L’incontro interreligioso del mese di gennaio, promosso dal Centro studi francescani per il dialogo interreligioso e le culture, ha avuto luogo mercoledì 22 nella chiesa di San Giorgio Martire in Afragola, sul tema ‘Il perdono cuore di ogni religione’. Il parroco, don Massimo Vellutino, ha salutato i convenuti ed ha aperto l’incontro con un momento di preghiera preparato dalla comunità parrocchiale. Lucia Antinucci, in quanto rappresentante del Centro Studi, dopo aver salutato la comunità anche da parte del direttore, il teologo don Eduardo Scognamiglio, che ha avuto un impedimento per problemi di salute, ha illustrato il senso dello ‘spirito di Assisi’.
La prima riflessione sul tema della serata è stata quella di Amedeo Imbimbo (della Comunità Sangha Rimé di Caivano) secondo il Buddhismo Tibetano. Egli ha sviluppato il suo intervento partendo da tre termini sanscriti: karma, kleśa e kshanti, ed ha affermato: “Il nostro comportamento è condizionato dal karma e dai kleśa. Karma è un termine sanscrito traducibile come “azione”. Indica la legge di causa – effetto. Ogni azione di corpo, parola e mente ha delle conseguenze sulla nostra esistenza. Azioni virtuose ci proiettano verso stati felici, azioni non virtuose ci proiettano verso condizioni di sofferenza. In sanscrito la parola kleśa indica uno stato di afflizione, di dolore. Nel Dharma si riferisce ai tre veleni della mente: ignoranza/indifferenza, repulsione/odio/rabbia e attaccamento. Quando qualcuno ci ferisce, la nostra reazione abituale, a cui ci siamo assuefatti, è la sete di vendetta. Desideriamo restituire il torto, l’offesa, il dolore ricevuto”. Amedeo Imbimbo ha riportato un esempio: “Se siamo colpiti in testa da un bastone con chi ce la prendiamo? Con il bastone che è un oggetto inanimato? Con il braccio che ha mosso quel bastone? Con la mente che ha dato l’ordine al braccio? Ma a pensarci bene la persona è stata spinta dal karma e da afflizioni mentali. Riflettendo e meditando in questo modo, la nostra reattività verrà ad annullarsi. I nostri nemici non sono esterni a noi, ma sono i veleni della nostra mente”. Egli ha sottolineato che il “perdono è un aspetto importante della compassione che emerge dalla comprensione della realtà. Nella comprensione del karma e delle afflizioni mentali, si sviluppa compassione nei confronti di chi compie del male, perché ineluttabilmente verrà proiettato verso esperienze di disarmonia e di sofferenza a causa delle sue azioni. L’azione negativa fa maturare karma in chi la compie. La nostra reazione a tale azione genera invece karma in noi stessi. Vivere nella sofferenza o nella felicità dipende da come reagiamo agli eventi esterni e ai pensieri interiori. Giudichiamo tutto in base alle nostre reazioni. A volte le nostre reazioni sono così forti che ci distruggono. Ma il vero problema è non capire l’origine e la natura delle nostre reazioni. Aggrapparsi alla rabbia è come afferrare un carbone ardente con l’intento di gettarlo a qualcun altro; sei sempre e solo tu quello che rimane bruciato. Spesso si ha una cattiva interpretazione del karma. Se qualcuno fa del male, ci aspettiamo che subisca subito delle sofferenze come punizione e, se non accade, pensiamo che non ci sia giustizia. In realtà stante l’ineluttabilità delle conseguenze delle azioni, non è determinabile quando queste matureranno; ma una reazione negativa è deleteria per la situazione e questo desiderio di vendetta è nocivo anche per noi stessi. Il perdono – ha continuato il rappresentante del buddhismo tibetano – non deve essere frainteso. Perdonare non significa dimenticare, perché se si trattasse solo di dimenticare, non ci sarebbe più niente da perdonare. Perdonare non significa essere indifferenti al male e alle ingiustizie. Significa bensì trovare una relazione giusta, ricercare una risposta migliore, senza essere spinti dalle nostre reazioni impulsive come la sete di vendetta. Nel sentiero buddhista, si pratica la Kshanti (sanscrito kṣānti) paramita, una delle sei perfezioni che corrisponde a pazienza, tolleranza e