Il recente viaggio di papa Francesco negli Emirati Arabi (3-5 febbraio 2019) ha una pregnante carica profetica e potrebbe segnare una svolta importantissima – con significati geo-politici, socio-culturali ed etico-religiosi – non solo per il dialogo tra cristiani e musulmani in Occidente e in Oriente, ma anche e soprattutto per la collaborazione di tutte le comunità religiose sparse per il mondo al servizio della pace, della giustizia, dell’accoglienza, della fraternità universale.
Ottocento anni prima, Francesco d’Assisi e il sultano d’Egitto realizzarono un incontro simile nel lontanissimo giugno del 1219. Al sultano d’Egitto, al-Malik al-Kamil, il Poverello d’Assisi non portò dei dogmi, né si rivolse con toni minacciosi, ma gli aprì semplicemente il cuore nella speranza di donargli quel saluto di “pace e bene” che è carico di profezia, di amore, di amicizia, di rispetto, di dignitoso riconoscimento e di benevola accoglienza. Così, allo stesso modo, papa Francesco nel suo viaggio ispirato non ha imposto alcuna verità, ma semplicemente allargato il cuore e le braccia per accogliere il grande imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, come suo fratello.
Che cosa hanno in comune questi due viaggi? Forse, anche a distanza di ottocento anni, si è verificato lo stesso evento: l’incontro non è stato semplicemente l’esito di conoscere una persona, bensì un evento inatteso, miracoloso, magnetico, inspiegabile, che accade e trasforma la vita di chi viaggia, di chi si mette in cammino. Il viaggio è la risposta-conseguenza al nostro sentirci tutti viandanti della vita, bisognosi d’incontrare l’altro e, in un certo qual modo, di sperimentarci come pellegrini dell’Assoluto, di un Patria e di una Meta che ci precedono e che ci stanno sempre dinanzi come il nostro orizzonte più prossimo e, allo stesso tempo, sempre lontano, posto in avanti e in alto.
Ad Abu Dhabi ci si è reso conto, ancora uan volta, che non si può uccidere nel nome di nessun Dio e che la religione non può essere veicolo di violenza: soltanto la sua manipolazione ideologica può giustificare la violenza o il terrorismo. Chi crede è solo capace di amare e di fare del bene al prossimo e può impegnarsi per il servizio comune agli ultimi, praticando la via della giustizia e il sentiero della carità e del rispetto fraterno.
1. Vedere nell’altro un fratello
Quando ad Abu Dhabi, il 4 febbraio scorso, papa Francesco ha abbracciato il grande imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, gli occhi del mondo erano tutti fissi su di lui, nell’intento di leggere in profondità la profezia di tale incontro. L’abbraccio fraterno tra i due presuli ha commosso il mondo, e le comunità internazionali di ogni credo e cultura hanno accolto con entusiasmo la dichiarazione congiunta firmata dai due leader: Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune.
Si dice chiaramente, nella prefazione di questo documento, che «la fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare» e che dalla fede in Dio, che ha creato l’universo, le creature e tutti gli esseri umani – uguali per la sua misericordia –, «il credente è chiamato a esprimere questa fratellanza umana, salvaguardando il creato e tutto l’universo e sostenendo ogni persona, specialmente le più bisognose e povere». Ogni credente si fa carico di una responsabilità verso l’altro che non può disattendere perché diversamente sconfesserebbe la sua stessa fede!
L’intento della dichiarazione comune è di aiutare i credenti a lavorare assieme e di essere una guida per le nuove generazioni verso la cultura del reciproco rispetto, nella comprensione della grande grazia divina che rende tutti gli esseri umani fratelli. Attraverso questa dichiarazione comune, cristiani e musulmani d’Oriente e d’Occidente, affermano di adottare la cultura del dialogo come via, la collaborazione comune come condotta e la conoscenza reciproca come metodo e criterio. C’è un appello rivolto agli artefici della politica internazionale e dell’economia mondiale affinché si impegnino «seriamente per diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace; di intervenire, quanto prima possibile, per fermare lo spargimento di sangue innocente, e di porre fine alle guerre, ai conflitti, al degrado ambientale e al declino culturale e morale che il mondo attualmente vive».
