La tragedia della Shoah ancora oggi pone forti interrogativi, sia dal punto di vista umano che religioso; chiama in causa la responsabilità dell’uomo come artefice del male assoluto ed anche il Mistero di Dio che ha permesso tutto ciò, in virtù del rispetto della libera scelta dell’uomo, con tutte le sue gravi conseguenze. Non tutti gli ebrei hanno reagito alla tragedia allo stesso modo: alcuni hanno perso la fede, altri l’hanno scoperta o rafforzata. Ci sono stati sopravvissuti che un po’ alla volta hanno potuto recuperare una vita normale; in altri è affiorata la follia e qualcuno si è suicidato. Desidero qui presentare brevemente la testimonianza di Elie Wiesel (1928-2016), sopravvissuto ad Auschwitz, giornalista, scrittore e premio nobel per la pace. Egli ha raccontato la sua drammatica esperienza, i suoi interrogativi, nell’opera La Notte (Giuntina 1986). Egli ha evidenziato che Auschwitz ha realizzato la morte dell’uomo, non soltanto il suo annientamento fisico, ma soprattutto quello psicologico e morale. Wiesel racconta che il primo violento impatto con il dramma fu la ‘deportazione’, dopo essere stato concentrato con gli altri ebrei nel ghetto di Sighet. Tutti pensavano illusoriamente che quello fosse il massimo della tragedia, che dopo sarebbero venuti giorni migliori, ed invece l’annientamento dell’identità umana era appena cominciato: “Pensavamo senza dubbio che non c’era sofferenza più grande nell’inferno di Dio che quella di restare lì seduti, sul selciato, fra i pacchi, in mezzo alla strada, sotto un sole incandescente, e che poi tutto sarebbe stato meglio in confronto a ciò” (p 23). Quando Elie cominciò a prendere coscienza del dramma che aveva fatto irruzione nella sua vita, della violenza fisica e morale a cui stava andando incontro, cominciò a nascere in lui l’odio verso gli artefici di tanto dolore: “È in quel momento che ho cominciato a odiarli, e il mio odio è l’unica cosa che ci lega ancora oggi”(p 23). Durante il viaggio verso la ‘morte’ i deportati vennero caricati, racconta Wiesel, in convogli di carri bestiame, soffrendo la mancanza d’aria, la sete, il caldo opprimente; non si potevano sdraiare per dormire e dovevano sedersi a turno. Una donna durante il viaggio cominciò a dare segni di follia. La situazione si fece esasperante a tal punto che, per farla stare zitta, cominciarono a colpirla violentemente. Già durante il viaggio di deportazione la tolleranza reciproca e la solidarietà cominciarono a franare, perché le leggi umane erano state del tutto annullate. I deportati, vivendo in una situazione disumana, cominciarono a diventare disumani tra di loro. Wiesel evidenzia che le sofferenze e le umiliazioni di Auschwitz avevano portato lui, come del resto anche gli altri deportati, a concentrare l’attenzione sulla propria sopravvivenza, che s’identificava con la misera razione di cibo quotidiano. Dell’umanità ormai non restava che la pura fisicità, il bisogno di fame e di sete: “Ormai non mi interessavo ad altro – egli scrive – che alla mia scodella quotidiana di zuppa, al mio pezzo di pane raffermo. Il pane, la zuppa: tutta la mia vita. Ero un corpo. Forse ancora meno: uno stomaco affamato. Soltanto lo stomaco sentiva il tempo passare”(p 56). La sopravvivenza s’identificava con la capacità di sopportazione: la forza per subire ogni maltrattamento, senza lasciarsi sfiorare dall’illusione di potersi ribellare a tutto ciò. Nella sua opera autobiografica Wiesel narra che un giorno venne colpito violentemente dal kapò Idek e un’operaia francese gli disse: “Morditi le labbra, fratellino… Non piangere. Conserva la tua collera e il tuo odio per un’altra volta, per dopo. Verrà un giorno, ma non ora… Aspetta. Stringi i denti e aspetta”(p 56). Il giovane Eliezer fu testimone delle gassazioni, delle cremazioni, anche di neonati, e delle impiccagioni. I condannati non piangevano “perché già da tempo questi corpi inariditi avevano dimenticato il sapore amaro delle lacrime” (p 65). Durante il viaggio, in seguito all’evacuazione del campo, chi non riusciva più a farcela, non sempre veniva abbattuto dalle SS, perché spesso veniva schiacciato dai suoi stessi compagni che, per non essere uccisi, non potevano interrompere la