La misericordia e le religioni

La misericordia è un tema ricorrente in varie religioni. Mi soffermerò qui sul messaggio che proviene dall’ebraismo, dall’islam e dal buddhismo. Dalla tradizione ebraica emerge che secondo il piano divino esistono due facce di una stessa realtà: la giustizia, come severità e rigore e la misericordia, cioè l’amore (Rav Di Segni). Secondo i rabbini il primo progetto creativo del mondo era basato sulla giustizia, ma vedendo che il mondo non avrebbe potuto resistere, il Creatore optò per la misericordia unita alla giustizia, e ciò vale anche per le relazioni umane. Secondo la Bibbia ebraica e secondo il rabbinismo il Dio giusto è anche il Dio misericordioso (cf Es 34,6); l’esortazione “ama il tuo prossimo come te stesso”, ripresa da Gesù proviene dalla legge mosaica (cf Lv 19,18). Occorre fare una considerazione di tipo linguistico, poiché la misericordia si può rendere in ebraico con due termini distinti, rachamìm e chèsed; nel primo è più evidente la sfumatura della compassione, mentre nel secondo prevale il senso di (atti di) bontà. Un esempio dell’importanza di questa categoria per l’ebraismo: tra le confraternite del ghetto di Roma – rileva Ruth Dureghello (presidente della comunità ebraica di Roma), due contenevano nel proprio nome la parola chèsed tradotta come ‘misericordia’: Chèsed veEmèt e Tzedakàh vaChèsed, note anche con le rispettive denominazioni italiane di ‘Misericordia e verità’ e ‘Giustizia e misericordia’. Il termine misericordia (dal latino misèricors  da misèreo, ho pietà, e cor-cordis, cuore) ha affinità con la parola rachamìm, Rachùm, ‘Misericordioso’, “uno dei tredici attributi divini, racchiusi nella locuzione con cui il Signore si nomina davanti a Mosè sul monte Sinai; ‘Fammi vedere la Tua gloria’, aveva poco prima chiesto Mosè, e il Signore esaudisce subito la sua richiesta ma in modo sorprendente: ‘passa davanti a Mosè e gli rivela il suo Nome. Mosè non riceve nessuna visione, ma tutto gli è offerto all’ascolto” (Ruth Dureghello). Il Dio della Bibbia ebraica è Rachùm, è “il Dio misericordioso che perdona chi non ha obbedito alla sua legge. Nulla avrebbe senso nell’ebraismo senza il perdono”. In una delle più note preghiere per un funerale o per una ricorrenza funebre il Signore viene definito Malèh rachamìm; nella benedizione dopo il pasto e durante il servizio liturgico in sinagoga, ci si rivolge al Signore come haRachamàn, il Misericordioso, o Av harachamìm, Padre di misericordia. Il termine Rachamìm si usa sempre nella forma plurale, è etimologicamente e semanticamente connesso a rèchem, utero, che è l’organo flessibile, che ha la capacità di espandersi e restringersi, di generare, di accogliere e nutrire. La misericordia divina, infatti, dà vita, protegge e sostenta come il grembo di una madre: Hatishkàch ishàh ulàh merachèm ben-bitnàh (…), “è mai possibile che una donna dimentichi il suo bimbo sì da non amare il frutto del suo ventre?”chiede il profeta Isaia. “Pure, se anche le madri dimenticassero i loro figli, Io non ti dimenticherei” (Is 49,15). Rachamìm indica la qualità dell’amore materno, viscerale; e peraltro in tutto il Pentateuco si incontra una sola volta riferito a un essere umano, quando Giuseppe si commuove (rachamàv) nel rivedere il proprio fratello Beniamino, l’unico tra tutti i suoi undici fratelli a essere figlio non solo dello stesso padre, ma anche della stessa madre (Rachele) (cf Gn 43,30). Rachamìm è un attributo essenzialmente divino; infatti la creazione è il primo gesto di rachamìm, in ordine cronologico. Il Midràsh, interpretando le prime parole del Pentateuco (cf Gn 1, 1), narra che il Signore aveva creato e distrutto venticinque volte l’oggetto della sua creazione, e che i venticinque tentativi insoddisfacenti erano come inficiati da un’esitazione del Creatore seduto sul trono della giustizia; il ventiseiesimo tentativo fu quello definitivo, quando, senza abbandonare il trono della giustizia, il Signore sedette anche e contestualmente su quello della misericordia, rachamìm.