Si è convinti che il dialogo, la comprensione, la diffusione della cultura della tolleranza, dell’accettazione dell’altro e della convivenza tra gli esseri umani sono in grado di contribuire notevolmente a ridurre molti problemi economici, sociali, politici e ambientali che assediano grande parte del genere umano. Il dialogo tra i credenti significa incontrarsi nell’enorme spazio dei valori spirituali, umani e sociali comuni, e investire ciò nella diffusione delle più alte virtù morali, sollecitate dalle religioni, e significa anche evitare le inutili discussioni. Nella dichiarazione congiunta è ribadito il valore della libertà religiosa, si condanna ogni sorta di terrorismo che strumentalizza la fede, e si fa appello al diritto di piena cittadinanza che non può essere negato a nessuno per motivi di fede o di razzismo.
Ci sono alcuni punti dedicati alla donna, alla difesa dei bambini e al rispetto degli anziani: «È un’indispensabile necessità riconoscere il diritto della donna all’istruzione, al lavoro, all’esercizio dei propri diritti politici. Inoltre, si deve lavorare per liberarla dalle pressioni storiche e sociali contrarie ai principi della propria fede e della propria dignità. È necessario anche proteggerla dallo sfruttamento sessuale e dal trattarla come merce o mezzo di piacere o di guadagno economico. Per questo si devono interrompere tutte le pratiche disumane e i costumi volgari che umiliano la dignità della donna e lavorare per modificare le leggi che impediscono alle donne di godere pienamente dei propri diritti. La tutela dei diritti fondamentali dei bambini a crescere in un ambiente familiare, all’alimentazione, all’educazione e all’assistenza è un dovere della famiglia e della società […]. La protezione dei diritti degli anziani, dei deboli, dei disabili e degli oppressi è un’esigenza religiosa e sociale che dev’essere garantita e protetta attraverso rigorose legislazioni e l’applicazione delle convenzioni internazionali a riguardo».
La dichiarazione congiunta fa riferimento anche allo sfruttamento improprio delle risorse della terra, allo squilibrio tra ricchi e poveri, alla fame nel mondo, alla crisi politica di molti paesi, tutti eventi che hanno generato, «e continuano a farlo, enormi quantità di malati, di bisognosi e di morti, provocando crisi letali di cui sono vittime diversi paesi, nonostante le ricchezze naturali e le risorse delle giovani generazioni che li caratterizzano. Nei confronti di tali crisi che portano a morire di fame milioni di bambini, già ridotti a scheletri umani – a motivo della povertà e della fame –, regna un silenzio internazionale inaccettabile».
Chi crede in Dio non può non condannare tutte le pratiche che minacciano la vita «come i genocidi, gli atti terroristici, gli spostamenti forzati, il traffico di organi umani, l’aborto e l’eutanasia e le politiche che sostengono tutto questo».
2. La cifra della differenza: l’Altro
Oggi, girano per il mondo più di sette miliardi di persone che non parlano la stessa lingua e che appartengono a culture, tradizioni religiose e a orientamenti socio-politici differenti e a volte anche contrastanti. La differenza tra tutti gli esseri umani è anzitutto bio-genetica, inscritta, cioè, nel Dna di ciascuno di noi. Siamo venuti al mondo già diversi, portatori di novità e di alterità allo stesso tempo. Questa diversità ci costituisce proprio come esseri umani ed è una grande risorsa. Proprio per queste ragioni abbiamo sempre più bisogno di formarci al dialogo, all’accoglienza, al confronto sereno, nel rispetto delle nostre e altrui identità e diversità.
