Introduzione
La mia riflessione si sviluppa in due tappe. Nella prima analizzerò il contributo delle Assemblee del CEC al dialogo e alla fraternità interreligiosa, seguendo lo sviluppo diacronico per far emergere l’evoluzione di tale prospettiva. Questa parte si apre con un accenno alla storia del CEC e si conclude con un’appendice riguardo alla collaborazione tra tale organismo ecumenico e il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso (PCDI). La seconda tappa ha come tema il contributo della Commissione ‘Fede Costituzione’.
Già nel 1805 nel mondo evangelico ci fu il tentativo di creare un’associazione delle varie denominazioni; nel 1844 nacque l’associazione Young Men’s Christian Association, nel 1955 la Young Women’s Christian Association, nel 1898 la Federazione universale degli studenti cristiani. I vari tentativi di associazionismo ecumenico portarono all’Assemblea mondiale delle associazioni missionarie protestanti nel 1910, che si tenne ad Edimburgo (Scozia). Venne poi creata una Commissione permanente per la consultazione teologica e operativa fra le varie chiese. Il dialogo ecumenico mise in risalto due prospettive; quella diaconale extraecclesiale (Vita e Azione) e quella teologica intraecclesiale (Fede e Costituzione) che procedevano parallelamente. Occorreva creare la sintesi fra le due dimensioni, per cui venne creato nel 1937 un Comitato a Londra, in vista della prima assemblea del CEC prevista per il 1941, ma a causa della guerra ebbe luogo nel 1948.
PRIMA PARTE: LE ASSEMBLEE GENERALI DEL CEC
Dalle varie assemblee del CEC è emerso inizialmente il confronto con l’ebraismo; dopo è andata emergendo sempre più la dimensione interreligiosa e il confronto con l’islam, come pure la prospettiva del dialogo interculturale.
Prima Assemblea del CEC[1]
La prima Assemblea ha avuto come tema ‘Il disordine dell’uomo e il disegno di Dio’ e si è tenuta ad Amsterdam dal 22 agosto al 4 settembre 1948. Nel Rapporto del IV Comitato su ‘Questioni ecclesiali’ il paragrafo 3 è dedicato all’approccio cristiano agli ebrei[2], anche se con una prospettiva problematica, intesa come evangelizzazione degli ebrei, per cui non si può parlare ancora di dialogo ebraico-cristiano. Il discorso del rapporto con l’ebraismo viene situato nella tematica generale del disordine causato dall’uomo, di cui una drammatica conseguenza è stata la Shoah, a cui si contrappone il disegno eterno di Dio per la sua chiesa che va riscoperto: “Nell’unico mondo voluto da Dio, nessun popolo ha sofferto maggiormente a causa del disordine dell’uomo, del popolo ebraico. Non possiamo dimenticare di essere riuniti in un paese dal quale sono stati deportati per essere uccisi 110.000 ebrei, né possiamo dimenticare che ci riuniamo ad appena cinque anni di distanza dallo sterminio di 6 milioni di ebrei”[3]. I cristiani e gli ebrei, per volontà di Dio, sono uniti da una particolare solidarietà, perché il disegno di Dio unisce il destino di entrambi. Nel Rapporto viene lanciato un appello a tutte le chiese affinché facciano propria questa preoccupazione nei confronti degli ebrei e condividano i risultati della riflessione del Comitato, anche se piuttosto embrionale poiché molto breve. Il punto di partenza della riflessione del Comitato del CEC è la responsabilità ecclesiale dell’evangelizzazione, che problematicamente – come già rilevato -, include anche il popolo ebraico: “Tutte le nostre chiese devono obbedire al mandato del nostro comune Signore: ‘Andate e ammaestrate tutte le nazioni’ (Mt 28,19). Il compimento di questo mandato richiede che includiamo anche il popolo ebraico nel nostro compito di evangelizzazione”[4]. Nel Rapporto si pone in risalto che Israele occupa un posto unico nel piano divino, a partire dall’alleanza di Abramo; ad Israele Dio ha rivelato il suo Nome e la sua Legge, gli ha inviato i suoi profeti e gli ha promesso la venuta del suo Messia. Nel Rapporto si evidenzia che la storia di Gesù può essere compresa solo nel contesto della storia ebraica, ma nonostante ciò, in base a questo legame, la chiesa ha la responsabilità di includere anche gli ebrei come destinatari dell’evangelizzazione; bisogna tener presente che si tratta di un primo timido passo di dialogo con l’ebraismo, che richiede quindi una decisa evoluzione: “Attraverso la storia di Israele Dio ha preparato la culla in cui, nella pienezza del tempo, ha deposto il Redentore di tutta l’umanità, Gesù Cristo. La chiesa ha ricevuto questo retaggio spirituale da Israele ed è quindi tenuta a restituirlo alla luce della Croce. Perciò dobbiamo proclamare con umile convinzione agli ebrei: ‘Il Messia che voi attendete è già venuto’. La promessa è stata realizzata dalla venuta di Gesù Cristo”[5]. E’ diverso, invece, il discorso che successivamente svilupperà la Chiesa cattolica, a partire dalla Dichiarazione del Concilio Vaticano II (1962-1965) Nostra Aetate al numero 4, partendo dal fatto che gli ebrei non sono il popolo deicida, responsabile della morte di Gesù, e sviluppando successivamente che l’alleanza di Dio con Israele non viene mai meno, per cui bisogna rispettare le difficoltà degli ebrei nei confronti della fede cristologica, fino ad affermare chiaramente nel 2015 che gli ebrei non vanno evangelizzati[6]. Nel Rapporto del Comitato si rileva che secondo alcuni “l’ininterrotta esistenza di un popolo ebraico che non riconosce il Cristo è un mistero divino che può essere adeguatamente spiegato solo con un rinvio all’immutabile fedeltà e misericordia di Dio (cf. Rm 11,25-29)”[7].
Per il Comitato del CEC il rapporto con gli ebrei risente di gravi ostacoli come l’antigiudaismo e l’antisemitismo, che hanno portato alla persecuzione degli ebrei, venendo meno alla carità cristiana e alla giustizia sociale: “In passato, le chiese hanno contribuito a incrementare quell’immagine degli ebrei quali unici nemici di Cristo, che ha favorito l’antisemitismo nella società civile. Su molti paesi incombe ancora un violento antisemitismo e in altri ancora gli ebrei sono sottoposti a molti maltrattamenti indegni”[8]. Solo la condanna dell’antisemitismo consente di portare avanti il dialogo con gli ebrei, per cui il Comitato lancia un appello a tutte le chiese affinché venga denunciato l’antisemitismo, qualunque sia la sua origine, che è inconciliabile con la professione di fede e con la pratica della vita cristiana, grave peccato contro Dio e contro l’uomo. Solo un convinto impegno contro l’antisemitismo può suscitare la fiducia degli ebrei, può convincerli che i cristiani perseguono i loro comuni diritti e la comune dignità che Dio vuole per i suoi figli; in questo modo ci sarà anche la possibilità “di condividere con loro il meglio di ciò che Dio ci ha offerto in Cristo”[9]. Il IV Comitato del CEC denuncia anche le forme problematiche in cui a volte è stata attuata la missione ecclesiale verso gli ebrei, missione spesso fallimentare. Sono state create organizzazioni parallele alle chiese per attuare tale missione, che hanno portato poi, denuncia il Comitato, alla segregazione degli ebrei convertiti al cristianesimo: “Lo svolgimento di questo mandato attraverso organismi specializzati ha spesso comportato l’adozione di iniziative missionarie specifiche per gli ebrei, anche in situazioni in cui potevano essere facilmente inclusi nel ministero normale della chiesa. In molti casi, ha comportato anche la segregazione dei convertiti in comunità separate, invece della loro inclusione e accoglienza fra i normali membri della chiesa”[10]. L’attività missionaria sottolinea il Comitato CEC – rivolta agli ebrei deve essere integrata nella normale attività parrocchiale, particolarmente in quei paesi nei quali gli ebrei fanno parte della comunità civile; dove invece non esiste una chiesa indigena, oppure essa è inadeguata per questo compito, si può ricorrere a un ministero missionario speciale con personale proveniente dal di fuori. L’esortazione del Comitato CEC è quello di vivere l’amore evangelico che porta a superare le separazioni e le discriminazioni, per cui “non vi sarà differenza fra un ebreo convertito e altri membri della chiesa, dal momento che tutti appartengono alla stessa chiesa e comunità attraverso Gesù Cristo (same Church and fellowship). Ma l’ebreo convertito ha bisogno di una particolare tenerezza e piena accoglienza, dal momento che il suo ingresso nella chiesa comporta spesso una rottura molto dolorosa con la famiglia e gli amici”[11]. Occorre avere speciale sensibilità per le particolari sofferenze dei cristiani di origine ebraica; non bisogna dimenticarli, ghettizzarli, ma aiutarli.
