Il terrorismo, come ogni altro fondamentalismo – religioso e non –, è un’ideologia molto pericolosa che mette in pericolo la vita delle persone, fino a distruggere la dignità di un’intera comunità. La forza del terrorismo è data dal senso di onnipotenza che s’instilla nella mente e nel cuore dei terroristi nel momento in cui si riconoscono degli inviati prescelti per una missione unica e irripetibile, soprattutto se tale compito è affidato direttamente da Dio. È stato ripetuto più volte – per tante stragi, per lo stesso 11 settembre 2001 – che non si uccide nel nome di Dio e che agire contro la ragione vuol dire andare contro la dignità di ogni persona e la volontà stessa dell’Onnipotente. La strage di Parigi di venerdì 13 novembre, come anche l’attentato a Beirut del giorno precedente, insieme alle migliaia e migliaia di vittime in Iraq, Siria, Egitto e nel resto del mondo, ha creato un senso di angoscia e di smarrimento in tutti noi, nella società civile mondiale. È questo senso di smarrimento, di vuoto, di paura, di angoscia, di prostrazione e di sventura, di rassegnazione davanti al male – di passività – che noi tutti dobbiamo vincere impegnandoci a ogni livello a mettere in movimento il bene. Tanto si sa: il male si muove da solo e fa tanto rumore, il bene invece ha bisogno del nostro impegno per essere manifestato.
- La forza del terrorismo
È chiaro che la forza dei terroristi consiste nell’imprevedibilità dell’attentato che mette in subbuglio ogni sistema di sicurezza. Nasce da qui, certo, il bisogno di tutti gli Stati e delle Organizzazioni internazionali di migliorare ogni sistema di controllo e di verifica per tutelare la libertà e la vita stessa dei cittadini che hanno il diritto di continuare a vivere in tranquillità. Tuttavia, contro questa ideologia del male – perché il terrorismo è solo un’ideologia perpetrata nei secoli con i vari volti di Dio – occorre impegnarsi subito e pienamente per il dialogo, per la formazione all’incontro con l’altro, alla condivisione degli stessi spazi, favorendo una convivenza pacifica tra popoli, comunità interetniche e multireligiose. Il dialogo non solo interreligioso – ma come pedagogia di vita – è quanto mai necessario. Nelle nostre comunità, famiglie, scuole, parrocchie, come in ogni centro di aggregazione giovanile e culturale, è impellente la formazione alla pace, al superamento del male con il bene, al dialogo fraterno, cercando di non identificare tutto l’islam con la violenza e il terrorismo, e stimolando allo stesso tempo le comunità islamiche a prendere con coraggio la parola e a denunciare ogni sorta di violenza e di terrorismo. Ci sono ancora troppe stragi che avvengono nel nome di Dio. Questo vuol dire che la fede nell’ideologia e nel fondamentalismo prende il sopravvento sulla fede in Dio che è Clemente e Misericordioso, Onnipotente e Santo. Dobbiamo anche combattere quel senso di sfiducia e disperazione che subentra inconsciamente in noi tutte le volte che il male prende forma negli attentati terroristici e si manifesta anche grazie alla fin troppa attenzione che riceve dai mass-media.
- La risposta al male
La risposta al male, alla violenza, a ogni terrorismo, è data solo dall’amore, dalla volontà di continuare ad amare nonostante tutta la violenza sparsa per il mondo. Prendo queste mie parole da un brano che qui riporto in forma libera della grande filosofa e poetessa ebrea Simone Weil.
«Il grande enigma della vita umana non è la sofferenza, è la sventura» (Simone Weil). Non c’è da stupirsi che degli innocenti siano uccisi, torturati, cacciati dal proprio paese, ridotti in miseria o in schiavitù, chiusi nei campi di concentramento o in carcere, dal momento che esistono i criminali capaci di compiere tali azioni. Non c’è nemmeno da stupirsi che la malattia infligga lunghe sofferenze che paralizzano la vita e ne fanno un’immagine della morte, dal momento che la natura soggiace a un cieco gioco di necessità meccaniche. Ma c’è invece da stupirsi che Dio abbia dato alla sventura il potere di afferrare l’anima degli innocenti e di appropriarsene da padrona assoluta (cf. S. Weil, Attesa di Dio [1966], traduzione di O. Nemi, Rusconi, Milano 1972, 81-101).