corsa. Man mano che la sofferenza diventava sempre più acuta, i deportati reagivano sempre più con la sopportazione passiva e diventavano impassibili anche ai bisogni naturali. L’agonia si radicava nel loro essere, a tal punto che non c’era neanche più il bisogno di lamentarsi: “Camminavo – scrive Wiesel – in un cimitero, fra corpi irrigiditi, fra tronchi di legno. Non un grido di sconforto né un lamento: soltanto un’agonia di massa, silenziosa. Nessuno chiedeva aiuto. Si moriva perché bisognava morire. Non si facevano difficoltà”(p 88). Quando i deportati arrivarono alla fine del loro viaggio, ruppero il silenzio del loro dolore, in modo collettivo, per cui dal treno si diffuse un unico rantolo di morte: “Improvvisamente un grido si alzò nel vagone, il grido di un animale ferito: qualcuno era appena morto. Altri, che si sentivano ugualmente sul punto di morire imitarono il suo grido, e le loro grida sembravano venire d’oltretomba. In poco tempo tutti gridavano. Pianti, gemiti, grida di disperazione lanciate attraverso il vento e la neve. Altri vagoni ne furono contagiati, e centinaia di grida si levarono contemporaneamente. Senza sapere contro chi, senza sapere perché: il rantolo di tutto un convoglio che sentiva avvicinarsi la fine” (p 100). A Buchenwald ebbe termine il viaggio di Wiesel. Egli non riuscì neppure a gustare la gioia della fine del tormento, perché la sua unica preoccupazione, come del resto anche dei suoi amici, fu quella di trovare del cibo. Eliezer non aveva neanche più la forza di soffrire per i suoi che non c’erano più. I ‘sopravvissuti’ erano tali solo apparentemente: tutto il loro essere era dolore e morte e l’unico meccanismo che li faceva muovere, come degli automi, era il bisogno di fame. I sopravvissuti erano deceduti inesorabilmente nella loro umanità. Wiesel esprime con vigore questo senso di morte totale alla fine del suo racconto autobiografico; quando riuscì finalmente a trovare la forza di guardarsi allo specchio, si rese conto della estraneità a se stesso: “Dal fondo dello specchio un cadavere mi contemplava. Il suo sguardo nei miei occhi non mi lascia più” (p 112). La Notte di Wiesel, anche se si conclude con l’accenno alla liberazione, rivela l’assenza di speranza nella vita futura, perché Auschwitz ha segnato l’avvento del nichilismo assoluto. Nel suo racconto autobiografico Eliezer rivela il radicarsi in lui di un senso di rivolta, non solo contro l’umanità omicida e crudele, ma anche contro lo stesso Dio, che è il Signore della storia. Elie, nel suo intimo, non poteva tollerare che venissero bruciati i corpi dei neonati: “Io mi pizzicai la faccia: ero ancora vivo? Ero sveglio? Non riuscivo a crederci. Com’era possibile che si bruciassero degli uomini, dei bambini, e che il mondo tacesse? No, tutto ciò non poteva essere vero. Un incubo… Presto mi sarei risvegliato di soprassalto, con il cuore in tumulto, e avrei trovato la mia stanza, i miei libri…” (p 38). La rivolta di Wiesel contro l’umanità è anche la rivolta contro Dio, perché Egli non interviene per cambiare la drammatica situazione. “Per la prima volta – egli dice – sentii la rivolta crescere in me. Perché dovevo santificare il Suo Nome? L’Eterno, il Signore dell’Universo, l’Eterno Onnipotente taceva: di cosa dovevo ringraziarlo?” (p 39). Wiesel contesta l’assenza di Dio, non di un Dio miracolistico, che fa a meno dell’uomo perché interviene sempre direttamente, ma del Dio immanente alla storia, che si rende presente attraverso l’azione dell’umanità. È l’assenza dell’umanità che porta Wiesel a parlare dell’assenza di Dio ed a scontrarsi, dolorosamente, con essa. L’immagine della ‘notte’ serve ad Elie per esprimere proprio il dramma dell’assenza di Dio. Si tratta di un’oscurità radicale, infinita, che penetra in tutta la sua esistenza: “Mai dimenticherò quella notte — dice Wiesel —, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata”(p 39). La notte radicale di cui parla Elie è l’esperienza del male assoluto, che rende l’umanità capace del proprio autoannientamento, del proprio incenerimento: “Mai dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto. Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre la mia Fede. Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto. Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai” (pp 39-40). Questa esperienza annientatrice, espressa poeticamente da Wiesel, ha determinato in lui un mutamento radicale, irreversibile, poiché non è stato più un uomo religioso che interroga pacatamente il suo Dio. Egli è diventato il giudice di Dio, colui che lo contesta con rabbia e con amarezza, perché ha dimostrato di essere venuto meno alla sua alleanza: “Ero divenuto del tutto un altro uomo – scrive Wiesel -. Lo studente del Talmud, il ragazzo che ero, si erano consumati nelle fiamme. Restava soltanto una sembianza. Una fiamma nera si era introdotta nella mia anima e l’aveva divorata” (p 42). Alcuni compagni di Elie, nonostante lo sconforto, continuarono a pregare, a parlare di Dio. Egli rifiutò tutto ciò e l’esperienza del male lo portò a rivedere la sua concezione di Dio: “Alcuni parlavano di Dio, delle sue vie misteriose, dei peccati del popolo ebraico e della liberazione futura. Io avevo smesso di pregare. Come capivo Giobbe! Non avevo negato la Sua esistenza, ma dubitavo della Sua giustizia assoluta” (p 49). La rivolta di Wiesel si riconfermò nel giorno di Rosh Hashanà, l’ultimo giorno dell’anno ‘maledetto’, in cui gli ebrei, annientati e torturati, continuarono a lodare il loro Dio: “Chi sei Tu, mio Dio, – pensavo con rabbia – scrive Wiesel – in confronto a questa folla addolorata che viene a gridarti la sua fede, la sua ira, la sua rivolta? Che significa la Tua grandezza, Signore dell’Universo, di fronte a tutta questa debolezza, di fronte a questa decomposizione, a questa putrefazione? Perché turbare ancora i loro spiriti malati, i loro corpi infermi?” (p 68). Gli ebrei benedicevano il nome dell’Eterno e Wiesel, provocatoriamente, ricordava a Dio che non ci sono le sue grandi opere da celebrare ad Auschwitz, ma soltanto opere di dolore e di morte ingiusta: “Ma perché, ma perché benedirlo? Tutte le mie fibre si rivoltavano. Per aver fatto bruciare migliaia di bambini nelle fosse? Per aver fatto funzionare sei crematori giorno e notte, anche di sabato e nei giorni di festa? Per aver creato nella sua grande potenza Auschwitz, Birkenau, Buna e tante altre fabbriche di morte? Come avrei potuto dirGli: Benedetto Tu sia o Signore dell’Universo, che ci hai eletto fra i popoli per venir torturati giorno e notte, per vedere i nostri padri, le nostre madri, i nostri fratelli finire al crematorio? Sia lodato il Tuo Santo Nome, Tu ci hai scelto per essere sgozzati sul Tuo altare?” (p 69). Posto inesorabilmente dinanzi al silenzio di Dio, Wiesel non ricerca pietistiche consolazioni, ma sceglie la sua solitudine radicale: “I miei occhi si erano aperti, ed ero solo al mondo, terribilmente solo, senza Dio, senza uomini, senza amore né pietà. Non ero nient’altro che cenere, ma mi sentivo più forte di quell’onnipotente, al quale avevo legato la mia vita così a lungo” (p 70). Con questo atteggiamento di ‘condanna’ dell’Altissimo, a causa della sua indifferenza, oppure addirittura del suo compiacimento per il dolore ingiusto degli ebrei, fa contrasto la considerazione di Wiesel circa la sofferenza di Dio in seguito all’impiccagione del pipel tredicenne, del piccolo servitore olandese amato da tutti, che aveva il volto di un angelo infelice. Dinanzi all’assurdità della morte del piccolo innocente, che agonizzò per più di mezz’ora, risuonò nel campo l’interrogativo sconcertante: “Dov’è dunque Dio? E io sentivo – egli scrive – in me una voce che gli rispondeva: Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca”(p 67). Wiesel, quindi, sembra aver intuito la risposta ai suoi interrogativi, alla sua polemica con Dio. Il Dio che è assente, il Dio che sembra contraddire la sua alleanza, è invece ancora una volta fedele alla sua immanenza (shekinah) nel suo popolo. Dio è ad Auschwitz con il suo popolo, per farsi gassare ed impiccare! La rivolta di Wiesel è, in effetti, il suo non voler accettare un tale paradosso, perché sconvolge la sua concezione classica di Dio. Wiesel, nell’oscurità più totale della sua notte radicale, percepisce la presenza della Luce che si nasconde fra le tenebre.
Lucia Antinucci
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