La creazione dello Stato d’Israele aggiunge una dimensione politica all’approccio cristiano agli ebrei, complicando l’antisemitismo con timori e inimicizie politiche; occorre, tuttavia, non esprimere giudizi sugli aspetti politici della questione palestinese e sul conflitto di diritti che chiama in causa. La questione va affrontata dal punto di vista morale e spirituale, non in base a strategie politiche ed economiche. Riguardo alla creazione di uno stato ebraico si possono assumere posizioni diverse circa le ragioni e i torti degli ebrei o dei palestinesi, come pure degli arabi cristiani e degli ebrei cristiani. Il compito delle chiese – si sottolinea nel Rapporto del Comitato CEC – è quello di “pregare e operare per un ordinamento in Palestina giusto per quanto lo possa consentire il nostro disordine umano; ad assicurare, per quanto è in loro potere, un aiuto alle vittime del conflitto senza discriminazioni; a cercare di influenzare gli stati a dare rifugio ai ‘profughi’ più generosamente di quanto non abbiano fatto finora”[12]. Il Rapporto del IV Comitato si conclude con una serie di Raccomandazioni. Nell’attività di evangelizzazione, che è universale, bisogna comprendere anche gli ebrei; bisogna incoraggiare i fedeli ad avere relazioni fraterne con gli ebrei, a conoscerli, a collaborare con gli organismi “che lottano contro i malintesi e i pregiudizi”[13]. Nell’attività missionaria rivolta agli ebrei bisogna evitare di ricorrere a pressioni o lusinghe; occorre promuovere la preparazione di ministri che sappiano interpretare il vangelo in modo adatto agli ebrei fornendo anche pubblicazioni in tal senso. Al CEC si raccomanda di stimolare e assistere le chiese nella loro missione rivolta agli ebrei, condividendo questo impegno con il Consiglio missionario internazionale. Il Comitato chiede ancora al CEC che esso promuova uno studio più approfondito dei complessi problemi inerenti alle relazioni fra cristiani ed ebrei, tra cui la crescita e la persistenza dell’antisemitismo e gli strumenti più efficaci per combatterlo, la necessità e l’opportunità della collaborazione tra ebrei e cristiani in campo civile e sociale, l’approfondimento dei problemi della questione israelo-palestinese[14].
Seconda Assemblea del CEC
L’ Assemblea ha avuto come tema ‘Cristo speranza del mondo’ e si è tenuta ad Evanston (Stati Uniti) dal 15 al 30 agosto 1954. Fra i Documenti aggiuntivi dell’Assemblea vi è la ‘Dichiarazione sulla speranza d’Israele’, da cui emerge lo sviluppo di un diverso approccio alle relazioni con l’ebraismo, anche se ancora in modo dialettico, anticipando alcune prospettive di NA 4. Dalla Dichiarazione emerge la preoccupazione di offrire un chiarimento per evitare di essere fraintesi da coloro che hanno opinioni diverse: “La nostra preoccupazione riguardo a questo tema è di natura esclusivamente biblica e non deve essere confusa con alcun atteggiamento politico nei riguardi dello Stato d’Israele. Noi crediamo che Gesù Cristo è il Salvatore di tutta l’umanità. In lui non vi è né giudeo né greco (cf. Gal 3,28), ma crediamo anche che Dio ha scelto Israele per la realizzazione del suo disegno di salvezza. Gesù Cristo, come uomo è stato un ebreo. La chiesa di Gesù Cristo è basata sul fondamento degli apostoli e dei profeti, che erano tutti ebrei, per cui essere membri della chiesa cristiana è invece essere coinvolti insieme agli ebrei nella nostra unica indivisibile speranza in Gesù Cristo”[15]. Gesù, il Messia d’Israele, è stato rifiutato dal suo popolo e accettato dai gentili, ma la potenza generosa di Dio ha fatto sì che la crocifissione del Figlio divenisse fonte di salvezza anche per i gentili (cf. Rm 11,11), per cui il legame con il popolo d’Israele è inscindibile: “Che la cosa ci scandalizzi o meno, questo significa che noi siamo innestati nel vecchio albero di Israele (cf. Rm 11,24), al punto che il popolo del Nuovo Testamento non può essere separato dal popolo dell’Antico Testamento”[16]. La Dichiarazione del CEC, facendo riferimento al NT riguardo al compimento escatologico che includerà anche gli ebrei, sviluppa una prospettiva cristocentrica (cf. Rm 11,12-36; Mt 23,29): “Questa fede è un elemento indispensabile della nostra unica speranza per gli ebrei e per i gentili in Gesù Cristo. La nostra speranza nella futura vittoria del Cristo comprende la nostra speranza per Israele in Cristo, la nostra speranza nella sua vittoria sulla cecità del suo popolo. Attendere Gesù Cristo significa sperare la conversione del popolo ebraico, e amarlo significa amare il popolo della promessa di Dio”[17]. Nel Documento si pongono in risalto le gravi colpe dei cristiani nei confronti degli ebrei, da tale presupposto, però, si arriva alla conclusione della missione evangelizzatrice nei confronti del popolo della promessa, poiché l’alleanza di Dio con Abramo è sempre valida; la chiesa non può fermarsi fino a quando il titolo regale di Cristo non venga riconosciuto anche dagli ebrei: “Perciò, invitiamo tutti gli uomini a lodare e magnificare insieme a noi Dio ‘che ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia’ (Rm 11,32)”[18].
Quarta Assemblea del CEC
L’Assemblea sul tema ‘Ecco, io faccio nuove tutte le cose’, si è tenuta ad Uppsala dal 4 al 20 luglio 1968. Nel Rapporto della Seconda Sezione sul ‘Rinnovamento nella missione’, si accenna al dialogo interreligioso ed anche con coloro che non professano alcun credo, senza cedimenti all’unicità della fede cristiana. Si tratta, piuttosto, di vivere in senso evangelico avvicinandosi agli altri non per fare proselitismo, ma con uno stile “umano, personale, adatto alle circostanze e umile”[19]. Il dialogo è reso possibile dalla condivisione di valori comuni: “Nel dialogo condividiamo la nostra comune umanità, la sua dignità e il suo carattere decaduto, ed esprimiamo il nostro interesse comune per l’umanità. Il dialogo ci offre la possibilità di partecipazione a nuove forme di comunità e di servizio comune. Ciascuno incontra l’altro e lo stimola, testimoniando dal profondo della sua esistenza gli interessi ultimi che egli arriva ad esprimere nella parola e nell’azione”[20]. Il dialogo come condivisione di valori umani, però, diventa anche annuncio, in quanto fa conoscere l’autentica realtà del vangelo, non quella deformata che deriva da pregiudizi, precisando, però, che sono ben distinte queste due realtà: “Dialogo e annuncio (dialogue and proclamation) non sono la stessa cosa: l’uno completa l’altro costituendo la testimonianza totale”[21]. Ci sono, però, anche delle situazioni – si rileva nel Rapporto – che rendono impossibile il dialogo e l’annuncio, per cui occorre scegliere la strada della testimonianza del silenzio, cioè vivendo da cristiani in modo silenzioso e soffrendo per il Cristo, partecipando alla sua Passione.
Quinta Assemblea del CEC
L’Assemblea sul tema ‘Cristo libera e unisce’, si è tenuta a Nairobi dal 23 novembre al 10 dicembre 1975. Nel Rapporto della Terza Sezione ‘La ricerca comune di popoli, di fedi, di culture e ideologie diverse’, vengono delineate delle prospettive per un dialogo tra fedi diverse, per la costruzione di una comunità più ampia con uomini di diversi credo, culture e ideologie, anche se con le ideologie dell’incredulità ci sarà sempre un rapporto dialettico. Il Rapporto sottolinea che il dialogo non annulla la missione evangelizzatrice, che non va abbandonata, tradita e neppure va consentito che venga strumentalizzata: “Il dialogo è insieme una questione di ascolto e di comprensione della fede degli altri e anche una testimonianza del vangelo di Gesù Cristo”[22]. Il dialogo interreligioso prende le distanze dal sincretismo, inteso come “il tentativo umano, cosciente o inconscio, di creare una religione nuova composta da elementi presi da diverse religioni”[23]. Nei paesi cristiani occidentali di plurisecolare cultura cristiana, più o meno omogenea, c’è una presa di coscienza della realtà delle altre religioni che genera sconcerto, non solo dovuta ai viaggi ma anche ai mass media. Nel Rapporto si auspica che venga superata una ristretta visione cristianocentrica, per aprirsi sempre più ad una dimensione globale, collaborando alla promozione della pace nella giustizia: “E’ estremamente urgente che noi cerchiamo una comunità che superi i confini della nostra. Che lo vogliamo o meno, ci troviamo proiettati con tutta l’umanità verso una comune preoccupazione per la pace e la giustizia. Siamo coinvolti insieme in un mondo interdipendente nel quale il dilemma principale è: sopravvivenza o estinzione?”[24]. Senza compromettere la novità dello scandalo del vangelo bisogna maturare nella prospettiva dell’umanità come un’unica famiglia, contribuendo al superamento di odi e diffidenze, impegnandosi costantemente affinchè la fede cristiana non venga distorta da finalità, che il Rapporto definisce ‘demoniaci’, nel senso che venga strumentalizzata da ideologie che portano all’odio e alla violenza.