Nei volti dei più dei sette miliardi d’abitanti del pianeta Terra è inscritta la cifra della Trascendenza, dell’Assoluto, come dono, e pure la responsabilità del prendersi cura di chi ci sta accanto come compito, impegno etico che dobbiamo assolvere per il bene nostro e del prossimo stesso. Il volto dell’Altro, amava ripetere E. Lévinas, “ci interpella” sempre, in ogni momento e condizione. Il volto non è semplicemente una forma plastica, ma è subito un “impegno per me”, un “appello a me”, un “ordine per me” di trovarmi al suo servizio. Non solamente di quel volto, ma dell’altra persona che in quel volto mi appare contemporaneamente in tutta la sua nudità, senza mezzi, senza nulla che la protegga, nella sua semplicità, e nello stesso tempo come il luogo dove mi si ordina. Questa maniera di ordinare, è ciò che Lévinas chiama la parola di Dio nel volto. Il volto significa “non uccidere”, “non mi devi uccidere”. È la sua umiltà, il suo essere senza mezzi, la sua sobrietà, ma al tempo stesso, precisamente, il comandamento “non uccidere”. Il volto è ciò che si presta all’omicidio e ciò che resiste all’omicidio. L’essenza di tale relazione “non uccidere” vuol dire “tu mi farai vivere”.
Lévinas, in una famosa intervista (cf. L’asimmetria del volto. Un’intervista), afferma che ci sono mille modi di uccidere altri, non solo con una pistola; si uccide altri restandogli indifferenti, non occupandosene, abbandonandolo. Di conseguenza, “non uccidere” è la cosa principale, è l’ordine principale nel quale l’altro uomo è riconosciuto come ciò che s’impone a me. La responsabilità, allora, per ciascuno di noi, nel dialogo, è “essere per l’altro”. È una responsabilità fondativa del nostro modo di stare al mondo, di essere e di agire, della nostra stessa libertà. Nella nostra responsabilità – o libertà – per altri, siamo sempre chiamati come se fossimo i soli a poterlo fare. Farsi sostituire per un atto morale, vuol dire rinunciare a un atto morale. Nessuno può sostituirsi alle nostre scelte, alla nostra stessa libertà e al nostro volere il dialogo, la relazione e l’incontro con l’altro! Prendersi cura dell’altro non è una scelta masochistica, annientando se stessi; significa, invece, diventare pienamente persone umane, in relazione, capaci di amare e di tessere legami di fraternità e di amicizia, di comunione.
Innanzi al volto dell’altro, allora, la sfida è la comunione, la fraternità universale, la capacità di vincere pregiudizi e paure, egoismi e chiusure, come pure di convincersi, ancora una volta, che la diversità è sempre una risorsa, un’opportunità, e mai semplicemente un problema da risolvere. “Dialogare, integrare e accogliere” sono la grande sfida che l’intera umanità è chiamata ad affrontare e che le future generazioni non potranno disattendere se effettivamente desiderano costruire un’era di pace. “Dialogare, integrare e accogliere” sono verbi che lasciano pensare a una comunicazione interpersonale che può produrre sempre dei frutti di comunione, eventi di fraternità e d’incontro. Deve essere chiaro una volta per sempre: a incontrarsi non sono le parole o le dichiarazioni d’intenti, ma volti e mani, cuori e voci, sorrisi e sentimenti di persone e comunità che credono in una fraternità universale da costruire ogni giorno, nel rispetto di tutti, secondo la logica dell’incarnazione, nella migliore conoscenza del cristianesimo che assume tutte le culture senza identificarsi in una di esse, perché diversamente diverrebbe ideologia. Chi accoglie, chi s’incontra, chi sa dialogare con l’altro non è debole, non è ingenuo, non rinuncia alla sua stessa identità, né cade nel relativismo: è semplicemente un sognatore, un portatore di profezia, un messaggero di pace. Si possono costruire dei progetti soltanto se prima li abbiamo sognati, desiderati, voluti, pensati, come sogni da inseguire.