perdono. L’essenza della pazienza è ‘nessuna cattiva reazione’(Gampopa)”. Amedeo Imbimbo si è anche soffermato sul fatto “che non abbiamo più la possibilità di modificare il passato. Abbiamo invece modo di agire sul modo con cui reagiamo alle ingiustizie che abbiamo subito. Un praticante del Dharma deve interiormente sentire gratitudine anche verso vicende negative, perché queste gli consentono di praticare la pazienza, una delle perfezioni da sviluppare nella via verso l’illuminazione. Un praticante del Dharma a fine giornata dedica alcuni momenti ad una retrospettiva sulle azioni compiute durante la giornata. È importante saper riconoscere le proprie colpe, rammaricarsi e chiedere perdono. Dobbiamo distinguere fra azione e chi compie l’azione. Questo è quello che facciamo in relazione alle nostre cattive azioni. Proviamo rimorso, ci ripromettiamo di non agire più in quel modo, ma ci viene naturale perdonarci. Dovremmo provare ad estendere anche agli altri la nostra apertura al perdono. Se non approviamo quello che fanno gli altri, non dovremmo avere un sentimento negativo nei loro confronti. Auspicare il bene anche per coloro i quali ci hanno fatto del male è un segno distintivo della nostra condizione di esseri umani. Significa riconoscere che portare rancore crea solo divisione, maggiore disarmonia e discordia e getta i semi di una maggiore sofferenza futura. D’altro canto, amare l’altro, però, non significa approvare tutto quello che fa”. A. Imbimbo nell’ultima parte della sua riflessione ha evidenziato che “per molti non è semplice perdonarsi e di conseguenza risulta difficile anche perdonare gli altri. Ecco perchè è importante iniziare a praticare il perdono e, in generale, la compassione, verso se stessi. Qualsiasi errore può essere rimediato. Non dobbiamo identificarci con le azioni compiute; non dobbiamo edificare un’errata visione di noi stessi in base a eventuali malefatte. Il Buddha ha dato insegnamenti su ciò che è salutare e non salutare, ma non ha mai parlato di male assoluto. Un altro aspetto da considerare è che il perdono ha un effetto liberatorio. Tormentarci interiormente per una contrarietà ricevuta, continuare ad alimentare la nostra rabbia e il nostro risentimento non solo non pone rimedio a quanto accaduto, ma non sarà di nessun vantaggio, poiché non troviamo pace, non dormiamo serenamente, abbiamo possibili conseguenze sulla salute. Se invece riusciamo a superare le nostre passioni conflittuali verso chi ci ha fatto del male e a perdonarlo, proviamo un senso di libertà e di fiducia in noi stessi, riusciamo a lasciare andare ciò che è successo e cominciamo a prenderci cura anche di chi ci è ostile. Liberarsi dalla rabbia e dal rancore è il modo per intraprendere la via della compassione e dell’amore, che ci conduce verso la guarigione. La malattia deriva spesso dal non perdono. Il perdono ci libera dalla prigione dell’odio e della rabbia. È un farmaco che cura la mente e il corpo. Con il perdono e la gentilezza amorevole liberiamo energia vitale dal risentimento e dalla rabbia e generiamo forza positiva, generosità, coraggio, sicurezza, grandezza d’animo e gioia interiore. Riscoprire il nostro fondo di bontà ci riconcilia spontaneamente con noi stessi e con gli altri. L’attitudine a perdonare e ad abbandonare le nostre passioni conflittuali significa donare coraggio. Il perdono è un dono che facciamo agli altri, offrendo la libertà dalla paura. Quando gli altri non ci vedono come una minaccia, si genera armonia e pace. Il Buddha è spesso rappresentato con la mudra Abhaya-mudra — il gesto del coraggio; questo gesto dissipa simbolicamente la paura negli altri, viene fatto alzando la mano destra al livello del cuore e con il palmo della mano rivolto verso l’esterno con tutte le dita che si estendono verso l’alto. Il perdono è una necessità: se non perdoniamo, non saremo perdonati. L’atto di perdonare, quando emerge spontaneamente dal cuore, è un segno di forza, non di debolezza, è un ‘per-dono’, un dono di gioia e luminosità dentro di noi e per gli altri”.