Sesta Assemblea del CEC
L’Assemblea sul tema ‘Gesù Cristo vita del mondo’, si è tenuta a Vancouver (Canada) dal 24 luglio al 10 agosto 1983. Nell’ambito delle quattro relazioni della prima settimana, che hanno affrontato i sottotemi che sono stati approfonditi nei piccoli gruppi, vi è quello dell’area dell’impegno nel portare avanti la testimonianza cristiana tra coloro che professano ‘fedi viventi’ e ideologie varie[25]. La testimonianza è una realtà reciproca, che non procede solamente dai cristiani verso gli altri, da noi a loro, ma si realizza anche in senso inverso, da loro a noi; solo la testimonianza fino alla morte, il martirio, costituisce una testimonianza a senso unico. Siamo tutti accomunati dalla ricerca del senso della vita, della realtà e della piena realizzazione; c’è l’esigenza reciproca di comprendere e di essere compresi e questo dinamismo di reciprocità richiede una maturazione continua, perché è una realtà difficile che genera anche confusione. “In questo compito siamo apprendisti incerti abbiamo bisogno di acquisire una maggiore sensibilità non solo nei riguardi delle persone di altre fedi e ideologie, ma anche nei riguardi dei cristiani che si trovano in situazioni di testimonianza e dialogo in diverse parti del mondo”[26]. A livello locale sono emersi esempi incoraggianti di dialogo con fedi diverse e ideologie, ma persistono delle questioni che richiedono un maggiore approfondimento nei prossimi anni. Alla VI Assemblea hanno partecipato anche rappresentanti di altre fedi, che hanno offerto il loro contributo, che è stato molto apprezzato, e che ha portato i cristiani a interrogarsi sulla particolare natura della loro testimonianza nella comunità mondiale, nel contesto della pluralità religiosa che rientra nel piano creatore di Dio: “[…] pur affermando il carattere assolutamente unico della nascita, vita, morte e resurrezione di Gesù – cui rendiamo testimonianza – riconosciamo l’opera creatrice di Dio nella ricerca della verità religiosa fra le persone di altre fedi”[27]. Nella Relazione è stata sottolineata la necessità di collaborare con coloro che professano altre fedi per contribuire al superamento delle sfide sociali, come la povertà, la giustizia, la pace, la dignità umana, la ricostruzione economica, l’eliminazione della fame e della malattia. Nella Relazione viene anche sottolineata la distinzione tra la testimonianza, espressione della missione evangelizzatrice della chiesa e il dialogo. La testimonianza è l’annuncio esplicito del vangelo, è l’insieme degli atti con cui un cristiano o una comunità rende testimonianza al Cristo e invita gli altri a rispondere al Cristo, senza ledere alla loro libertà, senza ricorrere a pressioni. La testimonianza – emerge dalle puntualizzazioni della Relazione – non è il proselitismo, poiché è finalizzata alla risposta positiva da parte dell’interlocutore, condividendo l’annuncio della novità cristiana, con la speranza di essere interpellati sulla comprensione e sull’obbedienza ad essa. Il dialogo, invece, si realizza con il rispetto reciproco: “’Il dialogo’ può essere definito come l’incontro nel quale persone – che hanno diverse concezioni della realtà ultima – analizzano insieme le loro concezioni in un contesto di reciproco rispetto. Dal dialogo ci aspettiamo di discernere maggiormente il modo in cui Dio opera nel nostro mondo e valutare per se stesse le concezioni e le esperienze che persone di altre fedi hanno della realtà ultima”[28]. Il dialogo è espressione della reciprocità, poiché non ha la finalità dell’annuncio cristiano, della testimonianza evangelica, ma neppure della negazione di essa; la testimonianza sulle diverse percezioni della realtà ultima è reciproca e tale testimonianza plurale viene resa dinanzi al mondo. Anche se teoreticamente, però, è facile distinguere i vari termini della questione, nella prassi, invece, essi sono intersecati: “Anche se si può distinguere fra dialogo, cooperazione e reciproca testimonianza, nelle reali esperienze di vita in una situazione religiosamente e ideologicamente pluralistica, essi in pratica si mescolano e sono strettamente collegati”[29]. Tutte le varie religioni condividono la responsabilità per un futuro comune nella reciprocità, con gli stessi diritti e doveri. Nella Relazione, in cui vengono posti in risalto anche altre problematiche che hanno bisogno di un ulteriore approfondimento, si puntualizza che la testimonianza reciproca – tra i cristiani e i seguaci di altre fedi – deve tener conto dell’influsso che le ideologie esercitano sulle credenze e pratiche religiose di un determinato contesto culturale.
Il coinvolgimento dei cristiani nel dialogo interreligioso e interideologico richiede una condivisione ecumenica sull’antropologia, l’ecclesiologia e l’annuncio cristiano, cioè, su ciò che viene considerato ‘umano’, sull’essere chiesa, sul modo in cui tali questioni influenzano la comunità cristiana. L’Assemblea di Vancouver ha ascoltato la testimonianza sulla vita religiosa dei popoli nativi, per cui è emersa la necessità di curare maggiormente il dialogo con le persone delle religioni tradizionali. Occorre, inoltre, approfondire – è stato sottolineato – anche la questione del culto e della preghiera con le persone di fedi diverse, per conoscere meglio il fenomeno dei nuovi movimenti religiosi, coinvolgendo maggiormente le donne e i giovani: “E’ importante – si rileva nella Relazione – coinvolgere le donne e i giovani in tutte queste esplorazioni della fede. Il modo in cui comprendono il loro ruolo nella comunità di fede contribuirà ad approfondire e allargare la ricerca teologica”[30]. L’esperienza del dialogo interreligioso, iniziato direttamente a Vancouver, è foriero di sviluppi postivi, per cui esso va promosso ancor più: “Siamo incoraggiati dalle idee ed esperienze acquisite nei vari incontri fra i cristiani e le persone di altre fedi viventi. Ci aspettiamo – si sottolinea nella Relazione – nuovi frutti dalla continuazione di questi incontri. Nei prossimi sette anni ci attendiamo un riflessione teologica sulla natura della testimonianza e del dialogo che incoraggerà certamente la vita della comunità cristiana nelle varie parti del mondo”[31].
Settima Assemblea del CEC
L’Assemblea sul tema ‘Vieni, Spirito Santo, rinnova l’intero creato’, si è tenuta a Canberra (Australia) dal 7 al 20 febbraio 1991. Nel Rapporto della Seconda Sezione su ‘Spirito di verità, liberaci’, riguardo al tema del dialogo tra vangelo e cultura, viene evidenziata la preoccupazione per la diffusione dell’Islam radicale: “Molti cristiani, soprattutto in Asia e in Africa, si sentono minacciati dall’islamizzazione e dall’introduzione della sharia”[32]. Nel Rapporto si sottolinea che il CEC deve farsi carico di questo problema nel suo dialogo interreligioso. Nel Rapporto della Terza Sezione su ‘Spirito di unità, riconcilia il tuo popolo’ si accenna a delle prospettive positive per un dialogo islamo-cristiano, inteso come la riconciliazione tra cristiani e musulmani: “In questo contesto si cerca il reciproco riconoscimento, il vivere insieme, la condivisione della cultura della vita e il rifiuto della cultura della morte, la promozione della libertà religiosa e del dialogo, inteso come un processo a doppio senso di marcia, come l’’incontro dell’impegno’ (encounter of commitment), finalizzato a conoscere e ad essere conosciuti. Questa ricerca della riconciliazione dovrebbe essere posta nel contesto della missione e dell’evangelizzazione”[33]. Il tema della riconciliazione apre la missione evangelizzatrice ad una dimensione nuova, che non è quella del proselitismo confessionalistico, ma della promozione degli autentici valori del Regno di Dio, quale appunto la riconciliazione, la pace e la giustizia. Nel Rapporto, però, non vengono ignorati i gravi problemi dei cristiani in Africa, che subiscono discriminazioni a causa del potere politico ed economico dell’Islam; a tali cristiani bisogna manifestare solidarietà in modo concreto: “Vivendo e testimoniando – si evidenzia nel Rapporto – in una situazione di sofferenza, questi cristiani hanno bisogno del sostegno concreto di tutta la chiesa, il CEC dovrebbe assicurare che questo sostegno venga effettivamente dato”[34].
