nome spesso vengono combattute le guerre, mentre occorre riscoprire l’eredità spirituale di Abramo: “La personalità e l’eredità religiosa di Abramo possono costituire un ponte sul fossato che separa le tre grandi religioni monoteistiche – ebraismo, cristianesimo e islam. Tutte riservano un posto particolare ad Abramo come uomo di fede”[31]. Il relatore si sofferma poi, in modo specifico, sulle relazioni fra cristiani ed ebrei, facendo emergere la problematica categoria di razza: “Oggi la discendenza fisica di Abramo sopravvive e fiorisce nella razza ebraica. ‘Da essi proviene Cristo secondo la carne’ (Rm 9,5)”[32]. Per questo motivo la comunità cristiana non può essere indifferente alle sue relazioni con la comunità ebraica; sia i cristiani che gli ebrei in passato non hanno riconosciuto ad Abramo un ruolo importante nella vita delle loro comunità, ma la situazione attuale è diversa. “Oggi, ci si impegna maggiormente – ha sottolineato il vescovo nigeriano – a migliorare le relazioni su una base religiosa. Gli imperativi della fede del Nuovo Testamento richiedono che il cristiano non esiti a prendere iniziative e porgere la mano della comunione. Molte chiese, compresa la mia, hanno introdotto validi canali di dialogo con la comunità ebraica. E’ così che deve essere”[33]. Lo sviluppo del dialogo ebraico-cristiano arreca beneficio sia ai cristiani che agli ebrei.
Il vescovo Onaiyekan si sofferma anche sul dialogo islamo-cristiano, che si fonda su una convergenza parziale, ma importante, sulla personalità spirituale di Abramo, anche se tali relazioni, in molte parti del mondo creano problemi alla pace e all’unità nazionale. Dal punto di vista teologico la figura di Gesù differenzia fortemente i cristiani dai musulmani, poiché questi ultimi non riconoscono la sua divinità, che costituisce, invece, il fondamento della fede cristiana. Profonde differenze esistono anche laddove ci sono delle somiglianze: “Al riguardo Abramo è un caso tipico. Nel Corano, Abramo viene ricordato in circa 245 versetti. Viene detto l’’amico di Dio’ (khalil Allah) e considerato il primo ‘sottomesso’, cioè il primo ‘musulmano’ (Corano 3,67)”[34]. Le notevoli differenze emergono dal fatto che nel Corano non si fa riferimento alla promessa della terra e della discendenza e il figlio del sacrificio è Ismaele non Isacco. La divergenza è data ancor più dal fatto che nella Bibbia è Dio a cercare e trovare Abramo, mentre nel Corano è Abramo a cercare e trovare Dio. Abramo unisce e divide i cristiani e i musulmani. La convergenza è data dalla decisione personale di fede di Abramo che si apre alla confidenza in Dio e non più in se stesso. E’ molto utile un libretto pubblicato alcuni anni fa dalla chiesa cattolica di Francia, intitolato ‘Tous fils d’Abraham, tutti figli di Abramo. Molto problematica è anche la questione della terra promessa ad Abramo e alla sua discendenza, terra ancora oggi con conflitti e violenze a carattere politico e razziale. La questione nella sua complessità di fattori, però, ha anche una profonda dimensione religiosa e per questo motivo vi sono coinvolte le tre religioni monoteistiche: “Il conflitto arabo-israeliano non è semplicemente una questione arabo-musulmana. Esiste una nutrita comunità araba cristiana che condivide la sorte dei suoi fratelli arabi musulmani. Questa comunità araba cristiana viene spesso dimenticata negli ambienti cristiani. Sappiamo che esistono anche alcuni israeliani cristiani. Anche se sono pochi, la loro stessa esistenza ha un grande significato simbolico”[35]. Le tre religioni monoteiste considerano Abramo in modo diverso, ma nello stesso tempo continua ad essere riconoscibile come un simbolo religioso comune, foriero di importanti opportunità per la pace e la riconciliazione. Le comunità cristiane della regione hanno una grande responsabilità nella costruzione della pace, nonostante che siano irrilevanti dal punto di vista numerico. Per esse è chiaro che la promessa della terra fatta ad Abramo è una promessa che riguarda tutti i popoli e particolarmente coloro che vivono in tale terra[36]. Con il compimento esacatologico ci sarà la riconciliazione fra ebrei e cristiani: “Gesù collega Abramo con la comunione alla tavola escatologica nel suo regno nel quale saranno introdotti tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Reclinato sul ‘seno di Abramo’ a quel banchetto escatologico non vi sarà solo il povero e paziente Lazzaro (cf. Lc 16,20-22), ma vi saranno anche ‘molti dall’oriente e dall’occidente’ (cf. Mt 8,11). Allora la promessa fatta ad Abramo troverà il suo pieno compimento. Nel frattempo, noi siamo in pellegrinaggio, con lo sguardo fisso sulla nostra destinazione celeste”[37].