Ha preso poi la parola Angela Furcas per la fede Baha’i. Ella, dopo aver ringraziato i promotori degli incontri interreligiosi mensili, ha evidenziato che tali incontri “sono una manna dal cielo perché favoriscono l’Unità fra i Credenti di tutte le Fedi, principale scopo della Fede Bahá’í, i cui fondatori sono il Báb (La Porta) e Bahá’u’lláh (La Gloria di Dio), le Manifestazioni gemelle della Nuova Dispensazione”. A. Furcas si è poi soffermata sul tema della serata, sottolineando il rapporto tra il perdono e l’amore, “fondamento di tutte le fedi, affinchè ciò ch’è diviso si unisca e ciò ch’è lontano si faccia più prossimo”, che obbedisce “all’antico, ma sempre valido Comandamento: ‘Ama il prossimo tuo come te stesso’. Bahá’u’lláh aggiunge: ‘Ama il prossimo tuo più di te stesso’ perché l’umanità – ha sottolineato – deve maturare più in fretta, in quanto il male ha raggiunto i gangli di tutte le istituzioni e non si tratta più di salvezza personale, ma della salvezza delle Nazioni e dell’Umanità intera”. Il perdono ha una dimensione teologica: “Il vero Perdono deve nascere dalla consapevolezza dell’Unicità di Dio, dell’Unità delle Religioni e dell’unità dell’Umanità, senza la quale non si potrà affermare la Giustizia da cui sorgerà la Pace. E’ una presa di coscienza che solo se saremo uniti potremo sconfiggere il male, nato dal tradimento dell’Altro ch’è in noi, la Scintilla Divina che favorisce la nostra evoluzione e alla quale non badiamo che per forza d’inerzia. E’ un male che le Religioni tengono a bada, come si tiene un cane inferocito al guinzaglio, pronto a puntare chiunque gli si metta davanti per ostacolarlo. E’ necessario che le Religioni facciano fronte comune perché ognuno di noi è fatto della stessa sostanza degli altri e nessun’altra attribuzione temporale, culturale o sociale può cambiare questa realtà. Non esiste il diverso da noi: “’’unità nella diversità’ è un passaggio obbligato, non la soluzione. Raggiungere l’Uno è la soluzione, la vetta della consapevolezza, l’illuminazione totale”. A. Furcas ha illustrato il rapporto di questo discorso con il perdono: “Il Perdono non è un atteggiamento fideistico, non è l’ubbidienza ad una regola: è la piena comprensione di uno stadio spirituale nel procedere del cammino inarrestabile dell’evoluzione umana. E’ bagnarsi nelle acque della Misericordia divina, che accoglie i cosiddetti buoni e cattivi, perché nessuno è buono e nessuno è cattivo: vi è tra i membri della famiglia umana solo una differenza di stadi. Bahá’u’lláh come già disse Gesù, ripete che dobbiamo amare i nostri nemici e fare del bene a chi ci odia e pregare per loro. Perdonare è donarsi all’altro perché si salvi. Appena siamo feriti, egoisticamente ce ne risentiamo e non pensiamo che chi ci ha ferito è in pericolo più di noi e dobbiamo soccorrerlo. Questo è il vero Perdono quello che salva persecutore e perseguitato. Essere di parte è letale per la salvezza di tutta la collettività. E’ un modello che ha incancrenito le società di tutti i tempi. E’ ora di cambiare la nostra visione delle cose e di praticare la Carità”. Concludendo, Angela Furcas ha letto un brano da uno scritto di Abdu’l-Bahá (Il Servo della Gloria) figlio del fondatore della Fede Bahá’í Bahá’u’lláh (La Gloria di Dio): “Fra gli insegnamenti di Bahá’u’lláh ve n’è uno – ha affermato A. Furcas – che esige dagli uomini di perdonare in qualsiasi circostanza, d’amare i loro nemici e di considerare coloro che ci vogliono male come se desiderassero il nostro bene. Ciò non significa che una persona debba considerarne un’altra, dapprima come nemica e poi, dopo averla avvicinata, trattarla con sopportazione. Ciò sarebbe ipocrisia e non vero amore. Invece voi dovete considerare i vostri nemici come amici, i malevoli come benevoli e conseguentemente, trattarli con affetto; il vostro amore e la vostra gentilezza debbono essere genuini… e non la sola tolleranza, poiché essa non viene dal cuore ed è ipocrisia”.