Durante la VII Assemblea del CEC, analizzando il lavoro del CEC in rapporto al passato e aprendo delle prospettive per il futuro, il Segretario generale Emilio Castro, ha approfondito anche la problematica della pluralità religiosa, sviluppando una prospettiva di dialogo che scaturisce da una teologia delle religioni[35]. La coesistenza interreligiosa fa parte della vita quotidiana dei cristiani, che diventa problematica a causa dei condizionamenti del passato. E. Castro cita, ad esempio, la guerra del golfo Persico, che viene intesa erroneamente come una guerra di religione, nonostante venga da più parti ribadito che essa non nasce da motivazioni religiose. I cristiani in Africa, come già rilevato, vivono un rapporto molto difficile con l’Islam; nonostante ciò il Segretario generale del CEC auspica che ci possa essere un rapporto, non solo di convivenza pacifica interreligiosa, ma anche di collaborazione per contribuire al superamento dei problemi sociali, evidenziando pure la questione se la tolleranza fra le religioni sia patrimonio solo della cultura secolare oppure per le chiese non sia un segno dell’azione dello Spirito. “Ma il nuovo tipo di pluralismo, che vediamo svilupparsi un po’ ovunque nel mondo – a causa delle migrazioni – può costituire un passaggio, un cammino verso il domani, un’apertura a stili di convivenza o di vita fianco a fianco, capaci di condurci oltre i conflitti, oltre la coesistenza, a una vita – sottolinea E. Castro – disponibile agli altri? Vorremmo vedere in questo nuovo pluralismo un segno di speranza, ma dobbiamo porre la domanda: è solo la visione secolare del mondo che può affermare la tolleranza e la collaborazione tra le diverse tradizioni religiose? Siamo andati lontano nel dialogo con i nostri amici, seguaci di altre convinzioni religiose, ma oggi – nell’ottica dello Spirito Santo – non potremmo discernere i segni della sua azione nell’esperienza religiosa di altri credenti? Molti di voi ricorderanno che a Vancouver questo tema è stato motivo di divisioni”[36]. Il Segretario generale del CEC rileva anche la necessità di una riflessione teologica sulla pluralità religiosa, tenendo conto delle varie situazioni locali e nazionali, come pure dei problemi che vivono i cristiani in situazioni di conflitto. “Nelle loro specifiche situazioni, chiese e cristiani hanno bisogno di una prospettiva teologica – che potrebbe essere elaborata entro una riflessione ecumenica in prospettiva trinitaria -, per formulare il riconoscimento del valore, del ruolo e della vocazione di altre religioni nel piano della divina Provvidenza e al tempo stesso – in questo riconoscimento – integrare la nostra testimonianza a Gesù Cristo, parola di Dio fatta carne”[37]. Bisogna, però, fare i conti con il condizionamento del passato, come la conquista dell’Africa del Nord e la sua conversione all’islam, le crociate, la colonizzazione occidentale e il proselitismo cristiano, ma nonostante tutto bisogna credere che lo Spirito opera nella storia, per cui occorre andare incontro agli altri, “desiderosi di scoprire manifestazioni diverse dello Spirito e percezioni di verità – che ci aiutino a crescere nella nostra fede – e nell’impegno alla testimonianza a Dio in Gesù Cristo, portando il nostro contributo specifico al patrimonio spirituale dell’umanità”[38]. E. Castro esorta ad essere delle comunità in cammino verso orizzonti comuni, ponendosi in ascolto dello Spirito, che aiuta a superare le difficoltà che derivano dal fatto che le diversità culturali e religiose e il loro rapporto con il potere suscitano tensioni e polemiche. Bisogna prendere atto del fatto che si vive in una situazione di interdipendenza e solo l’azione dello Spirito consente di superare gli inevitabili cedimenti al paternalismo e all’imperialismo religioso: “Invochiamo lo Spirito – sottolinea Emilio Castro – , preghiamo affinché ci renda disponibili, fiduciosi, disposti a correre dei rischi, a condividere, ad amare”[39].
Ottava Assemblea del CEC
L’Assemblea sul tema ‘Volgiamoci a Dio. Esultiamo nella speranza’, si è tenuta ad Harare (Zinbawe) dall’8 al 13 dicembre 1998; in essa è stata ravvisata la criticità di un ripiegameno identitario[40]. All’interno della quinta Sezione sulle ‘Azioni su tematiche odierne di interesse globale’, è stata evidenziata la necessità della cooperazione interreligiosa nel campo dei diritti umani, sviluppando, quindi, una prospettiva operativa per il dialogo interreligioso, senza cedimenti al relativismo oppure alle omologazioni, con la perdita della specifica identità cristiana. “Occorre un comune impegno interreligioso per scoprire valori e tradizioni spirituali condivisi o complementari che trascendono i confini religiosi e culturali nell’interesse della giustizia e della pace nella società. Salutiamo con gioia – è stato rilevato – il progresso fatto dal CEC nel perseguimento di questo obiettivo attraverso il dialogo interreligioso, in un modo che rispetta la specificità della testimonianza cristiana nel campo dei diritti umani e incoraggia le chiese, ciascuna nel suo ambiente, a continuare e approfondire il dialogo e la cooperazione interreligiosa nel campo della promozione e protezione dei diritti umani”[41]. E’ stato denunciato anche il pericolo che spesso le religioni vengono strumentalizzate dalle autorità statali e civili per i loro obiettivi nazionalistici e razziali. E’ in crescita l’influenza religiosa sui processi sociopolitici, che spesso si rivela una realtà dialettica: “Molte chiese partecipano attivamente a iniziative di pacificazione e ad appelli a favore della giustizia, introducendo una componente morale nella politica. Ma la religione è diventata anche un’importante fonte di repressione e di violazioni dei diritti umani, sia all’interno degli stati che fra di essi. I simboli e i linguaggi religiosi sono stati manipolati e posti al servizio di gretti interessi e obiettivi nazionalistici e settari, causando divisioni e conflitti in seno alle società”[42]. Le autorità civili chiedono alla religione di sostenere le loro leggi discriminatorie che portano all’intolleranza religiosa; le chiese, invece, sono chiamate a testimoniare l’universalità del vangelo e a promuovere la tolleranza, la giustizia, la pace e la riconciliazione nella società. La libertà religiosa è un diritto umano fondamentale, cioè “la libertà di professare o adottare liberamente una religione o una credenza e la libertà di manifestare, sia individualmente che insieme ad altri, sia in pubblico che in privato, la propria religione o credenza nel culto, nella condotta, nella pratica e nell’insegnamento”[43]. Questo diritto vale per tutte le religioni, non va inteso come un privilegio della chiesa, poiché bisogna rispettare anche le altre fedi e i diritti fondamentali altrui. La chiesa rivendica il suo diritto fondamentale per poter assolvere il suo dovere fondamentale di servire tutta la comunità. “Perciò, la libertà religiosa deve comprendere anche il diritto e il dovere delle chiese e degli organismi religiosi di criticare e opporsi alle autorità civili quando lo esigono le loro convinzioni religiose”[44]. L’intolleranza e la persecuzione religiosa sono piuttosto diffuse, violando i diritti umani e causando conflitti e gravi sofferenze umane; le chiese devono pregare per cristiani e anche per le altre vittime della persecuzione religiosa e dimostrarsi solidali nei loro riguardi, vivendo la comunione ecumenica e rifiutando ogni forma di proselitismo: “Non può esservi alcuna deroga al diritto fondamentale dell’uomo alla libertà religiosa, ma la religione non può essere considerata un ‘bene’ (commodity) da gestire secondo le regole di un’illimitata libertà di mercato”[45].