3. Creare nuovi laboratori per la pace
Quasi al termine della dichiarazione, la Chiesa cattolica e Al-Azhar, attraverso la comune cooperazione, «annunciano e promettono di portare questo documento alle autorità, ai leader influenti, agli uomini di religione di tutto il mondo, alle organizzazioni regionali e internazionali competenti, alle organizzazioni della società civile, alle istituzioni religiose e ai leader del pensiero; e di impegnarsi nel diffondere i principi di questa dichiarazione a tutti i livelli regionali e internazionali, sollecitando a tradurli in politiche, decisioni, testi legislativi, programmi di studio e materiali di comunicazione».
Questo documento non può restare lettera morta a causa dei nostri pregiudizi né per un certo disfattismo presente in tanti ambiti della vita delle nostre Chiese e comunità. È, la dichiarazione congiunta, un buon testo per creare nuovi laboratori dedicati alla formazione al dialogo, alla pace, all’incontro, all’inculturazione, per il superamento dell’intolleranza non solo religiosa e del razzismo.
Anche il mondo musulmano dovrà rivedere tante cose e mettere in discussione certi principi del diritto islamico che per troppo tempo sono apparsi immobili e non hanno permesso la piena affermazione della libertà religiosa, del ruolo della donna nella società contemporanea, del rispetto delle minoranze nei paesi ove vige la Sharìa.
La dichiarazione congiunta dovrà incidere necessariamente nella vita e nel modo di pensare non solo dei cristiani, ma anche di certe élites musulmane che hanno condannato il diritto islamico a un immobilismo forzato. Se per il passato il massimo sforzo che un giurista doveva compiere per applicare la legge islamica non fu concepito come strumento di aggiornamento e di dialogo con la società del tempo, bensì come metodo d’applicazione dei principi normativi islamici, oggi questo modo di procedere in ambito socio-politico e culturale-religioso deve cambiare. A volte, le spinte alla riforma, al rinnovamento, al cambiamento, provengono profeticamente dal basso, dalla storia, e non dai principi primi che scaturiscono da regole, dogmi o costrutti normativi!
Papa Francesco si è fatto portavoce di un nuovo modo di essere Chiesa e di vivere il Vangelo nel mondo, superando chiusure e pregiudizi verso l’islam e i suoi seguaci, portando avanti il sogno di san Francesco e le indicazioni del Vaticano II al n. 5 della dichiarazione Nostra aetate che fa riferimento proprio alla fraternità universale.
Il grande imam di Al-Alzhar, la massima autorità giuridica del mondo islamico sunnita che si trova al Cairo (in Egitto), dovrà impegnarsi concretamente perché i buoni propositi elencati nella dichiarazione congiunta raggiungano tutte le comunità islamiche sparse nel mondo. Ci confortano, comunque, le stesse parole del grande imam che, nel suo articolato intervento, pronunciato in arabo, ha fatto riferimento all’ineluttabilità del dialogo tra Oriente e Occidente per salvare l’umanità e non ripiombare in un’epoca oscura, convinto anche che la violenza reciproca isola la nostra civiltà rispetto alle precedenti.
4. Riprendere la terza via
In questo storico e profetico viaggio, papa Francesco non ha fatto altro che riprendere quella terza via inaugurata da san Francesco. È la via – il sentiero – del dialogo, del rispetto, dell’incontro fraterno, che è più della tolleranza. Infatti, “tollerare” la presenza dell’altro è qualcosa di passivo, di negativo, e può sfociare solo nell’emarginazione o nel conflitto. È un’azione, un modo di pensare e di vivere, che non favorisce l’accoglienza, né si apre al dialogo, all’incontro, alla relazione. “Tollerare fino a un certo punto” determina isolamento e conflitti, e tende a relegare lo straniero in un angolo, ai confini delle città, nelle periferie del mondo e dei confini degli Stati. Nella dichiarazione congiunta firmata da papa Francesco e dall’imam si parla di cultura della tolleranza ad ampio raggio per far comprendere che nessuna forma di chiusura, di razzismo, di fanatismo o di estremismo deve fuori uscire dall’esperienza di fede. Chi crede in Dio non può chiudersi al dialogo e la fede non può degenerare nella violenza.
