Come guardiamo le nostre città? Con indifferenza, con disprezzo? Oppure con la fede che riconosce i figli di Dio in mezzo alle folle anonime?
Sono gli interrogativi che ogni missionario deve porsi e che papa Francesco ha richiamato nell’udienza di oggi (mercoledì, 6-11-2019), ripercorrendo il viaggio missionario di Paolo ad Atene e meditando sul modo di evangelizzare dell’apostolo delle genti tra attese, adesioni e insuccessi. San Paolo, ha ribadito papa Francesco, «sceglie lo sguardo che lo spinge ad aprire un varco tra il Vangelo e il mondo pagano», facendosi «pontefice, costruttore di ponti». Si tratta di entrare in empatia con gli uditori ai quali proclama che Dio «vive tra i cittadini», senza la pretesa di essere compresi o di mettere da parte la propria cultura. L’annuncio del Vangelo entra nelle culture, nelle storie e nelle vite politiche e sociali degli uditori, provando ad evangelizzare il vissuto umano di chi abita gli spazi urbani solo dopo un processo d’inculturazione della fede. Si può annunciare Gesù Cristo solo dopo l’incontro dialogico con chi ci sta di fronte, senza la pretesa di una conversione immediata e di un’adesione incondizionata, priva di riserve, di domande, di ricerca di senso e di valore. Diversamente, così com’è già avvenuto nella Chiesa cattolica (e non solo) per il passato, il cristianesimo diventa ideologia e corre il rischio di identificarsi con una sola cultura e proposta di vita, dimenticando – invece – che il Vangelo, per sua forza e grazia, assume tutte le culture e le tradizioni dei popoli e delle comunità senza identificarsi con nessuna di essa in maniera assoluta.
Papa Francesco pone in evidenza il metodo dialogico e missionario di san Paolo che, dopo il confronto con gli esponenti del mondo culturale ateniese (filosofi, retori e maestri pagani), invita tutti ad andare oltre «i tempi dell’ignoranza» e a decidersi per la conversione in vista del giudizio imminente. «Paolo approda così al kerygma e allude a Cristo, senza citarlo, definendolo come l’“uomo che Dio ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti” (At 17,31)».
Il metodo kerygmatico di san Paolo non annacqua la verità del Vangelo ma gli dona ancora più forza e vigore affinché nel cuore della gente ritorni la domanda sul senso della vita, sul mistero stesso di Dio e sul dono della fede. Papa Francesco ha chiesto a tutti i credenti di domandare allo Spirito Santo di «insegnarci a costruire ponti con la cultura, con chi non crede o con chi ha un credo diverso dal nostro». Si tratta di assumere uno stile dialogico anche nell’annuncio del Vangelo e nel confronto con le altre fedi, culture e religioni, rinunciando alla violenza, evitando polemiche e aggressioni, con la capacità di «inculturare con delicatezza il messaggio della fede, ponendo su quanti sono nell’ignoranza di Cristo uno sguardo contemplativo, mosso da un amore che scaldi anche i cuori più induriti».
Nasce spontanea la domanda: “Come annunciamo il Vangelo oggi?”; e inoltre, “Quali strategie abbiamo a disposizione?”. Non è forse vero che un vissuto di fede che si mostra intollerante e chiuso alle sfide odierne che il mondo presenta ogni giorno non è per niente credibile?
Riaffiora alla mente lo stile missionario inaugurato da san Francesco che, ai missionari coraggiosi mossi da divina ispirazione per annunciare il Vangelo tra i saraceni, chiede di evitare dispute e di agire con mansuetudine e gentilezza, senza mai assecondare la logica della prevaricazione e della prepotenza. Il messaggio è forte e chiaro: la verità è Gesù Cristo e si è consegnata a noi in modo umile, semplice, attraverso la croce. Il messaggio cristiano, dunque, è per sua natura un fatto dialogico, relazionale, inclusivo, propositivo, aperto al confronto: ed è genuino – resta inalterato – nella misura in cui è presentato nella logica del “se vuoi”, della libertà di coscienza, dell’adesione libera e incondizionata, della scoperta di senso e dello stupore della vita nuova in Cristo.
Anche oggi, innanzi all’indifferenza di molti, all’emarginazione del messaggio cristiano – del Vangelo e della forma storica delle comunità, ossia delle Chiese che in tanti non frequentano più o nelle quali non si riconoscono assolutamente (rafforzando il motto “Cristo si, Chiesa no”)– nel mondo, siamo credibili con la testimonianza della vita, con la nostra disponibilità all’incontro, a una relazione dialogica che può diventare fraterna, ossia, capace di accogliere e promuovere l’altro nella sua stessa diversità, senza per questo rinnegare la fede. D’altronde, costruire ponti, farsi dialogo di amore per il bene del mondo e del prossimo, significa che noi non siamo i possessori della Verità, ma che, invece, siamo posseduti – come san Paolo, come il Poverello, come i tanti santi e maestri che si sono fatti strumento di pace e di riconciliazione –, da una verità più grande che è Gesù Cristo, il dialogo di Dio – Verbo eterno – che si è fatto per sempre amore crocifisso e risorto per tutti.
Di Edoardo Scognamiglio, teologo
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