Nona Assemblea del CEC
L’Assemblea ha avuto come tema ‘Dio nella tua grazia trasforma il mondo’ e si è svolta a Porto Alegre (Brasile) dal 14 al 23 febbraio 2006. Porto Alegre ha manifestato una svolta nella teologia del dialogo, come espressione dell’ecclesiologia comunionale assunta dal CEC; infatti è stata la “prima assemblea del CEC nella quale si è ricorsi alla procedura della decisione per consenso […]. Le decisioni vengono prese ricercando una mens comune, senza giungere al voto formale, attraverso un processo di dialogo e di apporto di tutte le componenti”[46]. Il tema del dialogo interreligioso è stato ricorrente, segno del fatto che le chiese avvertono la necessità di aprirsi al confronto rispettoso con le altre fedi. Il Presidente Aram I, Catholicos di Cilicia, nel suo Rapporto si è soffermato su tre tematiche, tra cui quella del dialogo interreligioso. Egli ha approfondito il tema dell’autocomprensione della chiesa nella società pluralista, nel senso che la pluralità religiosa costituisce il contesto per definire l’identità della chiesa: “Le nostre teologie, le nostre tradizioni, i nostri valori e le nostre abitudini siano fortemente influenzate dall’ambiente pluralista che ci circonda. La chiesa è chiamata a ridefinire la propria identità e la propria vocazione missionaria nell’ambito della pluralità religiosa. La chiesa ha sempre vissuto un dialogo col suo ambiente. La globalizzazione ha reso questo dialogo ancor più esistenziale e ne ha fatto parte integrante della vita quotidiana delle chiese. Il dialogo e l’impegno – ha sottolineato il Presidente – a vivere le nostre diversità come un’unica umanità, in modo significativo e coerente in un unico mondo”[47]. L’autocomprensione dei cristiani nel contesto della pluralità religiosa riveste un’importanza cruciale. Di tale pluralità, però, bisogna superare sia una visione meramente fenomenologica, sia l’autocomprensione esclusivista, monolitica e autodiretta per affermare, invece, una nuova concezione dialogica che comporti anche una rilettura della missione ecclesiale. Le religioni possono avere un ruolo centrale nella promozione della pace; il dialogo e la collaborazione interreligiosa possono contribuire a creare la comunità. Il dialogo interreligioso interpella insistentemente le chiese; per fare ciò non devono rinunciare alla loro fede, ma il dialogo si declina sempre con il rispetto dell’altro, la comprensione sincera dei valori comuni e delle differenze. Tutto ciò rende possibile la collaborazione per rispondere ai gravi problemi della società: “Nel dialogo interreligioso non possiamo accettare compromessi riguardo a ciò che rivendichiamo come verità. Ma l’affermazione della nostra fede in Cristo – sottolinea Aram I – non deve precludere l’impegno nel dialogo e nella collaborazione con le altre religioni. La specificità e l’integrità di ogni religione deve essere rispettata nel dialogo. Per far sì che il nostro dialogo sia credibile e per fornirgli basi solide, dobbiamo approfondire i nostri valori comuni e accettare le nostre differenze. Mentre è percepito con sempre più acuta urgenza il bisogno che le religioni si esprimano insieme, a partire da valori comuni, su problemi che le riguardano tutte, l’ambiguità del ruolo delle religioni nella società e il cattivo uso che se ne fa non cessano di crescere. Le Chiese si trovano prese in questo dilemma. Tale situazione ambivalente rende il dialogo interreligioso un’esigenza ancora più stringente. Le Chiese e il movimento ecumenico devono affrontarlo con la massima serietà”. Il Segretario generale Samuel Kobia nella sua Relazione anche ha evidenziato la necessità dell’impegno nel dialogo interreligioso che consente di superare l’antisemitismo, l’islamofobia, la xenofobia: “Noi viviamo in un mondo molto vario, con differenze di tipo etnico, razziale, linguistico, culturale e religioso; le migrazioni delle persone hanno fatto sì che quasi tutte le nostre società siano diventate multiculturali; e tuttavia la nostra capacità di relazionarci all’altro é tristemente molto limitata. Ci scagliamo violentemente – ha affermato il Segretario generale – contro chi è diverso da noi e lo accusiamo, troppo spesso abbiamo paura dei nuovi arrivati, e tracciamo confini offensivi fra noi e gli altri. Il razzismo continua ad alzare la sua testa odiosa, la xenofobia e l’islamofobia si diffondono sempre di più, e l’antisemitismo è risorto là dove si pensava fosse scomparso da anni. E tuttavia, le cose che abbiamo in comune sono molto più profonde di quelle che ci dividono: siamo tutti capaci di amore, tutti rispettiamo le nostre famiglie, tutti dipendiamo dall’ambiente, tutti abbiamo l’interesse personale di rendere questo pianeta un luogo amorevole e ospitale”. Samuel Kobia ha accennato al fatto che secondo alcuni il dialogo interreligioso è parte integrante di quello ecumenico; senza assumere una visione così radicale, tuttavia, il Segretario generale ha posto in risalto che per affrontare i problemi mondiali bisogna confrontarsi sempre più con l’approccio delle altre fedi, perché la società è di fatto multiculturale: “Inoltre, c’è qualche tensione anche a proposito delle relazioni interreligiose; molti si chiedono se esse siano parte integrante della ricerca ecumenica dell’unità fra i cristiani. Tutti noi riconosciamo che viviamo in un mondo multireligioso, e abbiamo bisogno di imparare di più su come relazionarci a persone di altre fedi, soprattutto a livello comunitario. Oltre a questo, nell’occuparci di un’ampia gamma di questioni globali e non solo dei conflitti fra popoli di diverse religioni e dobbiamo imparare come relazionarci coi fedeli di altre religioni, apprendere cosa essi credono del mondo e come lo vedono, e imparare ad agire congiuntamente per il bene delle nostre comunità e del mondo intero. Sempre più si riconosce che la religione riveste un ruolo primario negli affari internazionali, e noi abbiamo bisogno di costruire relazioni a tutti i livelli con comunità di altre fedi. Questo ha affermato la Conferenza sul momento critico del dialogo religioso organizzata dal CEC lo scorso giugno. L’incontro ha riunito partecipanti provenienti da tutte le più importanti religioni del pianeta. Una delle principali raccomandazioni della conferenza è stata richiamare il CEC a mettere in atto meccanismi che conducano i leader religiosi ad affrontare insieme i problemi che oggi si pongono davanti alla comunità umana. Nel futuro bisognerebbe dare priorità alla questione delle relazioni interreligiose e noi speriamo che questa assemblea ci suggerisca dei modi migliori per raggiungere questo obiettivo”. Nel Rapporto del Comitato per le politiche generali è stato evidenziato che la collaborazione interreligiosa consente di contribuire a realizzare la pace nella società fondata sul rispetto dei diritti umani: “Il CEC si è impegnato a intraprendere un dialogo con partners di altre fedi, volto a costruire fiducia, a formulare valori comuni, a promuovere la comprensione reciproca, ad affrontare le sfide comuni e a risolvere le questioni che sono causa di conflitto e di divisione. Il dialogo interreligioso è ora più che mai un’espressione dell’identità essenziale del Consiglio, un’identità che s’impegna nel mondo, appiana le tensioni, costruisce la pace, protegge la dignità umana e i diritti delle minoranze religiose. Il Comitato per le politiche generali apprezza la forte riaffermazione di questo lavoro del Consiglio contenuta nei rapporti del presidente e del segretario generale e concorda sul fatto che la creazione e l’approfondimento di relazioni costruttive, rispettose, consapevoli e deliberate con altri in questo mondo pluralistico rappresenta una delle iniziative più importanti cui il CEC può dar forma per i suoi partner ecumenici e per le Chiese membri ai livelli internazionale e di base”[48]. Nel Rapporto del Comitato delle linee programmatiche si pone in risalto la necessità del confronto interreligioso: “L’assemblea ha fortemente sottolineato – si rileva nel Rapporto – l’urgente necessità che le Chiese e il CEC si impegnino nella cooperazione e nel dialogo interreligiosi. Nel suo futuro impegno con altre religioni è importante che il CEC continui il suo lavoro nel contesto del pluralismo religioso e lo sviluppi ulteriormente, e non si limiti al dialogo e all’azione comune sui temi politici, sociali, teologici o etici”[49]. Nel Documento ecclesiologico ‘Chiamati a essere l’unica chiesa’ si puntualizza che la cura per tutto il creato passa attraverso la cooperazione con le altre religioni: “La missione è parte integrante della vita della Chiesa. Nella sua missione, la Chiesa esprime la sua vocazione di proclamare il Vangelo e offrire il Cristo vivente a tutto il creato. Le Chiese vivono accanto a persone di altre fedi viventi e ideologie. Come strumento di Dio, che è Signore di tutto il creato, la Chiesa è chiamata a impegnarsi nel dialogo e nella collaborazione con loro, affinché la sua missione realizzi il bene di ogni creatura e la prosperità della terra. Tutte le Chiese sono chiamate a lottare contro il peccato in tutte le sue manifestazioni, al loro interno e attorno a esse, e a collaborare con altri per combattere l’ingiustizia, alleviare la sofferenza umana, sconfiggere la violenza e assicurare la pienezza di vita a tutti”.
