Cattolici e Protestanti a 500 anni dalla Riforma

Uno sguardo comune sull’oggi e sul domani
A Trento, dal 16 al 18 novembre, cattolici e protestanti
insieme hanno celebrato il convegno ecumenico annuale della CEI

 

Di tutto ciò che è stato il recente convegno a Trento si potrebbe essere tentati di scrivere in un solo momento. Gli arrivi, le aspettative, gli abbracci, gli occhi lucidi per l’emozione, le orecchie tese alle relazioni, alle riflessioni, i momenti di preghiera e di vita comune, i canti e poi i saluti, le promesse e le commosse partenze con bagagli ancor più carichi di nuove e rafforzate speranze. Ma qualsiasi tentativo di riassumere questo epocale evento in poche o molte righe, per offrire agli assenti un quadro d’insieme, risulterebbe velleitario. Forse perché è ancora troppo forte l’emozione o forse perché quei tre giorni di lavoro e di vita fraterna, di ecumenismo vissuto ancor prima di essere postulato, hanno provocato nei partecipanti la netta sensazione che a Trento si sia scritta una nuova e fondamentale pagina di storia, il cui valore è risuonato fin dalle prime battute nelle parole di monsignor Ambrogio Spreafico: «In questa città, dove nel ’500 abbiamo sancito la divisione, veniamo oggi per sancire l’unità».
Più saggio e certamente meno pretenzioso può essere, dunque, il voler condividere con chi non ha avuto la gioia di prendervi parte alcuni tratti salienti di questo grande incontro, nella consapevolezza che anche la cronaca e l’analisi più accurata possono restituire solo in minima parte la totalità di ciò che è stato.
Memorie. “Memorie” è stata una parola ricorrente, per diversi motivi, a partire dalla scelta del luogo. «Trento – ha dichiarato nei saluti d’apertura l’arcivescovo della città, monsignor Lauro Tisi – nell’immaginario collettivo viene percepita come il luogo del contrasto alla Riforma, della condanna a Lutero, della nascita ufficiale della divisione, dunque è particolarmente bello e significativo celebrare qui questo convegno».
A questa “memoria lontana” della Controriforma, a questa “memoria che divide”, si è affiancata una “memoria recente”, una “memoria che unisce” e che ha fornito un’altra parola-chiave dei lavori: commozione. «Siamo ancora tutti presi dalla commozione per quanto recentemente accaduto a Lund» ha dichiarato in apertura il pastore Luca Maria Negro, presidente della federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, riferendosi al recente viaggio apostolico di Papa Francesco in Svezia in occasione della commemorazione comune luterano-cattolica della Riforma.  Dichiarazione preceduta dai saluti di don Cristiano Bettega, direttore dell’ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo della CEI, che con grande commozione ha ricordato la professoressa Marianita Montresor, già presidente nazionale del SAE (segretariato attività ecumeniche), morta alla vigilia del convegno di Trento, come «una delle pietre miliari dell’ecumenismo in Italia, persona che ha incarnato l’ecumenismo e che ora sperimenta nella comunione del Dio-Trinità quella comunione tra i cristiani nella quale ha tanto creduto in vita».
Conoscenza. La necessità di una più profonda conoscenza reciproca, come indicato tra l’altro dal decreto conciliare Unitatis Redintegratio (UR 9), non solo è stata al centro della tavola rotonda tenuta nel primo giorno di lavori (dal titolo “Un tronco, molti rami. Dinamiche storiche e teologiche della Riforma”), moderata da Riccardo Burigana, docente del prestigioso istituto di studi ecumenici di Venezia, ma è stata anche un filo rosso che ha unito molti interventi nel corso delle diverse sessioni di lavoro. In molti, sia cattolici sia protestanti, hanno denunciato una scarsa sensibilità ecumenica in seno alle comunità, soprattutto da parte dei giovani preti e dei giovani pastori, come conseguenza di una scarsa formazione ecumenica nel percorso di studi. Da qui l’urgenza di intervenire con determinazione per arricchire i percorsi formativi delle facoltà teologiche e dei seminari dando ampio spazio agli studi ecumenici.
Nodi teologici. Se è vero com’è vero che l’ecumenismo non può essere confinato nei recinti delle discussioni tra teologi, è altresì vero che non può non nutrirsi di progressi nei dibattiti e confronti teologici. Lo sanno bene Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, e Fulvio Ferrario, decano della facoltà valdese di Roma, teologi di chiara fama animati da una speciale “parresia ecumenica”, che hanno condotto la sessione di lavoro dedicata proprio ai “Nodi teologici del dialogo ecumenico”. Non solo riflessioni ecclesiologiche, ma anche temi etici e prospettive sul ruolo delle donne nella Chiesa. Il tutto con la consapevolezza che nessuno ha intenzione di cancellare con un colpo di spugna le differenze, ma anche con il bruciante desiderio di riconciliare queste differenze per vivere pienamente da fratelli nell’unica Chiesa che è “comunione di differenze”.
Diakonìa. E se la teologia deve lavorare per sciogliere i nodi e “definire la riconciliazione”, c’è un ecumenismo vissuto che la accompagna in questo cammino e che molto spesso la precede. Ne è un esempio l’ecumenismo della carità, ovvero la diakonia ecumenica. Sono già molti, infatti, gli ambiti che vedono cristiani di diverse confessioni lavorare da fratelli, fianco a fianco, nelle opere di carità. Particolarmente significativa, a tal riguardo, è stata la sessione condotta da don Marco Gnavi della comunità di Sant’Egidio e dalla pastora valdese Maria Bonafede, corredata da video-reportage e testimonianze sul lavoro congiunto tra cattolici e protestanti nella creazione di corridoi umanitari in favore dei profughi.  
Concretezza. Testimonianze che hanno richiamato tutti alla necessità di concretezza, per far sì che questo incontro non si risolvesse in qualcosa di “bello ma episodico”, bensì  ponesse le basi per lavorare concretamente, a partire dal giorno seguente, alla creazione di una struttura “leggera, ma permanente” (una tavola o un sinodo ecc.) che sia già segno visibile dell’unità che viviamo.
«Ci siamo tenuti per mano con il sorriso – ha dichiarato nella sessione conclusiva Luca Negro – ma questo sorriso non ci ha impedito di guardarci negli occhi e parlarci con franchezza anche delle cose che ci dividono». «Non ce le siamo date di santa ragione – ha concluso don Cristiano Bettega – ma ce le siamo dette di santa ragione. Ci siamo positivamente provocati a vicenda, con grande onestà intellettuale, anche a rischio di turbare il clima di grande serenità nel quale abbiamo lavorato. E tutto ciò ci ha portati alla consapevolezza che ora non dobbiamo capire “se”, ma soltanto capire “come” le diversità tra noi possono rispettarsi ed amarsi vicendevolmente».

di Michele Giustiniano   

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