Nella Relazione dell’Arcivescovo anglicano Desmond Tutu di Cape Town (Repubblica del Sud Africa), sul tema ‘Verso la koinonia nella fede, nella vita e nella testimonianza’, si pone in risalto che l’ecumenismo passa per il dialogo interreligioso: “Dobbiamo essere unanimi nella richiesta di stati in cui tutte le religioni siano trattate allo stesso modo e alla pari, senza che nessuno goda di vantaggi ingiusti sulle altre”[38]. Deve essere così nei paesi in cui i cristiani sono la maggioranza, a prescindere dal fatto che nei paesi in cui sono una minoranza le altre religioni si comportino in questo modo, anche se è una speranza. La tolleranza e la libertà religiosa sono dei beni preziosi e i cristiani li devono promuovere per coerenza con la loro fede. “Dobbiamo vigilare – sottolinea l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu – per resistere ai contraccolpi del fondamentalismo cristiano conservatore nei riguardi del proselitismo di altre religioni. In ultima analisi il cristianesimo deve attrarre i non credenti con il luminoso esempio di vita dei suoi aderenti e non per il fatto di godere della protezione dello stato”[39]. La Relazione di Konrad Raiser, della Chiesa evangelica di Germania e Segretario generale del CEC, sul tema ‘Il futuro del CEC e il ruolo di FC nel Movimento ecumenico’, mette in risalto che le chiese si trovano ad affrontare il fenomeno dell’espansione dei nuovi movimenti religiosi nei paesi tradizionalmente cristiani, mentre c’è un allontanamento dal cristianesimo, “il risveglio e la diffusione delle grandi religioni mondiali, in particolare dell’islam e dell’induismo”[40]. Come reazione a tutto ciò le chiese rafforzano la forza conservatrice delle loro tradizioni, con l’intento di preservarle.
Nel Documento della IV Sezione ‘Chiamati a una testimonianza comune per un mondo rinnovato’, si afferma che la libertà di coscienza ha un valore universale e ad essa non vi sono limiti; l’assoluta libertà di azione, a volte, ha delle gravi conseguenze che non possono essere permesse, “per esempio quando le pratiche religiose violano o minacciano la vita umana e i diritti umani fondamentali”[41]. Le pratiche religiose fraudolente e coercitive devono essere represse anche con l’intervento dello Stato. La situazione attuale è molto complessa che richiede degli interventi chiarificatori in merito anche da parte del CEC, si sottolinea nel Documento di FC: “Oggi, mentre i nuovi movimenti religiosi e gli antichi gruppi e movimenti cristiani si sfidano reciprocamente, al di là delle frontiere internazionali, c’è bisogno di un nuovo esame della natura e dei limiti della libertà religiosa”[42]. Le chiese sperimentano la qualità e l’urgenza dei rapporti interreligiosi in modo diversificato nei vari contesti, per cui la situazione è molto dialettica: “Da un lato, il dialogo tra persone di convinzioni religiose differenti può essere enormemente arricchente. D’altro canto, tuttavia, la religione è un elemento di conflitto e di divisione in molte parti del mondo. Entrambe queste realtà devono essere tenute presenti quando si affronta il tema del dialogo interreligioso”[43]. Nel Documento si evidenzia la differenza tra il dialogo interconfessionale e quello interreligioso. Il primo mira alla piena unità visibile; quello interreligioso deve sviluppare un discorso e un incontro per favorire la comprensione reciproca tra le varie religioni, “la cooperazione in risposta alle necessità umane, la reciproca testimonianza e la condivisione nel perseguire la verità”[44]. I cristiani, da una parte devono essere fedeli alla loro testimonianza dell’unicità salvifica in Cristo, dall’altra devono permettere ai partner di altre religioni di testimoniare la loro fede secondo le loro specifiche modalità. Nel Documento di FC viene espresso il fondamento teologico delle relazioni fraterne interreligiose, che si ritrova già nel Documento ‘Missione ed evangelizzazione: una affermazione ecumenica’ del 1982 (paragrafo 43): Dio è il creatore dell’universo e la sua testimonianza abbraccia ogni tempo e luogo (cf. At 14,17). A ciò si unisce la prospettiva pneumatologica che consente di scorgere le ricchezze delle altre tradizioni religiose: “Lo Spirito di Dio è costantemente all’opera in modi che superano la comprensione umana e in luoghi per noi inaspettati. Nell’entrare in rapporto di dialogo con gli altri, tuttavia, i cristiani cercano di discernere le insondabili ricchezze di Dio e il modo in cui egli si occupa dell’umanità”[45]. In base a tutto ciò il dialogo ecumenico deve prendere in seria considerazione il contesto interreligioso, sia delle religioni tradizionali, come pure delle principali religioni mondiali. Nel Documento di discussione ‘Verso la Koinonia nella fede, nella vita e nella testimonianza’ si sottolinea che i cristiani e le chiese, nel loro impegno per rispondere alle gravi situazioni mondiali, devono cogliere l’opportunità di mettere in atto tutto ciò associandosi con persone di altre fedi e convinzioni[46], contribuendo così al superamento