Nel Corano abbondano le citazioni della rahma, radice araba RHM , ebraico rahamīm, la misericordia;  ad esempio, 113 delle 114 sure coraniche, iniziano con la basmala (l’invocazione bismi-llā al-Rahmān al-rahīm, “Nel nome di Dio il Clemente, il Compassionevole” oppure “il Compassionevole, il Misericordioso”). Il musulmano devoto recita la basmala 5 volte nelle preghiere rituali giornaliere e in molte altre occasioni. Al-Rahmān nel Corano è riferito soltanto a Dio, in un certo periodo della predicazione coranica, accanto al nome Allāh: “Invocatelo con il nome di Dio (Allāh), oppure invocatelo con il nome di Clemente (al-Rahmān)” (17, 110). Dio è Rahmān per i benefici che dispensa all’uomo: è il Provvidente. Tali benefici si manifestano nella creazione (cf l’intera sura 55) e nell’invio di profeti ai popoli, alcuni recanti una Scrittura. Di Muhammad il Corano afferma “Noi ti abbiano inviato solo come misericordia per i mondi” (2, 107), come anche del “profeta” Gesù (19, 21-22). Nell’islam la misericordia divina non previene la conversione del peccatore, perché  Allāh ama piuttosto quelli che adempiono la legge. In Lui coesistono misericordia e ira: “In quel giorno il regno vero sarà del Clemente (Rahmān), un giorno terribile per chi non crede”. “La misericordia di Dio, in senso islamico, si comprende  – rileva A. Negri – alla luce della teologia coranica, per la quale amore e tenerezza sono attitudini creaturali di debolezza che non si addicono alla divinità, impassibile, onnipotente e trascendente e che, predicate di Dio, Lo renderebbero vulnerabile come la creatura. Pertanto il termine rahma esprime piuttosto l’idea di dono, di atto gratuito di bontà e benevolenza di Dio, Creatore generoso e Sovrano assoluto, a favore dell’uomo e del creato”. Rahīm è un aggettivo che qualifica l’agire sia di Dio sia degli uomini. L’azione di Dio è selettiva, abbraccia i veri credenti, i musulmani, “quelli che hanno creduto e agito bene (19, 96), “chi ha timore di Lui” (3, 76), “coloro che confidano in Lui” (3, 159). Per loro è il perdono e il paradiso: “Dio ha promesso perdono ed enorme ricompensa a quelli che credono e compiono azioni pure, mentre quelli che non credono e accusano di menzogna i Nostri segni sono i compagni della Geenna” (5, 9-10). Il Suo agire resta libero e arbitrario: “Egli perdona chi vuole e punisce chi vuole” (3, 129). Rahīm, come già rilevato, connota anche l’azione misericordiosa dell’uomo, più volte sollecitata nel Corano ed espressa in modo esemplare ed esauriente in un hadīth qudsī (un detto del Profeta che trasmette le parole di Dio stesso): “L’Inviato di Allāh (la Grazia e la Pace divine siano su di lui) ha detto: “Allāh il Giorno della Resurrezione dirà: ‘O figlio di Adamo, ero ammalato e non Mi hai visitato’; l’uomo dirà: ‘O Signore, e come avrei potuto visitarTi quando Tu sei il Signore delle creature?’ Egli dirà: ‘Non sapevi che il tale Mio servo era ammalato e non l’hai visitato? Non sapevi che se tu l’avessi visitato Mi avresti trovato presso di lui? O figlio di Adamo: ti ho chiesto da mangiare e non Mi hai dato da mangiare’; l’uomo dirà: ‘O Signore, e come avrei potuto darTi da mangiare quando Tu sei il Signore delle creature?’ Egli dirà: ‘Non sapevi che il tale Mio servo ti ha chiesto da mangiare, e non gli hai dato da mangiare? Non sapevi che se tu gli avessi dato da mangiare avresti trovato che ciò era per Me?’” (da Abū Hurayra).