Convocazione internazionale del CEC sulla pace
La Convocazione ecumenica[50] sul tema ‘Gloria a Dio e pace sulla terra’ si è svolta a Kingston (Giamaica) dal 17 al 25 maggio 2011[51], a cui hanno partecipato anche rappresentanti di varie religioni, arricchito pure da momenti di creatività artistica e da eventi culturali. Dagli interventi è emerso che quello della pace è un valore condiviso dalle chiese e dalle varie religioni, ma le prospettive per realizzare la pace giusta sono variegate[52]. Nell’Appello ecumenico, accolto dal Comitato centrale del CEC, si evidenzia che tra le varie cause della violenza vi è pure l’ostilità etnica e religiosa, per cui l’impegno per la pace passa attraverso la collaborazione interreligiosa: “Camminiamo come una comunità che condivide un’etica e una pratica della pace comprendente il perdono e l’amore dei nemici, la non violenza attiva e il rispetto degli altri, la dolcezza e la misericordia. Cerchiamo di spendere la nostra vita nella solidarietà con gli altri e per il bene comune. Perseguiamo la pace nella preghiera, chiedendo a Dio il discernimento nel cammino e i doni dello Spirito lungo la via. Nelle comunità di fede che amano e camminano insieme vi sono molte mani per liberare dai loro fardelli le persone affaticate. Uno può testimoniare la speranza davanti a una situazione disperata; un altro un amore generoso per le persone bisognose. Le persone che hanno molto sofferto trovano il coraggio di continuare a vivere nonostante le tragedie e le perdite subite. La forza del Vangelo permette loro di liberarsi anche dei fardelli inimmaginabili del peccato personale e collettivo, della collera, dell’amarezza e dell’odio, che sono il retaggio della violenza e della guerra. Il perdono non cancella il passato; ma, guardando indietro, possiamo vedere che i ricordi sono guariti, i pesi deposti e i traumi condivisi con gli altri e con Dio. Siamo in grado di proseguire il cammino”[53]. La vocazione delle chiese e delle comunità religiose è quella di accompagnare le vittime della violenza e prendere le loro difese. Il cammino per la pace, condiviso sempre più anche da varie religioni, si coniuga con la cura del creato, la riconciliazione, la generosità, la condivisione della fragilità: “Lavorano per il superamento delle divisioni di razza e religione, nazione e classe; imparano a condividere la vita delle persone povere e sfruttate; o accettano di esercitare il difficile ministero della riconciliazione. Molti scoprono che non si può promuovere la pace senza prendersi cura del creato e amare e proteggere la meravigliosa opera delle mani di Dio. Condividendo la strada con i nostri vicini, impariamo a passare dalla difesa di ciò che è nostro a uno stile di vita generoso, aperto. Scopriamo i nostri piedi di operatori di pace. Scopriamo persone di diverse professioni e condizioni sociali. Acquistiamo forza lavorando con loro, perché riconosciamo la nostra reciproca vulnerabilità e affermiamo la nostra comune umanità. L’altro non è più un estraneo o un avversario, ma un nostro simile, con il quale condividiamo la strada e il cammino”[54]. Il cammino per la pace si declina con la cultura della pace, l’educazione alla pace, come non violenza attiva, che si fonda sulla formazione delle coscienze, a cui tutti – sia uomini che donne, sia giovani che anziani – possono dare un grande contributo, ma particolare è quello dei capi religiosi, che a volte, per scopi egoistici fondati su particolari modelli culturali e religiosi, hanno favorito l’oppressione e la violenza: “Ci preoccupa – è stato sottolineato – in modo particolare il linguaggio e insegnamento aggressivo che viene diffuso sotto la ma-schera della religione e amplificato dal potere dei media”[55]. La promozione della giustizia, del rispetto dei diritti umani, richiede una capillare e sistematica opera di formazione, sia nelle scuole che nelle comunità di fede che si traduca in uno stile di vita feriale: “Una cultura di pace richiede che le Chiese e altri gruppi di fede e vita comunitaria sfidino la violenza ovunque compare: questo riguarda la violenza strutturale e abituale, nonché la violenza che permea i media di intrattenimento, i giochi e la musica. Si realizzano culture di pace quando tutti, specialmente donne e bambini, sono al riparo dalla violenza sessuale e dai conflitti armati, quando le armi letali sono bandite e allontanate dalle comunità, quando si affronta e si blocca la violenza domestica”[56]. C’è bisogno di un’opera di prevenzione dei conflitti e delle stragi, bloccando la proliferazione delle armi leggere e delle armi da guerra: “Le Chiese devono promuovere la fiducia, collaborare con le altre comunità di fede e persone con visioni del mondo diverse per ridurre la capacità di una nazione di fare la guerra”[57].
Nel Messaggio finale si fa riferimento alla dimensione interreligiosa della convocazione del CEC: ”Noi, circa mille partecipanti da più di cento nazioni, convocati dal CEC, abbiamo condiviso l’esperienza della Convocazione ecumenica internazionale sulla pace (IEPC), incontro di Chiese cristiane e di credenti di altre religioni impegnati a costruire pace nella comunità, pace con la Terra, pace nel mercato e pace tra i popoli”[58]. Anche se gli approcci sono diversi, viene ribadito che la pace è un valore condiviso da tutte le religioni, per cui l’impegno concreto deve essere interreligioso, poiché si può lanciare un messaggio a tutta l’umanità con una sola voce: “Con partner di altre fedi abbiamo riconosciuto che la pace è un valore fondamentale in tutte le religioni,e che la promessa della pace si estende a tutti e tutte senza distinzione di tradizione e di appartenenze. Intensificando il dialogo interreligioso cerchiamo una base comune con tutte le religioni del mondo. Ci unisce un desiderio comune: che la guerra diventi illegale. Lottando per la pace sulla Terra ci confrontiamo con i nostri diversi contesti e con le nostre diverse storie. Constatiamo che differenti Chiese e religioni portano differenti prospettive sul cammino che conduce verso la pace. […]. Anche nelle nostre diversità possiamo parlare con una sola voce”[59].
Decima Assemblea generale del CEC
L’assemblea ha avuto come tema ’Dio della vita guidaci verso la giustizia e la pace’ e si è svolta a Busan (Corea del Sud) dal 30 0ttobre all’8 novembre 2013. La decima Assemblea è stata caratterizzata da una decisa concretezza[60]: “Non ci si è limitati a una riflessione teorica, perché i concetti di pace e giustizia, interconnessi e mai separati tra loro, vengono declinati concretamente a livello della comunità civile, dell’ambiente, del mercato, del rapporto tra le nazioni e dell’uso delle armi”[61]. La prospettiva di fondo, anche contenutistica, è quella della Convocazione internazionale – già esaminata – che ha analizzato in modo più articolato le varie tematiche. Anche nella decima Assemblea si rileva che la pace giusta non si può realizzare se non si incide sulle varie forme di discriminazione e violenza (etniche, di genere, di casta, la violenza domestica), tra cui anche quella a carattere religioso. Nella Dichiarazione verso la pace giusta è stato sottolineato che la pace giusta richiede l’azione unitaria anche a carattere interreligioso: “Là dove i gruppi religiosi vivono separati dalla società, noi dobbiamo unirci con le altre fedi per insegnare e sostenere la tolleranza, la non violenza, il rispetto reciproco; così come i leader cristiani e musulmani in Nigeria stanno facendo con il sostegno del movimento ecumenico”[62]. Nella Dichiarazione sull’unità è stato evidenziato che bisogna apprezzare il contributo delle altre religioni: “Sempre di più riconosciamo che siamo chiamati a condividere con, e a imparare da, persone di altre fedi, a lavorare con loro negli sforzi comuni per la giustizia e la pace e per preservare l’integrità della creazione di Dio bella, ma sofferente. Queste relazioni più profonde creano nuove sfide e allargano i nostri orizzonti”[63]. Il benessere dell’umanità e della creazione richiede l’azione unitaria con le altre religioni: “I cristiani sono chiamati a fare causa comune con i popoli di altre fedi, o privi di fede, nella misura del possibile, per il benessere di tutti i popoli e della creazione”[64].
Conclusione
Dalle Assemblee generali del CEC la tematica interreligiosa si è affermata sempre più. Senza tacere sulle difficoltà e sulle gravi criticità, le Assemblee del CEC hanno rivelato la maturazione di una prospettiva molto positiva di teologia del dialogo che si coniuga con l’aspetto interreligioso e interculturale, con degli stimoli molto fecondi che richiedono ulteriori sviluppi, e che si traducono nella prassi della solidarietà e della collaborazione, per la costruzione di una società basata sulla pace nella giustizia. Il CEC è partito innanzitutto dal confronto con l’ebraismo, poi con l’islam e progressivamente è stata sviluppata la prospettiva decisamente interculturale e interreligiosa. Dobbiamo rilevare che è venuta mancare in seguito il confronto specifico con l’ebraismo e con le singole varie religioni, anche se nelle recenti assemblee non mancano riferimenti all’islam. La teologia del dialogo interreligioso del CEC è finalizzata alla collaborazione per la realizzazione della pace giusta per tutta l’umanità.