della povertà disumanizzante, al rispetto dei diritti umani, alla protezione di tutti i popoli, al giusto ordine economico mondiale, unendosi anche ad altri organismi e movimenti internazionali. L’impegno deve riguardare il sostegno e il rafforzamento delle agenzie internazionali per il mantenimento della pace, una comune azione per la cura dell’ambiente, gli sforzi per la riduzione degli armamenti e del commercio delle armi, destinando le enormi somme risparmiate per il miglioramento del potenziale umano, l’istruzione, la sanità, la creazione di posti di lavoro, la riforma agraria, con una particolare attenzione alle persone più emarginate. “In un mondo sempre più interdipendente e pluralistico, i cristiani devono sviluppare una nuova coscienza della dignità e del contributo delle diverse culture e quindi dell’interrelazione fra diversità e mondialità”[47].
Nel III Documento di discussione si parla della ‘Testimonianza comune in dialogo con persone di altre fedi viventi’[48], partendo dalla problematicità della realtà attuale, in cui spesso le religioni vengono coinvolte nelle divisioni e conflitti, come in Medio Oriente, Europa, Africa e India; i simboli religiosi vengo usati per esacerbare i conflitti, quindi, vengono strumentalizzati. Tutto ciò si situa in una situazione globale di indifferenza, intolleranza e dileggio, paura e sfiducia nelle religioni. Il compito delle chiese – si puntualizza nel Documento di FC – è quello di favorire la riconciliazione tra le diverse comunità religiose, il superamento dei conflitti sociali, razziali, etnici e nazionali, promuovendo la conoscenza, la comprensione e la guarigione, realizzando il dialogo con le altre fedi. Nel dialogo interreligioso, però, emerge la peculiarità di quello ebraico-cristiano: “Per molti cristiani il dialogo con gli ebrei assume un particolare significato a causa delle comuni radici nella tradizione di fede delle Scritture ebraiche e anche alla luce della storia spesso dolorosa delle relazioni ebraico-cristiane”[49]. Il dialogo si realizza – viene sottolineato nel Documento – con la reciproca comprensione e fiducia, nella scoperta gioiosa della comune umanità. Il dialogo richiede l’ascolto reciproco, l’accoglienza e la comprensione delle percezioni delle altre religioni, prendendo sul serio la loro fede e il loro stile di vita, mettendo in atto la collaborazione per costruire una comunità riconciliata, in cui vengano superati i conflitti. Non mancano però le difficoltà per un dialogo interreligioso nell’ambito sociale, operativo: “Ciò non sempre è facile, perché i valori delle altre fedi mondiali possono entrare in conflitto con i valori cristiani. Ma l’azione comune, dove è possibile, fa parte della missione della chiesa”[50] . Tra dialogo ed evangelizzazione – si evidenzia nel Documento – non c’è contrasto, perché quest’ultima va intesa come l’autentica testimonianza che rifiuta ogni forma di coercizione, il rispetto della libertà di coscienza e delle pratiche religiose altrui. La reciproca comprensione e fiducia rendono possibile manifestare il desiderio, da parte di ciascuna fede religiosa, di manifestare la propria testimonianza; da parte dei cristiani questo significa che la loro sollecitudine e l’amore per gli altri li porta a “ desiderare di condividere la loro esperienza dell’amore di Dio e il loro impegno nei riguardi di Gesù Cristo come loro Signore e Salvatore”[51]. Il dialogo interreligioso, quindi, non comporta alcun cedimento – anche se non evidenziato esplicitamente nel testo di FC – al sincretismo o relativismo religioso, ma richiede fedeltà alla propria identità di fede. Nel Documento non vengono taciute, però, le difficoltà ecumeniche per il dialogo interreligioso, in quanto vi sono prospettive teologiche diverse, sintetizzate nel testo di FC in tre specifiche correnti: quella pneumatologica, quella cristologica e quella che ingloba entrambe. Riguardo alla prima corrente, che prende sul serio il dialogo interreligioso, si puntualizza nel Documento: “Alcuni basano il dialogo su un approccio che permette loro di riconoscere mediante lo Spirito Santo la presenza e l’amore di Dio in altre comunità religiose. In tal modo sarà sempre possibile che le altre fedi sfidino la comprensione dei cristiani e li stimolino a rinnovare la loro percezione del vangelo. Coloro che praticano questo approccio credono che il dialogo sia parte integrante della missione della chiesa: lavorare per una comunità caratterizzata da armonia religiosa e tolleranza”[52]. Riguardo alla seconda corrente – si rileva nel Documento – essa parte dall’unicità salvifica di Dio in Cristo e il dialogo viene inteso come una forma di pre-evangelizzazione; la terza corrente evidenzia, invece, che testimoni di Dio Creatore, per opera del suo Spirito ci sono in tutte le religioni, epoche e culture, anche se confessano Gesù Cristo come loro Signore e Salvatore. Tali differenze teologiche e missiologiche, in seno alle chiese e fra di esse, sono fondamentali e vanno affrontate nel dialogo ecumenico.