Per il Buddhismo l’amore è una virtù fondamentale nelle sue pratiche, pur preferendo adoperare i termini di benevolenza (maitri in sanscrito e metta in pali) e compassione (karuna). Nell’antica fonte Itivuttaka (in pali significa ‘Così è stato detto’), si trova un magnifico inno di amore: “Nessuno dei mezzi atti ad acquistare merito religioso qui nel mondo, vale, o monaci, la sedicesima parte della benevolenza, redenzione del cuore. La benevolenza, redenzione del cuore, a tutti sovrasta e rifulge, sfolgora, brilla. / E come, o monaci, nessuna luce di stelle vale la sedicesima parte della luce lunare, ma la luce lunare soverchia quella degli astri e rifulge, sfolgora, brilla; così pure, o monaci, nessuno dei mezzi atti ad acquistare merito religioso qui nel mondo vale la sedicesima parte della benevolenza, redenzione del cuore.  / E come, o monaci, nell’ultimo mese della pioggia d’autunno, il cielo è limpido e senza nubi, si leva alto il sole nel cielo e dissipando l’oscurità che riempie l’aria rifulge, sfolgora, brilla; così pure, o monaci, nessuno dei mezzi atti ad acquistare merito religioso qui nel mondo vale la sedicesima parte della benevolenza, redenzione del cuore. / E come, o monaci, di notte verso l’alba la stella del mattino rifulge, sfolgora, brilla; così pure, o monaci, nessuno dei mezzi atti ad acquistare merito religioso qui nel mondo vale la sedicesima parte della benevolenza, redenzione del cuore”. La virtù della misericordia/compassione viene particolarmente inculcata dal Buddha ai monaci: “Tutti i monaci e le monache devono nutrire, non cuori corrotti ed empi, bensì cuori benevoli tali da non essere mai biasimati né umiliati in quel giorno”. Il monaco che dimora nella benevolenza (metta-viharin), secondo l’insegnamento del Buddha, raggiunge la via della pace, la calma dei Sankhara, la gioia. L’amore misericordioso e compassionevole, puro, è paragonato a quello della madre: “Come una madre difenderebbe con la vita il suo proprio figlio, il suo unico figlio, così sviluppi un animo illimitato di benevolenza nei riguardi di tutti gli esseri viventi. / Coltivi benevolenza ed animo illimitatamente benigno per tutto il mondo: in alto, in basso e in ogni altra direzione senza impedimento alcuno, amorevolmente con animo pacifico. / Che stia fermo o che cammini, che sieda o che giaccia, finché è desto, coltivi assiduamente questo sentimento di benevolenza. Tale disposizione d’animo è veramente sublime (brahma-vihara). L’amore secondo il buddhismo dev’essere illimitato e universale, cioè di massima intensità ed esteso non solo agli uomini ma anche a tutti gli esseri viventi: “A chi intento coltiva illimitata benevolenza (metta appamana) distruggendo le basi della rinascita sono tenui i legami di trasmigrazione. / E se colui il quale con animo puro dimostra benevolenza (mettayati) per un solo essere vivente acquista perciò del merito; un più grande merito acquista il santo compassionevole (anukampam) verso tutti i viventi.
Quei saggi sovrani i quali, conquistati popolosi territori, andarono in giro offrendo sacrifici, non ottennero la sedicesima parte di ciò che ottiene colui che ha l’animo intonato alla benevolenza (mettacitta) come lo splendore della luna supera quello di tutte le stelle insieme”. Il Buddha fu un esempio eminente di tale amore: “Con tutti io sono amico (sabbamitto), di tutti compagno, e con tutte le creature sono buono e compassionevole; io coltivo un cuore di benevolenza e la gioia mia è sempre nella benevolenza”. Egli si autodefinì “buon amico di tutti” (kalyanamitta)e di fatto fu amato e stimato come “il Compassionevole” (karunika), “il Misericordioso” (anukampin), “il Medico” (tikicchaka) e “il nostro Padre e Nonno” (pitu-ayyaka): “Budda, sei gran Saggio e Compassionevole”, “il Procuratore del supremo bene e il Misericordioso”, “Egli è il Vincitore che sa tutto e vede tutto, il Maestro infinitamente compassionevole e il Medico di tutto l’universo”.”Tu sei Padre dei nostri padri, o Sakka; nel Dharma mi sei Nonno, o Gotama“. Il Buddha rimproverò i bramani induisti  di aver dimenticato tra i mezzi di far del bene quello principale: la compassione (anukampa). L’eminente grado della virtù di benevolenza-compassione raggiunto dal Buddha fu testimoniato da Maha-Kasyapa, uno dei dieci discepoli del Buddha e il primo capo della comunità buddhista dopo la scomparsa del Fondatore, in occasione del funerale del Maestro. Egli , nel panegirico funebre, disse tra l’altro: “Egli (Buddha) fu compassionevole; /nessuno essere vivente fu mai ferito da colui /  che aveva come armatura la misericordia”.
di Lucia Antinucci
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

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