APPENDICE
Rappresentanti del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, presidente il card. J.-L. Tauran, del CEC, il segretario generale O. F. Tveit e dell’Alleanza evangelicale mondiale, G. Tunnicliffe, il 28 giugno 2011 a Ginevra, hanno presentato il Documento circa il comportamento delle chiese nel professare la loro fede in contesti multireligiosi. L’iniziativa è partita dal CEC e dal Dicastero del Vaticano, mentre gli evangelicali sono stati invitati dal CEC. I lavori sono durati cinque anni per raggiungere un accordo sulle questioni pratiche connesse alla missione in un contesto pluralistico. Come illustrato da un’appendice del Documento, esso nasce da una consolidata collaborazione tra il CEC e il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, come ad esempio sul tema del matrimonio interreligioso(1994-1997), la preghiera interreligiosa (1997-1998) e la religiosità africana (2000-2004). Il presente Documento è il risultato del loro lavoro congiunto per contribuire al superamento delle tensioni interreligiose, caratterizzate dalla violenza e dalla perdita di vite umane: “Politica, economia e altri fattori giocano un ruolo in queste tensioni . Talvolta anche i cristiani sono coinvolti in tali conflitti, volontariamente o involontariamente, come perseguitati o protagonisti della violenza. In risposta a questo stato di cose, i due organismi hanno deciso di affrontare i problemi che si pongono in un processo congiunto verso la produzione di raccomandazioni condivise sulla condotta nella testimonianza cristiana”[65]. Inizialmente si tennero due Consultazioni nel maggio 2006, di cui la prima a Lariano in Italia, sul tema ‘Valutazione della realtà’, durante le quali rappresentanti di diverse religioni si scambiarono punti di vista ed esperienze sul problema della conversione. In una dichiarazione della Consultazione si attesta: “Affermiamo che, sebbene tutti abbiano il diritto di invitare altri a comprendere la propria fede, tale diritto non deve essere esercitato violando i diritti e la sensibilità religiosa altrui. La libertà di religione impone a noi tutti la responsabilità egualmente non negoziabile di rispettare le fedi diverse dalla nostra e mai denigrarle, diffamarle o metterle in una luce falsa allo scopo di affermare la superiorità della nostra fede”[66]. La seconda Consultazione fu a carattere ecumenico e si tenne a Tolosa (Francia) nell’ agosto 2007, per continuare la riflessione sulle medesime tematiche della prima, ma anche con un approccio teologico. Vennero esaminate pure questioni pastorali, come quelle riguardanti la famiglia e la comunità, il rispetto per gli altri, l’economia, il marketing e la concorrenza, la violenza e la politica. La terza Consultazione (anche a carattere ecumenico) si è tenuta a Bangkok (Thailandia) dal 25 al 28 gennaio 2011, che ha portato a definire il presente documento, che affronta questioni pratiche, non teologiche, per delineare lo stile e i contenuti della testimonianza cristiana in un mondo multireligioso, contrassegnato anche da tensioni e conflitti. Il testo, che nasce quindi da un’ampia consultazione, anche interreligiosa, è stato inviato alle chiese con la raccomandazione che vengano approntate da parte loro delle linee guida in base al principio teologico del dialogo, sia ecumenico che interreligioso: “La testimonianza cristiana in un mondo pluralistico implica l’impegno al dialogo con religioni e culture differenti (cf. At 17,22-28)”[67]. I cristiani devono servire gli altri con umiltà, generosi, senza scopi proselitistici, per promuovere la giustizia, la difesa dei diritti umani, l’istruzione e la sanità: “[…] i cristiani devono denunciare e devono astenersi dal praticare qualsiasi forma di condizionamento, compresi incentivi economici e ricompense”[68]. Anche nel ministero della guarigione i cristiani devono mettere in atto il discernimento, senza sfruttare la vulnerabilità e la necessità di guarigione delle persone di altre religioni. La testimonianza cristiana è inconciliabile con la violenza psicologica sociale e fisica: “I cristiani sono chiamati a rifiutare ogni forma di violenza, anche psicologica e sociale, compreso l’abuso di potere nella loro testimonianza. Essi inoltre rifiutano la violenza, l’ingiusta discriminazione o repressione da parte di qualsiasi autorità religiosa o secolare, inclusa la violazione o la distruzione di luoghi di culto, simboli o testi sacri”[69].
Nel Documento si evidenzia ripetutamente che i cristiani devono promuovere la pace, la giustizia, il bene comune, la solidarietà, rispettando la libertà religiosa, il diritto di professare pubblicamente, praticare, diffondere e cambiare la propria religione, denunciando le persecuzioni religiose, la strumentalizzazione della religione per fini politici e mettendo in atto la cooperazione interreligiosa. Nel Documento si pone in risalto con efficacia l’importanza del rispetto nei confronti delle altre religioni e culture che costituiscono sempre una fonte di arricchimento umano e spirituale, anche quando è necessario mettere in discussione alcuni aspetti delle culture: “I cristiani devono parlare sinceramente e con rispetto; devono ascoltare, per apprendere e comprendere le fedi e le pratiche altrui, e sono esortati a riconoscere e ad apprezzare ciò che di vero e buono vi è in esse. Ogni commento o approccio critico deve essere espresso in uno spirito di rispetto, e non si deve testimoniare il falso riguardo ad altre religioni”[70]. Il Documento si conclude con delle Raccomandazioni, tra cui quella di costruire “rapporti di rispetto e fiducia con persone di tutte le religioni, in particolare ai livelli istituzionali tra le Chiese e altre comunità religiose, impegnandosi in un dialogo interreligioso costante nell’ambito del proprio impegno cristiano. In alcuni contesti, in cui anni di tensione e conflitto hanno creato profonde diffidenze e sfiducia tra le comunità, il dialogo interreligioso può fornire nuove opportunità di risoluzione dei conflitti, ristabilimento della giustizia, purificazione della memoria, riconciliazione e costruzione della pace”[71]. Il dialogo non deve far vacillare la propria fede, che, invece, si rafforza nel confronto interreligioso, nella conoscenza e comprensione delle altre religioni, tenendo conto anche dei punti di vista dei seguaci di tali religioni, evitando di rappresentare in maniera distorta la loro le fede e le loro pratiche, promuovendo la cooperazione interreligiosa per realizzare la giustizia e il bene comune, nella solidarietà con le persone che si trovano in situazioni di conflitto. Nel Documento si raccomanda, inoltre, di sollecitare “i propri governi per assicurare che la libertà religiosa sia correttamente e completamente rispettata, riconoscendo che in numerosi paesi alle istituzioni religiose e agli individui è preclusa la possibilità di svolgere la propria missione”[72].
Il CEC e il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso hanno proseguito la loro collaborazione e il 21 maggio 2019 hanno pubblicato il Documento dal titolo ‘Educazione alla pace in un mondo multireligioso. Una prospettiva cristiana’[73]. Si tratta di un Sussidio per far risaltare il ruolo fondamentale che l’educazione svolge nella promozione di una cultura di pace e per incoraggiare le Chiese e le organizzazioni cristiane a portare avanti una riflessione sulle radici strutturali di ciò che minaccia la pace nel mondo, attraverso il confronto anche con i seguaci delle varie religioni, in vista della collaborazione nel processo per la pace. I fattori che generano conflitti e violenza – si sottolinea nel Documento – sono molteplici (il malgoverno, la corruzione, l’ascesa del settarismo, il secolarismo militante, il nazionalismo esclusivo e i movimenti populisti, la supremazia regionale e le disuguaglianze economiche a livello globale), ma spesso – in modo strumentale – la religione viene associata a tali conflitti: “In numerose aree del nostro pianeta, la religione viene manipolata e usata in modo improprio per giustificare conflitti, aggressioni e l’uccisione deliberata di esseri umani. Tuttavia l’obiettivo essenziale della vera religione è quello di promuovere la pace: la religione autentica, quindi, non è parte del problema, bensì parte della soluzione”[74]. Nel Documento viene denunciato il fatto – definito un vero e proprio abuso – che a volte le religioni sono incentrate solo su determinate pratiche, non mettono in risalto l’importanza dell’opera educativa, senza discriminazioni di genere: “Un abuso altrettanto grave deriva anche da quelle tipologie di educazione in cui il programma di studi di un ragazzo o di una ragazza viene limitato, per motivi religiosi, a causa del suo sesso. Per contro, tuttavia, possono emergere contesti in cui, nell’educazione, viene lasciato poco spazio ai valori morali e umani, ed è in queste situazioni che la voce delle comunità religiose assume un ruolo fondamentale”[75]. Le famiglie, i cui membri provengono da diversi retroterra religiosi, etnici, geografici, culturali, si trovano ad affrontare notevoli problematiche, ma se vengono risolte diventano occasioni di opportunità uniche. I capi religiosi devono promuovere una cultura come apprendimento che dura per tutta la vita, come processo inclusivo, senza differenze di genere. Anche il dialogo interreligioso deve assumere questa prospettiva: “A tale proposito, è essenziale riconoscere l’importanza del dialogo di vita negli incontri interreligiosi, dialogo che offre nuove possibilità di apprendimento reciproco e inclusivo”[76]. L’educazione deve favorire una conoscenza positiva delle altre religioni, come pure dei membri di un particolare gruppo etnico, allo scopo di non alimentare pregiudizi: “Questo pregiudizio nei confronti delle minoranze, infatti, potrebbe influire negativamente non solo sul programma di educazione religiosa, ma anche su quelli di altre materie, quali ad esempio storia e letteratura. Esso potrebbe far percepire i membri dell’«altra» comunità come cittadini di una nazione non completamente integrati o di seconda categoria, oppure dare l’impressione che non abbiano contribuito alla costruzione di quella nazione”[77]. La conoscenza delle diverse religioni, come pure della tradizione di appartenenza, deve costituire una parte integrante dei programmi educativi, e i libri di testo delle varie discipline devono avere il placet dei vari rappresentanti religiosi: “È fondamentale anche, al fine di evitare lo stravolgimento od occultamento di parti importanti, che i libri di testo utilizzati per insegnare la fede e la storia delle comunità religiose minoritarie siano scritti, o quantomeno verificati, dai rappresentanti delle comunità interessate. Inoltre i membri di tutte le comunità religiose devono ricevere una formazione solida per quanto riguarda la propria tradizione religiosa, oltre a informazioni affidabili sugli «altri», come base di partenza per il dialogo. Infine, l’insegnamento della tradizione religiosa di appartenenza deve avvenire in modo tale da non incoraggiare l’arroganza”[78]. L’educazione alla pace – viene evidenziato nel Documento – si realizza attraverso lo studio delle Scritture della propria fede, promuovendo una riflessione critica sui testi più ostici, nel rispetto dei diversi criteri interpretativi delle varie religioni. Questo procedimento offre efficaci opportunità al dialogo interreligioso: “Uno dei contesti in cui ha luogo questo apprendimento condiviso è rappresentato dallo ‘scriptural reasoning’, un metodo di recente concezione che promuove la conoscenza delle religioni attraverso la lettura dei testi sacri”[79]. La liturgia e la spiritualità anche sono importanti per il processo di educazione alla pace, poiché hanno una funzione didattica e trasformativa, che favorisce il superamento dei conflitti e la riconciliazione: “Alcuni passaggi delle prediche e preghiere possono favorire la costruzione della pace oppure generare sentimenti di ostilità e tensione”[80]. Il processo educativo deve veicolare la dimensione globale della pace, in quanto investe il rapporto con Dio, con gli altri, con la casa comune e le varie comunità religiose hanno la responsabilità di trasmettere tali valori[81].
