Nella Bibbia ebraica (Tanakh), la parola teshuvah si incontra raramente, mentre il verbo shuv (pentirsi) vi ricorre spesso. La Teshuvah (תשובה / ritorno), per l’ebraismo indica la conversione, il pentimento dei peccati, la riconciliazione con Dio, il ritorno al patto d’amore con Lui. L’uomo è consapevole della propria fragilità, delle proprie ripetute contraddizioni nel rapporto con il suo Amato sempre fedele, che è il suo Signore, e lo invoca affinchè gli sia concesso un cuore capace di amare: ““Purificami con issopo e sarò mondo; lavami e sarò più bianco della neve… Distogli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe. Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo” (Sal 50,9-12). Secondo il Talmud, il pentimento è stato tra le prime cose che Dio ha creato, prima ancora dell’universo fisico (Nedarim 39b).
Quando il Tempio di Gerusalemme era attivo, all’ebreo veniva richiesto di portare i vari sacrifici a seconda dei tipi di peccato. Sebbene i sacrifici fossero dovuti, la parte più essenziale era teshuvah e la persona che eseguiva il sacrificio doveva confessare i suoi peccati. Attualmente, con il Tempio distrutto, l’espiazione può tuttavia essere ancora concessa facendo teshuvah: “[…] Ma se ritornerete a Me, [allora] Io ‘ritornerò’ a voi […]; così è scritto: ‘Ritornate a Me, ed Io ritorno a voi’ (Malachia 3.7)” (Sefer haBahir 67). Per l’Israele biblico, durante lo Yom Kippur, il Sommo Sacerdote confessava i propri peccati e quelli di Israele sopra un capro: “Aronne poserà le mani sul capo del capro vivo, confesserà sopra di esso tutte le iniquità degli Israeliti, tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati e li riverserà sulla testa del capro; poi, per mano di un uomo incaricato di ciò, lo manderà via nel deserto” (Lv 16,21). Questo testo viene attualmente letto in sinagoga nel giorno di Yom Kippur.
Nelle Scritture Ebraiche (l’Antico Testamento) emerge non solo il pentimento personale, ma anche quello comunitario, che viene vissuto liturgicamente il giorno di Yom Kippur (Giorno dell’espiazione), giorno di digiuno, uno degli Yamim Noraim (‘Giorni terribili’ o meglio ‘Giorni di timore reverenziale’). Gli Yamim Noraim vanno da Rosh haShana a Yom Kippur, che sono rispettivamente i primi due giorni e l’ultimo giorno dei Dieci Giorni del Pentimento. In questo giorno gli ebrei fanno di tutto per assicurarsi di aver svolto teshuvah prima della fine della giornata. Durante i Giorni del Pentimento che precedono Yom Kippur gli ebrei recitano le Slichot, le preghiere penitenziali; per coloro che risiedono a Gerusalemme la preghiere vanno recitate presso il Muro Occidentale.
Secondo lo Shaarei Teshuva (‘Porte del Pentimento’), un’opera di Yonah ben Abraham Gerondi, se qualcuno commette un peccato, può essere perdonato se fa teshuvah, che comprende però diverse pratiche, come, ad esempio, agire in modo opposto al peccato commesso (invece di mentire bisogna dire la verità), comprendere la gravità del peccato, confessarlo, pregare per ottenere la purificazione, riparare il peccato (il ladro, ad esempio, deve restituire quanto ha rubato), astenersi dallo stesso peccato se la tentazione dovesse ripresentarsi. Nell’Ebraismo, la confessione (widduy) è una fase del processo di pentimento e di espiazione, durante il quale l’ebreo ammette di aver commesso un peccato di fronte a Dio. Nei peccati contro Dio, la confessione può avvenire senza altre persone presenti; la confessione per peccati commessi contro altri è invece permesso farla pubblicamente, e secondo Moshè Maimonide (XIII sec.) tale confessione pubblica è “immensamente lodevole”. Nella preghiera quotidiana ci sono le confessioni personali individuali. Con la confessione breve viene elencato un peccato per ogni lettera dell’alfabeto e con la confessione lunga ne vengono elencati due per lettera. La confessione breve viene detta come porzione del Tachanun (suppliche giornaliere) subito dopo la Amidah (preghiera in posizione eretta pluriquotidiana). Si recita in piedi e sottovoce, tranne che per Rosh Hashanah e Yom Kippur, quando invece è tradizione recitarla ad alta voce, secondo tale formula: “Abbiamo commesso colpa, abbiamo tradito, abbiamo rubato, abbiamo parlato falsamente…”), che si rifà a Dan 9,5-19: “[…] abbiamo peccato e abbiamo operato da malvagi e da empi, siamo stati ribelli, ci siamo allontanati dai tuoi comandamenti e dalle tue leggi”. La confessione lunga inizia per ogni rigo con la frase “Per il peccato che abbiamo commesso davanti a Te mediante …”.