La prima via fu quella delle crociate e si rivelò un percorso sbagliato, difficile, tragico. La guerra produce solo morti e sconfitte: perché non è mai chiara la distinzione tra vinti e vincitori. Lo stesso Francesco sperimentò il fallimento delle spedizioni militari: rientrò ad Assisi senza più il sogno di essere cavaliere perché la guerra gli provocò ferite, sofferenze, crisi. L’oppressione e lo sterminio dell’altro determinano sempre ideologie a scapito delle alterità e delle diversità: il prossimo – lo straniero, l’altro – è “diverso da me” solo “temporaneamente”, fino a quando non lo elimino. Di questa prima via si fa accenno, se pur implicitamente, nella dichiarazione congiunta: «La storia afferma che l’estremismo religioso e nazionale e l’intolleranza hanno prodotto nel mondo, sia in Occidente sia in Oriente, ciò che potrebbe essere chiamato i segnali di una “terza guerra mondiale a pezzi”, segnali che, in varie parti del mondo e in diverse condizioni tragiche, hanno iniziato a mostrare il loro volto crudele; situazioni di cui non si conosce con precisione quante vittime, vedove e orfani abbiano prodotto. Inoltre, ci sono altre zone che si preparano a diventare teatro di nuovi conflitti, dove nascono focolai di tensione e si accumulano armi e munizioni, in una situazione mondiale dominata dall’incertezza, dalla delusione e dalla paura del futuro e controllata dagli interessi economici miopi».
La seconda via fu, ed è ancora, l’isolamento o quella dell’emarginazione. Oggi, però, questo sentiero non avrebbe più senso o, meglio, non è più praticabile, perché siamo nell’era della globalizzazione: viviamo gli uni accanto agli altri, sempre più vicini. Tuttavia, fuori e dentro la Chiesa alcune frange fondamentaliste di credenti vorrebbero conservarla per paura o per mero pregiudizio, in nome della difesa della propria identità cristiana, dimenticando, invece, che la nostra fede è dialogica, capace di accogliere e d’integrare le diversità. Di fatti, l’altro c’è, vive accanto a noi, e non è più il nostro nemico o un estraneo che possiamo mettere da parte con indifferenza. Per questa seconda via, l’altro c’è, lo straniero è ammesso, ma deve stare in disparte, lontano da me, dalla mia famiglia, dalla mia città, ai confini, fino a quando non si convertirà alla mia fede, alle mie tradizioni, perdendo così la sua identità: egli sarà altro solo temporaneamente, fino al completamento del suo processo identificativo nella mia cultura.
Di questa seconda via si può riconoscere un richiamo nella dichiarazione congiunta ove si fa riferimento all’importanza del risveglio del senso religioso e «della necessità di rianimarlo nei cuori delle nuove generazioni, tramite l’educazione sana e l’adesione ai valori morali e ai giusti insegnamenti religiosi, per fronteggiare le tendenze individualistiche, egoistiche, conflittuali, il radicalismo e l’estremismo cieco in tutte le sue forme e manifestazioni».
5. Imparare ad accogliere per creare nuovi legami di fraternità
In realtà, non sarà la tolleranza a salvare il mondo. Non sarà sufficiente neppure il riconoscimento della multiculturalità dei popoli e delle nazioni e delle comunità. Perché non ci sono più mondi isolati né arcipelaghi felici dove abitare: siamo gli uni accanto agli altri. Papa Francesco l’ha compreso molto bene e a noi tocca corrergli dietro con umiltà e fiducia, nel pieno riconoscimento della sua azione pastorale profetica e caritatevole. È necessario, perciò, seguire il principio dell’accoglienza e dell’incontro, dell’inculturazione e dell’integrazione. Principio che Francesco d’Assisi fece proprio, imitando in tutto, sine glossa, la logica dell’incarnazione, di un Dio che si fa uomo e assume tutto di noi, finanche il peccato e le fragilità, senza paure o riserve, ma con generosità, con quell’amore che copre tutto e salva!