Il Documento si conclude con delle Raccomandazioni, tra cui quella di “studiare il documento e riflettere su quali metodi di educazione alla pace potrebbero rivelarsi efficaci e pertinenti al proprio contesto, quali possono essere implementati a livello ecumenico o, dove possibile, a livello interreligioso, tenendo conto dei fattori etnici, religiosi, culturali e intergenerazionali”[82]. Nel Documento si raccomanda ancora di identificare potenziali partner, anche di altre comunità religiose, con cui poter sviluppare strumenti educativi creativi e incentrati sull’allievo. Occorre, inoltre, superare le interpretazioni contrastanti riguardo ai concetti di missione, conversione, proselitismo che creano ostacoli al dialogo interreligioso, per “analizzare e affrontare i fattori strutturali passati e presenti che hanno contribuito e contribuiscono tuttora a generare violenza, all’interno di singole società o tra popoli diversi, e sviluppare un approccio integrato all’educazione alla pace, che tenga in considerazione il modo in cui le questioni relative a religione, economia, politica, sesso, cultura ed ecologia tendono a spargere semi di violenza e conflitto”[83]. Nel Documento si raccomanda pure di confrontarsi con la testimonianza di pace dei personaggi di varie religioni: “Ricordare la storia di persone straordinarie che lottano, a livello ecumenico e interreligioso, contro problemi legati a giustizia, pace e benessere ecologico. È importante apprendere in che modo queste persone riescano a condividere una visione etica comune in materia di pace e giustizia, pur rimanendo profondamente radicati nelle loro rispettive identità cristiane e religiose”[84]. Il processo educativo deve promuovere il consolidamento dei diritti umani, la salvaguardia della dignità di tutti, il superamento di ingiustizie e discriminazioni, anzi rispettando le legittime differenze, favorendo l’apertura verso il prossimo, vedendo in ogni persona un fratello o una sorella, sostenuti dalla preghiera che trasforma in operatori di pace.
[1] World Council of Church (WCC), Consiglio mondiale delle chiese, oppure Consiglio ecumenico delle chiese (CEC).
[2] Assemblea di Amsterdam (1948). Messaggio, in S. ROSSO – E. TURCO (curr.) Enchiridion Oecumenicum 5. Consiglio Ecumenico delle Chiese. Assemblee generali 1948-1988, vol. V, Edizioni Dehoniane, Bologna 2001, 55-61.
[3] Ivi 55.
[4] Ivi 56.
[5] Ivi 57.
[6] Cf. Il Documento della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo ‘Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili’ (2015). Cf. L. ANTINUCCI – E. SCOGNAMIGLIO, Il sogno dell’unità. Il cammino ecumenico delle Chiese. Toria, teologia, spiritualità, evangelizzazione, Editrice Elledici, Torino 2018, 293-304.
[7] Assemblea di Amsterdam, 57.
[8] Ivi 58.
[9] Ivi.
[10] Ivi 59.
[11] Ivi.
[12] Ivi 60.
[13] Ivi 61.
[14] Cf. ivi.
[15] Seconda assemblea ‘Cristo speranza del mondo’. Dichiarazione sulla speranza d’Israele, in EO 5, 104.
[16] Ivi.
[17] Ivi.
[18] Ivi.
[19] Quarta assemblea ‘Ecco, io faccio nuove tutte le cose. Uppsala 4-20 luglio 1968, in EO 5, 429.
[20] Ivi.
[21] Ivi.
[22] Quinta assemblea ‘Cristo libera e unisce’. Nairobi 23 novembre-10 dicembre 1975, in OE 5, 868.
[23] Ivi.
[24] Ivi 870.
[25] Cf. Sesta assemblea ‘Gesù Cristo vita del mondo’. Vancouver 24 luglio-10 agosto 1983, in EO 5, 1122-1127.
[26] Ivi 1122.
[27] Ivi 1123.
[28] Ivi 1124.
[29] Ivi 1125.
[30] Ivi 1126.
[31] Ivi.
[32] Settima assemblea ‘Spirito Santo, rinnova l’intero creato. Camberra, 7-20 febbraio 1991, in OE 5, 1629.
[33] Ivi 1664.
[34] Ivi.
[35] Cf. Settima assemblea ‘Spirito Santo, rinnova l’intero creato. Camberra, 7-20 febbraio 1991, in OE 5, 1769-1771.
[36] Ivi 1769.
[37] Ivi 1770.
[38] Ivi 1771.
[39] Ivi.
[40] Cf. S. NOCETI – D. SALA, Ecumenismo – CEC: rischi di un ripiegamento identitario. Intervista a M. Tanner e J. Radano, in Il Regno Attualità 6(2006) 156-160.
[41] Ottava Assemblea del CEC ‘Volgiamoci a Dio. Esultiamo nella speranza’. Harare, 8-13 dicembre 1998, in EO 5, 2230.
[42] Ivi 2222.
[43] Ivi 2223.
[44] Ivi.
[45] Ivi 2224. Cf. Dichiarazione sulla libertà religiosa di Amsterdam 1948 e New Delhi 1961, in OE 5 41-45 e 310-313.
[46] S. NOCETI, Ecumenismo – Porto Alegre: ricerca dell’unità visibile, in Il Regno Attualità 6(2006) 155. Cf. anche M.M., CEC – Comitato centrale: consenso per metodo, in Il Regno Attualità 6(2005)153.
[47] Il Regno Documenti 9(2206)302-335; qui 308.
[48] Ivi 325.
[49] Ivi 331.
[50] Cf. CONSIGLIO ECUMENICO DELLE CHIESE, Gloria a Dio e pace sulla terra. CEC, documento preparatorio per Kingston 20111, in Il Regno Documenti 9(2010)299-315.
[51] Cf. T. GILL, Ecumenismo – CEC: la pace giusta. A Kingston la convocazione ecumenica per la pace, in Il Regno Attualità 12(2011)377-378.
[52] Cf. ivi 378.
[53] CONSIGLIO ECUMENICO DELLE CHIESE, Sulla via della pace giusta. CEC – Convocazione ecumenica internazionale sulla pace (Kingston), in Il Regno Documenti 13(2011)433-442, qui 436.
[54] Ivi.
[55] Ivi 437-438.
[56] Ivi 438.
[57] Ivi 440.
[58] Ivi.
[59] Ivi 441.
[60] Cf. M. CHARBONNIER, CEC – A Busan la X Assemblea sulla via della pace giusta, in Il Regno Attualità 22(2013) 698.
[61] CONSIGLIO ECUMENICO DELLE CHIESE, Dio della vita guidaci verso la giustizia e la pace, in Il Regno Documenti 5(2014) 179.
[62] CONSIGLIO ECUMENICO DLLE CHIESE, Dio della vita guidaci verso la giustizia e la pace, in Il Regno Documenti 5(2014) 180.
[63] Ivi 183.
[64] Ivi 184. La prossima Assemblea generale del CEC è prevista per il 2021.
[65] CEC – PONTIFICIO CONSIGLIO PER IL DIALOGO INTERRELIGIOSO – ASSEMBLEA EVANGELICALE, La testimonianza cristiana in un mondo multireligioso, in Il Regno Documenti 21(2011) 696-698, qui 698.
[66] Ivi.
[67] Ivi 697.
[68] Ivi 697.
[69] Ivi.
[70] Ivi.
[71] Ivi 698.
[72] Ivi.
[73] Cf. CONSIGLIO ECUMENICO DELLE CHIESE – PONTIFICIO CONSIGLIO PER IL DIALOGO INTERRELIGIOSO, La pace in un mondo multireligioso, in Il Regno Documenti 19(2019) 635-640.
[74] Ivi 635.
[75] Ivi 637.
[76] Ivi 638.
[77] Ivi.
[78] Ivi.
[79] Ivi 639.
[80] Ivi.
[81] Cf. ivi 640.
[82] Ivi.
[83] Ivi.
[84] Ivi.
di Lucia Antinucci
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