La confessione del peccato di per sé non comporta il perdono immediato, ma costituisce il punto di partenza del percorso di purificazione per ottenere il perdono di Dio, perché l’ebreo manifesta in questo modo di riconoscere il proprio errore e di voler prevenire simili trasgressioni future. Il penitente deve dire esplicitamente: “Ho commesso tale peccato […] e mi dispiace”, senza tentare di razionalizzare la colpa o di cercare attenuanti. Ha scritto in merito Maimonide: “Come ci si confessa? Si deve dire: ‘Ti prego, o Dio! Ho volutamente peccato, ho peccato di lussuria e di sentimento, e ho peccato involontariamente. Ho commesso [… tale peccato …] e me ne dolgo, e mi vergogno delle mie azioni, e non potrò mai ricommettere un simile atto.’ Questa è l’essenza della confessione, e di tutti coloro che sono frequenti nel confessare frequentemente e danno grande valore a questa materia, sono veramente da lodare” (Mishneh Torah: “Hil. Teshuvah”, Cap. 1, Legge 2). Abraham Joshua Heschel ha rilevato che secondo “la tradizione ebraica, persino Dio stesso può rimettere solo i peccati commessi contro di Lui, e non quelli contro l’uomo”. Il vero pentimento richiede, infatti, che il penitente vada dalla parte lesa e corregga il peccato nel miglior modo possibile.
Secondo l’Ebraismo il processo di pentimento varia da penitente a penitente e da peccato a peccato. Un peccatore non abituale prova spesso il dolore del peccato più acutamente del peccatore abituale. Per il peccatore non abituale sarà meno difficile pentirsi, e avrà meno probabilità di ripetere il comportamento peccaminoso. Il caso del peccatore abituale, invece, è più complesso. Se il peccatore abituale riesce a provare rammarico per il suo peccato, tale rammarico da solo non basta, dato che chiaramente non si traduce in un cambiamento di comportamento. In merito a ciò Rabbi Nosson Scherman raccomanda di elaborare “un sistema personale sistema di ricompense e punizioni” e di evitare situazioni che potrebbero provocare tentazione verso il peccato di cui ci si pente. Il Talmud insegna: “Chi è il penitente il cui pentimento ascende fino al Trono di Gloria? – Colui che è provato ed emerge innocente” (Yoma 86b). Il Talmud insegna, inoltre, che “se uno si ammala ed è in pericolo di vita, deve ‘fare la confessione, poiché tutti coloro che sono condannati a morte si confessano.’” Il Trattato Masechet Semachot aggiunge che “quando qualcuno si avvicina alla morte, dobbiamo dirgli di confessarsi prima di morire, aggiungendo che da una parte esistono molti che si confessarono e non morirono, mentre dall’altra ci sono stati molti che non si confessarono e morirono, e ci sono anche molti che camminano per strada e si confessano; perché per merito della confessione tu vivrai”. Esiste una confessione in forma abbreviata per i malati che sono molto deboli, ed una forma più lunga. Il malato dopo deve recitare lo Shema Israel, enunciare l’accettazione dei Tredici principi di Fede, e deve donare denaro in carità.
Anche per l’ebraismo la confessione dev’essere unita a uno stile di vita nuova, che deve manifestare la sincera conversione. In questo modo si può ottenere il dono della misericordia di Dio che rinnova il cuore.
di Lucia Antinucci
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