Il tema del perdono è stato poi analizzato secondo il punto di vista del Taoismo dal Rev. Li Xuanzong, che ha sottolineato soprattutto l’aspetto psicologico: “Il perdono nasce dal forte desiderio di riportare l’armonia nelle relazioni infrante”, che scaturisce da una grande sete di pace. “Per perdonare veramente occorre auto perdonarsi e dunque imparare a curare le proprie ferite, specie quelle più profonde che si trascinano dall’infanzia”. L’autoperdono – ha sottolineato il Rev. Xuanzong – nasce dalla comprensione delle propri debolezze psichiche e morali. Il senso di colpa nasce dall’incapacità di saper perdonare, che può portare anche all’autodenigrazione: “Se nel frattempo la persona a cui chiedere perdono muore, i sensi colpa aumentano”. Il perdono come percorso di guarigione, passa per dodici tappe, illustrate del Prefetto dei Taoisti: non vendicarsi, riconoscere la propria ferita, condividerla con qualcuno, identificare bene la perdita, accettare la collera e la voglia di vendicarsi, perdonare se stessi, comprendere la persona che ci ha offeso, trovare un senso all’offesa, stimarsi degni di perdono, cessare di accanirsi nel voler perdonare, aprirsi alla grazia del perdono, decidere di porre fine alla relazione o di rinnovarla. Secondo il pensiero classico taoista, ha concluso il Rev. Xuanzong, il perdono è guarigione perché sana le ferite provocate dal risentimento, rinnova le persone, il matrimonio, la vita familiare e sociale.
L’ultima riflessione è stata quella ebraico-cristiana, illustrata da Lucia Antinucci, che è partita dalla prospettiva del Primo Testamento (Antico Testamento). Ella ha evidenziato che dalla “Bibbia emerge anzitutto il perdono di Dio nei confronti dell’uomo che ritorna a lui con tutto il cuore (radice ebraica Shuv = tornare – teshuvah = pentimento) e desidera seguire il sentiero della giustizia, rispettando la sua Legge (la Torah). Il perdono di Dio riguarda unicamente quei peccati che l’uomo compie nei Suoi confronti (ben adam laMaqom). Nella Bibbia il tema è analogo a quello della misericordia di Dio. L. Antinucci ha citato alcuni testi biblici: Neemia 9,17 “…si sono rifiutati di obbedire e non si sono ricordati dei miracoli che tu avevi operato in loro favore; hanno indurito la loro cervice e nella loro ribellione si sono dati un capo per tornare alla loro schiavitù. Ma tu sei un Dio pronto a perdonare, pietoso e misericordioso, lento all’ira e di grande benevolenza e non li hai abbandonati”; Salmo 129,4 “Ma presso di te è il perdono: e avremo il tuo timore”; Siracide 17,24 “Quanto è grande la misericordia del Signore, il suo perdono per quanti si convertono a lui!”. Il Primo Testamento evidenzia anche il perdono nei confronti dei fratelli e L. Antinucci ha presentato la prospettiva ebraica: “Secondo l’ebraismo il perdono comprende due stadi: quello della cessazione del male da una parte e quello dell’esecuzione del bene. I peccati commessi verso altri esseri umani (ben adam lachaverò) non vengono perdonati sino a quando colui che è stato offeso abbia perdonato a sua volta. Da qui l’uso di chiedere perdono al proprio prossimo, elemento indispensabile per l’espiazione delle colpe, la vigilia del digiuno (Yom Kippur). Nel Talmud è scritto che ‘chi si comporta con clemenza nei confronti del proprio prossimo sarà trattato con clemenza dal Cielo; chi non si comporta con clemenza nei confronti del proprio prossimo non sarà trattato con clemenza dal Cielo’ (TB Shabbat 151b). Se la parte offesa rifiuta per tre volte in presenza di altri di concedere il perdono, diviene lui il peccatore (Tanchumà Chuqqat 19) ed è chiamato ‘crudele’. Inoltre, questo atteggiamento non è considerato degno di un discendente di Abramo (TB Betzah 32b), poiché questa è una delle caratteristiche che distinguono Abramo e la sua stirpe (Bemidbar Rabbà 8,4; Rambam, Hilkhot teshuvah 2,10)”. L. Antinucci ha fatto anche un riferimento all’attualità, poiché spesso l’ebraismo viene interpellato riguardo al perdono nei confronti di coloro che sono stati artefici della Shoah (distruzione – 27 gennaio giornata della Memoria). La risposta ebraica è quella secondo cui “solo chi ha subìto un’offesa può perdonare, e la maggior parte delle vittime sono morte. Il perdono operato da terzi non può sostituire quello delle vittime […] . Un’altra obiezione dipende dall’assenza di pentimento da parte dei criminali. Non tutte le colpe – secondo la prospettiva ebraica -quindi possono essere perdonate e dal punto di vista morale la Shoah, per la sua immensa gravità, ha superato ogni limite di perdonabilità”.