Oggi, san Francesco ci direbbe che l’altro non può restare ai confini delle città, ai bordi delle periferie, come un rifiuto umano. Il Poverello è andato a cercare il sultano non curandosi dei consigli alternativi che vescovi e cardinali gli offrivano, quasi a dirci che il prossimo, se c’è, se vive accanto a noi, fa parte a pieno titolo della nostra città, di questo mondo, delle regioni e province e distretti da noi costruiti, ma anche dei nostri pensieri e delle nostre preoccupazioni. Francesco direbbe ancora una volta ai suoi frati, prima di Lévinas, e sull’esempio di Gesù Cristo, che la prossimità ci riguarda: siamo gli uni prossimi agli altri e degli altri. La prossimità è dentro di noi, ci abita da sempre, come pure l’Altro… Perché in qualche modo siamo tutti stranieri a noi stessi! È solo nell’incontro fraterno che si possono vincere paure, pregiudizi, e le nostre stesse estraneità, riconoscendosi reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri, con amore e dedizione.
È questo lo “spirito di Assisi”. È questa la grande “profezia della pace” che san Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e l’attuale pontefice hanno portato avanti, anche se con accenti diversi. L’attenzione agli ultimi, ai poveri, ai migranti, a quanti non hanno più neanche un minimo di vita e di dignità, ci riguarda sempre più da vicino. Non possiamo restare a guardare come spettatori inerti. È la globalizzazione nella carità, nell’essere solidali, riconoscendoci tutti fratelli e sorelle e figli e figlie di un solo Padre che è nei cieli, a renderci credibili, ossia testimoni della misericordia dell’unico Dio che è Padre di tutti. Così, anche se parliamo lingue diverse e professiamo fedi differenti, è l’amore fraterno a unirci!
La diversità di fede, di cultura, di stile di vita, nella dichiarazione congiunta è letta come risorsa, come dono della sapienza divina e, per questo, «si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano».
6. Le religioni a servizio degli ultimi
Nella dichiarazione congiunta firmata da papa Francesco e dal grande imam si fa costante riferimento all’aiuto concreto per i poveri, al sostegno reso agli ultimi. Si è convinti, giustamente, che la responsabilità dei credenti può fare molto per risollevare le sorti di quella parte dell’umanità che soffre ed è abbandonata a se stessa. Da qui «l’importanza del risveglio del senso religioso e della necessità di rianimarlo nei cuori delle nuove generazioni, tramite l’educazione sana e l’adesione ai valori morali e ai giusti insegnamenti religiosi, per fronteggiare le tendenze individualistiche, egoistiche, conflittuali, il radicalismo e l’estremismo cieco in tutte le sue forme e manifestazioni».
Nel documento è affermato con chiarezza che i veri insegnamenti delle religioni invitano a restare ancorati ai valori della pace, a sostenere i valori della reciproca conoscenza, «della fratellanza umana e della convivenza comune», come anche «a ristabilire la saggezza, la giustizia e la carità e a risvegliare il senso della religiosità tra i giovani, per difendere le nuove generazioni dal dominio del pensiero materialistico, dal pericolo delle politiche dell’avidità del guadagno smodato e dell’indifferenza, basate sulla legge della forza e non sulla forza della legge».
