EDOARDO SCOGNAMIGLIO, Amate i vostri nemici.
Utopia dell’amore o follia della croce? Celebrare la misericordia Elledici, Torino 2015
In “Amate i vostri nemici” E. Scognamiglio, che è docente di Teologia dogmatica presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale e di Dialogo interreligioso islamo-cristiano presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma, affronta il tema della misericordia. Nel farlo non si limita a proporre una disamina di passi e testi dell’Antico e Nuovo Testamento, nonché della letteratura cristiana, ma si confronta anche con autori contemporanei, come il poeta libanese Khalil Gibran (di cui è uno dei massimi esperti), la scrittrice francese Muriel Barbery, il filosofo del linguaggio Tzvetan Todorov e la scrittrice olandese Etty Hillesum, vittima ad Auschwitz della shoah. Scognamiglio ci consegna, quindi, un saggio di teologia, che trae forza dal rilievo antropologico con cui i temi del male e della libertà sono trattati, scandagliando i recessi del cuore e delle intenzioni.
“Il male – scrive l’autore – non è una forza anonima che opera nel mondo in virtù di meccanismi deterministici e impersonali. No. Il male opera attraverso la libertà dell’uomo, in questo caso dei nostri nemici. Il male ha sempre un volto e un nome: lo sguardo e il vissuto di uomini e donne che liberamente lo scelgono. C’è una responsabilità morale dell’uomo nel momento in cui egli sceglie la via del male e della morte, ossia del peccato” (cf. 13). Su questo palcoscenico si profilano le diverse mozioni dell’odio e dell’amore, del risentimento e del perdono, della vendetta e della riconciliazione, fra esigenze di giustizia e mistero estremo del male che è dentro l’uomo.
Alla luce dell’esodo già Israele era giunto alla conclusione che la vera giustizia necessita di una più profonda dimensione, perché possa essere autentica. “Si tratta di quella dimensione verticale che va sotto il nome di misericordia” (cf. 24) Tuttavia, l’amore verso il prossimo nell’A.T. “è proposto entro l’orizzonte di una fede elettiva” (cf. 22), “dove il prossimo da amare è anzitutto il proprio fratello nella fede” (cf. 23). Nonostante i numerosi richiami che nella letteratura ebraica dilatano l’amore per il prossimo sino ad includere i più distanti, non vi si trova un comando esplicito riguardante l’amore per il nemico. Quindi, come ha scritto il teologo e storico ebreo Pinchas Lapide, l’imperativo “amate i vostri nemici è un lascito strettamente gesuaico” (cf. 25).
La proposta di Gesù invece scende in profondità. Il cuore della Torah non è la legge intesa come un insieme di precetti, ma l’amore. L’amore è il nocciolo della giustizia. Pertanto, “la giustizia dei discepoli dovrà essere superiore alla giustizia degli scribi e dei farisei; e consisterà in una sottomissione alla volontà di Dio che va oltre la mera osservanza della lettera della Legge” (cf. 37). Si tratterà “di coltivare nel cuore il desiderio di riconciliazione anche verso i propri avversari” (cf. 47), di guarire la memoria, per cui “non si resta vittime del ricordo indurito e ostinato, divenuto fissazione, non si resta in balia del risentimento, prigionieri dell’ombra lunga del male subìto, ostaggi del proprio passato” (cf. 151).
Il perdono presuppone una riconciliazione con se stessi, perché chi non si ama nemmeno può amare gli altri. Richiede, quindi, di instaurare la fiducia, al fine “di prendere in considerazione il lato serio della vita, ossia la responsabilità davanti all’altro. e al male, lavorando su se stessi, sulla propria dignità di persona fino a estirpare l’odio dal proprio cuore” (cf. 149).
La tappa ulteriore (che spesso resta irraggiungibile) è provare a comprendere le ragioni dell’offensore. E’ amare chi ci ha procurato dolore, chi ci ha portato offesa, chi ci ha fatto violenza; amarlo a prescindere, in modo del tutto gratuito, indipendentemente dai sentimenti che si possono provare e indipendentemente dal fatto che egli ci rimanga ostile, oltre ogni forma d’ipocrisia e di misura nell’amare. E’ questo qualcosa d’insolito, fuori del comune, di inumano quasi, ma “la strada del perdono si aprirà nella misura in cui vedremo il nostro carnefice come figlio di Dio e, quindi, fratello” (cf. 156). E si aprirà come unica risposta possibile al problema dell’uomo e della vita.