CONCLUSIONE
La prospettiva del dialogo interreligioso, è stato tematizzato anche dalla Chiesa cattolica, a cominciare dal Concilio Vaticano II, particolarmente con la Dichiarazione ‘Nostra Aetate’, senza entrare in merito alla questione teologica del valore salvifico delle varie religioni, mettendo, però, in risalto importanti presupposti sviluppati in seguito dalla teologia delle religioni. Per il Concilio le religioni sono un segnale dell’apertura dell’uomo al Totalmente Altro, della sete di Infinito, di Assoluto, di senso, di felicità autentica, di trovare una risposta circa il perché del dolore e della morte. L’uomo a livello esistenziale ha un animo religioso (Karl Rahner). Il presupposto fondamentale è l’unità del genere umano, che ha una stessa origine (protologia), da cui scaturisce la dignità di tutti gli esseri umani, ed hanno tutti un fine ultimo (escatologia). Il piano salvifico di Dio si realizza attraverso vie misteriose (cf. GS 14,19,22), che va oltre i limiti visibili della Chiesa, perché l’opera di Dio è creativa, libera. Il Concilio ha riconosciuto la carica sapienziale e trascendentale di ogni religione, ed esse possono essere un potenziale elemento di unità per tutto il genere umano.
Le teologie della religioni portano avanti la riflessione critica sulla correlazione tra una specifica identità religiosa, nel nostro caso cristiana che afferma l’unicità dell’automanifestazione salvifica di Dio in Cristo e il pluralismo del contesto religioso, non più soltanto a livello globale, ma anche a livello locale, favorito anche dal fenomeno delle immigrazioni. Le teologie delle religioni si caratterizzano per una pluralità di prospettive, che possono essere sintetizzate in tre. La prima, ecclesiocentrica, o anche esclusivista, è quella classica cristiana che tendeva a negare il valore delle altre religioni. Oramai questa concezione è superata. La seconda corrente, cristocentrica o inclusivista, prova a mettere in risalto l’azione di Cristo nelle altre religioni. La terza, teocentrica o pluralista, tende a riconoscere il valore teologico e oggettivo di ogni religione poiché Dio parla in tanti modi e luoghi. In questa terza concezione ci sono, però, anche posizioni relativiste. Un sano pluralismo religioso, dal punto di vista cristiano, che riconosce l’agire misterioso dello Spirito Santo nelle altre religioni, non può misconoscere il ruolo di Cristo, unico salvatore del mondo. Il dialogo rientra a pieno titolo nella missione evangelizzatrice della Chiesa e favorisce il rafforzamento della propria identità, perché non cede ad alcuna forma di sincretismo e di relativismo, bensì favorisce l’incontro tra fedi diverse per la conversione reciproca verso l’unico Dio che è Padre di tutti. “Un vero cristiano non può non dialogare perché è la sua stessa fede – natura – che lo orienta all’incontro con gli uomini e le donne del proprio tempo, come anche al confronto sereno con il mondo, le culture, le fedi e le esperienze spirituali, filosofiche e culturali che ogni cercatore di Dio – o anche di senso – vive giorno per giorno nella sua storia di credente e di persona aperta al mistero e al trascendente”[53].