7. Il nostro modo di stare al mondo
Ci auguriamo che il viaggio di papa Francesco negli Emirati Arabi e la celebrazione dell’Ottavo centenario dello storico incontro tra Francesco e il sultano d’Egitto incidano concretamente nella vita delle Chiese e delle comunità musulmane. Non avrebbe senso, infatti, ridurre tali viaggi e incontri profetici a puri eventi di commemorazione e di strategia politica. In gioco ci sono la vita, la salute e il futuro di intere comunità oppresse dalla povertà, dalla fame, dalla violenza, dai fondamentalismi: l’impegno diplomatico può fare poca cosa per risollevare le sorti delle minoranze e di quella parte dell’umanità ferita dalla guerra e dalla schiavitù. Occorre l’impegno di tutti i credenti, di ogni comunità religiosa, a partire dagli stessi leader religiosi.
A noi tocca raccogliere la sfida del Poverello e di papa Francesco: fare del dialogo e dell’amicizia fraterna il nostro stile di vita, il concreto modo di stare al mondo con l’Altro e mai senza l’Altro. Si tratta di testimoniare ogni giorno, nelle parole (“dimmi come parli e ti dirò chi sei”) e nelle azioni (“prendiamoci per mano”), l’amore per il prossimo e provare a camminare assieme per costruire la fratellanza universale che è il sogno di Dio sulla Terra. Si tratta di essere non “uomini e donne d’onore” ma “uomini e donne d’amore” (papa Francesco). Ci sono ancora legami di fraternità da tessere nel mondo e da scoprire già nelle nostre piccole realtà. Papa Francesco lo ha ribadito in tantissime occasioni, invocando anche la reciprocità da parte di tutte le componenti in dialogo e da parte dei seguaci delle altre religioni. Non si possono costruire ponti tra gli uomini dimenticando Dio. In realtà vale il contrario: non si possono vivere legami veri con Dio ignorando gli altri (cf. il Discorso di papa Francesco al Corpo diplomatico del 22-3-2013).
Il viaggio di papa Francesca in terra musulmana e lo storico incontro tra Francesco d’Assisi e il sultano d’Egitto sono portatori di un augurio di fraternità «tra persone di ogni nazione e cultura», fraternità «tra persone di idee diverse, ma capaci di rispettarsi e di ascoltare l’altro», «fraternità tra persone di diverse religioni» (Francesco, Messaggio Urbi et orbi del 25-12-2018).
La vita, per ciascuno di noi, è una grande palestra di amore, un immenso laboratorio per costruire la pace e tessere nuovi legami di fraternità. Per questo, è necessario, e non solo auspicabile, che si moltiplichino in Italia e nel mondo, nelle Università, nei Centri accademici internazionali e nelle singole Chiese – come negli oratori e nei luoghi pubblici, nelle moschee e nelle sinagoghe, nei templi indù e buddisti, nelle scuole e nelle famiglie, in ogni centro non solo culturale –, laboratori per la pace. Abbiamo bisogno di luoghi adatti per la formazione al dialogo e all’amicizia, all’accoglienza e al rispetto di tutte le diversità e per il sostegno dei poveri. Il primo spazio formativo al dialogo è la famiglia che, nella dichiarazione congiunta, è intesa come «nucleo fondamentale della società e dell’umanità, per dare alla luce dei figli, allevarli, educarli, fornire loro una solida morale e la protezione familiare». È di fondamentale importanza, dunque, aiutare i giovani a parlare di dialogo, di rispetto delle diversità, incontrandosi anche nelle piazze o progettando forum per il dialogo e l’amicizia tra i popoli e le religioni, nella speranza di superare ogni sorta di sospetto e di razzismo, di bullismo e di violenza, di fanatismo e di estremismo, d’intolleranza e di chiusura.
Prendiamoci cura delle nuove generazioni affinché l’indifferenza e l’egoismo non trovino più stabile dimora in noi. Perché non siamo soli al mondo e tantomeno siamo delle isole all’interno di un più vasto mare di arcipelaghi religiosi e non, ma splendide creature che si accendono di luce e di vita tutte le volte che sanno amare gratuitamente, ossia completamente, prendendosi cura gli uni degli altri.
Edoardo Scognamiglio
Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale – Napoli
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