- Antinucci ha poi illustrato il messaggio del Secondo Testamento (Nuovo Testamento): “Nel Vangelo di Matteo (18-22) si trova la famosa domanda rivolta da Pietro a Gesù che dice: Signore quante volte dovrò perdonare mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte? E Gesù gli risponde chiaramente: ‘Non ti dico fino a sette ma fino a settanta volte sette’”. Il perdono è quindi illimitato. “Nel Vangelo di Matteo, la disponibilità a perdonare ‘di cuore, ciascuno al proprio fratello’ (Mt 18,35), costituisce la condizione necessaria per ottenere il perdono del Padre celeste, come emerge dalla parabola del servo spietato (Mt 18,23-35). Il discepolato è autentico se c’è la disponibilità al perdono(Mt 5,24; 18,21-22), perché è imitazione del comportamento di Gesù, che ha perdonato – anzi scusato – in croce i suoi carnefici: ‘Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno’ (Lc 23,34), che rivela quello del Padre celeste, ‘Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro’ (Lc 6,36)”. L. Antinucci ha poi sviluppato delle considerazioni a carattere etico e spirituale: “Il perdono non si improvvisa, richiede una gradualità; è un processo che porta alla riconciliazione, lottando anzitutto contro se stessi, contro la passione dell’ira e del rancore, per arrivare alla liberazione profonda del proprio cuore. Nonostante le nostre fragilità il Signore ci concede il dono di saper perdonare se il nostro cuore è veramente aperto al suo Amore. Nel caso di gravi crimini, il perdono da parte della vittima non assolve però il colpevole dalla pena secondo la giustizia umana (rapporto tra giustizia e misericordia in Dives in misericordia di Giovanni Paolo II). Occorre anche fare discernimento in base alla saggezza evangelica. In certi casi il perdono non richiede di tornare alla familiarità con colui che ci ha offeso, perché occorre anche la prudenza evangelica. Se abbiamo constatato che non è prudente concedere amicizia e familiarità ad una persona non bisogna farlo, così come nei riguardi di una persona malvagia che ci può strumentalizzare. Occorre chiedere a Dio il dono che ci liberi dal rancore interiore e ci renda capaci di sincera cordialità – in questi casi – senza familiarità. Oggi vediamo che il perdono viene banalizzato, come fanno i giornalisti con i congiunti delle vittime di un delitto o di un grave abuso. Solo chi vive nel dinamismo della familiarità con Dio (di una vera spiritualità) – ha concluso L. Antinucci – può ricevere il dono immenso di saper perdonare, anche in situazioni estreme, come fece San Giovanni Paolo II quando incontrò il suo attentatore turco Mehmet Ali Agca”.
L’incontro interreligioso, fraterno e di spiritualità, con una nutrita partecipazione dei fedeli della parrocchia e di un gruppo scout, allietato dai canti dei giovani della parrocchia, si è concluso con un altro breve momento di preghiera.
di Lucia Antinucci
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