La Commissione Fede e Costituzione offre il suo contributo ecumenico e teologico a tale prospettiva, assunta anche dal CEC, di cui si è parlato nella prima parte di questa riflessione, rivelando una prima fase più incerta, piuttosto apologetica. Il confronto, particolarmente con l’ebraismo ma anche con l’Islam, emerge in modo sempre più deciso, nonostante le legittime preoccupazioni per un relativismo o sincretismo teologico, ma sviluppando anche prospettive positive, fondate sulla fedeltà alla propria tradizione che si articola con il pieno rispetto per le altre tradizioni religiose, per la conoscenza reciproca, i rapporti fraterni e la collaborazione nella costruzione della pace giusta nella società e dell’impegno per il superamento delle sfide globali.
[1] Faith and Order (FO).
[2] ANTINUCCI – SCOGNAMIGLIO, Il sogno dell’unità, 11.
[3] Cf. ivi 24-26.36 s.
[4] S. DURBER, Fede e Costituzione oggi: un movimento che si muove, in www.monasterodibose.it > comunita > finestra-ecumenica > 1243-fe… (ultimo accesso il 14 giugno 2020).
[5] COMMISSIONE ‘FEDE E COSTITUZIONE’, Prima Conferenza mondiale. Losanna 3-21 agosto 1927, in S. ROSSO – E. TURCO (curr.), Fede e Costituzione. 6. Conferenze mondiali 1927-1993, EO 6, Edizioni Dehoniane, Bologna 2005, 117.
[6] Ivi.
[7] COMMISSIONE ‘FEDE E COSTITUZIONE’, Seconda Conferenza mondiale. Edimburgo (Scozia) 3-18 agosto 1937, in EO 6, 1248.
[8] Ivi 818.
[9] ID., Terza Conferenza Mondiale. Lund 15-28 agosto 1952, in OE 6, 1651.
[10] Ivi 1652.
[11] Cf. COMMISSIONE ‘FEDE E COSTITUZIONE’, Quarta Conferenza mondiale. Montréal (Canada) 12-26 luglio 1963, in OE 6, 1898. Viene evidenziato che le chiese devono confrontarsi con i profondi cambiamenti in atto, tra cui quello della rinascita delle religioni non cristiane.
[12] COMMISSIONE FEDE E COSTITUZIONE, Unità della chiesa e unità del genere umano. Louvain-Héverlée 2-12 agosto 1971, in S. ROSSO – G. CERONETTI (curr.), Enchiridion Oecumenicum. Fede e Costituzione 9/1. Meeting 1967-1982, Edizioni Dehoniane, Bologna 2010, 512 (d’ora in poi sempre OE 9/1).
[13] Ivi.
[14] Ivi 513.
[15] Ivi 515.
[16] Ivi 516.
[17] Cf. ivi 517.
[18] COMMISSIONE FEDE E COSTITUZIONE, Rendere ragione della speranza che è in noi. Unità della chiesa. Un solo battesimo, una sola eucarestia e un reciproco riconoscimento dei ministeri. Accra (Ghana) 23 luglio – 4 agosto 1974, in OE 9/1, 1376.
[19] Ivi 1377.
[20] Ivi 1378.
[21] FEDE E COSTITUZIONE, Lima (Perù). Verso l’espressione della comune fede apostolica oggi. Unità della chiesa e rinnovamento della comunità umana. La comunità di donne e uomini nella chiesa. 2-16 gennaio 1982, in EO 9/1, 2015.
[22] COMMISSIONE ‘FEDE E COSTITUZIONE’, Quinta Conferenza mondiale. Sulla via della piena koinonia. Santiago de Compostela 3-14 agosto 1993, in OE 6, 2287.
[23] Ivi 2288.
[24] Ivi.
[25] Ivi.
[26] Cf. ivi 2339.
[27] Ivi 2340.
[28] Cf. ivi 2342.
[29] Cf. ivi 2356.
[30] Ivi 2358.
[31] Ivi.
[32] Ivi 2359.
[33] Ivi.
[34] Ivi 2360.
[35] Ivi 2361.
[36] Cf. ivi.
[37] Ivi 2363.
[38] Ivi 2417.
[39] Ivi.
[40] Ivi 2601.
[41] Ivi 2851.
[42] Ivi.
[43] Ivi 2854.
[44] Ivi 2855.
[45] Ivi 2856.
[46] Cf. ivi 2885.
[47] Ivi 2887.
[48] Cf. ivi 2982-2987.
[49] Ivi 2983.
[50] Ivi 2985.
[51] Ivi 2986.
[52] Ivi 2987.
[53] SCOGNAMIGLIO, Il dialogo interreligioso. Blog del 21 luglio 2011, in www.centrostudifrancescani.it>News & Eventi (ultimo accesso 25-05-2018).
di Lucia Antinucci
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