In questo mondo incapace di perdono tanto le vittime quanto i carnefici sono invischiati “nello stesso ingranaggio che li porta ad adeguarsi al male e alla violenza” ed in cui “l’amore rimane imprigionato” (cf. 132). Ma, nel momento in cui scegliamo di perdonare e di amare i nostri nemici, manifestiamo il rifiuto di farci trascinare in quella logica di rancore e vendetta. Nel groviglio di una storia, “fatta di male e di dolore, la fede offre un’altra lettura, una visione soprannaturale che riesce a intravedere attraverso il fallimento e il rischio della morte i segni della presenza del Signore!” (cf. 141). Il discepolo, a imitazione di Cristo, diventa allora capace di “irradiare nell’oscuro paese della violenza la luce dell’amore divino” (cf. 61).
Il perdono inaugura una via nuova. “Nel perdono, il male non ha l’ultima parola: la morte non vince sulla vita e la riconciliazione può sostituirsi alla fine della relazione. Il perdono ci fa entrare nella dinamica pasquale. La giustizia di Dio è il suo perdono” (cf. 152). “In questa prospettiva, – scrive Padre Scognamiglio nella conclusione del suo lavoro – l’ethos non indica solamente il comportamento o il costume, ossia la forma abituale dell’agire cristiano in relazione, bensì anche e soprattutto il modo di stare al mondo, di prendere dimora nella storia, di esistere in un luogo e in un tempo secondo i valori del Vangelo. Chi riesce a perdonare il nemico, finanche il proprio carnefice, libera l’amore che è nell’altro: il perdono, così, diventa un atto di redenzione a favore dell’altro!” (cf. 159). Solo l’amore rende credibili!
Urge diventare segno efficace dell’agire di Dio nella storia, testimoniando “non solo che nessuno può porre un limite all’amore di Dio che perdona, ma soprattutto che la misericordia – il perdono – rivela concretamente l’agire di Dio verso di noi” (cf. 149). La grande novità del Vangelo non è, infatti, tanto che Dio è sorgente di bontà, ma che gli esseri umani possono e devono agire a Sua immagine, per cui ciò che sarebbe impossibile agli uomini, l’amore dei nemici, testimonia nei cristiani l’attività di Dio nella storia e la loro figliolanza divina.
Pertanto, se l’utopia indica un “non luogo”, “la follia-stoltezza della croce diventa lo spazio concretissimo, tangibile, storicamente autentico e fattibile, in cui l’amore per Jhwh e per il prossimo si manifesta come esperienza possibile e totalizzante. È, appunto, “agire” (…) nell’amore, vivere cioè in maniera agapica, come l’Unigenito del Padre che è venuto nel mondo per rivelare il volto del Dio nascosto” (cf. 160). E’, qui che si rivela la finalità ultima del saggio, celata nel sottotitolo: celebrare la misericordia.
La misericordia non è un’utopia irrealizzabile, ma uno spazio concretissimo. Non significa rinuncia alla giustizia e alla verità, al diritto di essere risarciti o riconosciuti nel proprio dolore, ma è appello “alla forza stessa del Vangelo, all’amore di Gesù che diede la sua vita in riscatto per tutti” (cf. 152). Ed è l’unica risposta possibile risposta alla drammatica condizione di incertezza che caratterizza questi nostri tempi postmoderni. Perché noi “non possiamo pensare il nostro esistere come un essere gettati o come una decadenza” (cf. 140).
Il saggio evidenzia una grande capacità di sintesi, percepibile nell’abbondanza dei riferimenti biblici e di letteratura cristiana, nonché nelle citazioni, inserite in modo agevole ed organico all’interno della trattazione. E’ corredato di un notevole apparato di note, in cui spesso sono riassunti i risultati di complessi dibattiti storiografici con rapidità ed efficacia, nonché di un utile indice degli autori. Il linguaggio è descrittivo e scientifico, ma sa aumentare in intensità espressiva facendosi evocativo, laddove il pathos serva ad arricchire e ravvivare il concetto.
Clemente Sparaco
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