2.1. Superare la sventura
Nel migliore dei casi, chi è segnato dal marchio della sventura riuscirà a salvaguardare solo metà della propria anima. Chi è stato raggiunto da uno di quei colpi che lasciano l’essere umano a terra, a contorcersi come un verme mezzo schiacciato, non è in grado di trovare le parole per esprimere quanto gli succede. Le persone che lo incontrano, pur avendo molto sofferto, se non hanno mai toccato con mano la vera sventura non possono comprendere ciò a cui si trovano di fronte. Essa è qualcosa di particolare, che non si può rapportare a null’altro, come in nessun modo si può dare a un sordomuto l’idea dei suoni. E coloro che sono stati mutilati dalla sventura non sono in condizioni di soccorrere nessuno; sono quasi persino incapaci di provarne il desiderio. Quindi, la compassione nei riguardi degli sventurati è cosa impossibile. Quando la cosa si verifica veramente, è un miracolo più sorprendente che camminare sulle acque, guarire gli infermi e persino risuscitare i morti. La sventura ha costretto Cristo a supplicare di essere risparmiato, a cercare conforto fra gli uomini, a credersi abbandonato dal Padre. La sventura ha costretto Giobbe a imprecare contro Dio che si fa gioco della sventura degli innocenti.
Nella sventura Dio è assente, più assente di un morto, più assente della luce di un sotterraneo completamente buio. Una specie di orrore sommerge completamente l’anima. Durante questa assenza non c’è nulla da amare. La cosa terribile è che, se in queste tenebre in cui non c’è nulla da amare l’anima cessa di amare, l’assenza di Dio diventa definitiva. Bisogna che l’anima continui ad amare a vuoto, o almeno a voler amare, sia pure con una parte infinitesimale di se stessa. Allora viene il giorno in cui Dio si mostra e le rivela la bellezza del mondo, come avvenne per Giobbe. Ma se l’anima cessa di amare, cade, già in questo mondo, in qualcosa che assomiglia molto all’inferno. La sventura uccide l’anima e porta alla disperazione perché imprime nell’uomo, come con un ferro rovente, quel disprezzo, quel disgusto e persino quella ripugnanza di se stessi, quel senso di colpa e di abiezione che dovrebbero essere la logica conseguenza del delitto, ma non lo sono mai.
2.2. Continuare ad amare
La risposta di Gesù, crocifisso e maledetto da Dio e dagli uomini, dinanzi al male e alla sventura, è di continuare ad amare nonostante tutto, sempre e fino in fondo, sino alla fine, versando l’ultima goccia di sangue. Gesù non è stato uno sventurato: perché ha continuato ad amare, a perdonare, a compatire, rimettendo tutto nelle mani del Padre. Non si può accettare l’esistenza della sventura se non considerandola come una distanza. Dio ha creato per amore e ai fini dell’amore e ama a tutte le distanze, anche mentre il Figlio è sulla croce. Ogni atto di violenza, qualsiasi azione disumana – guerre, soprusi, attentati – va combattuta con l’amore, con la forza di Cristo che sulla croce ha compatito con i derelitti del mondo e ogni giusto perseguitato e calunniato, ucciso e sfigurato nel volto e nell’anima. Dio ci ha creati come esseri capaci di amare a tutte le distanze possibili. Egli stesso, in Cristo, poiché nessuno poteva farlo, è andato alla distanza massima, alla distanza infinita. Questa distanza infinita fra Dio e Dio, strazio supremo, dolore che non ha pari, miracolo d’amore, è la crocifissione. Nulla può essere più lontano da Dio di ciò che è stato reso maledizione.
Il Crocifisso è l’unione suprema tra Dio e il mondo, tra la vita e la morte, tra la giustizia e il male, la grazia e il peccato. Così, gli uomini e le donne colpite dalla sventura – come le vittime dell’ultimo attentato a Parigi e a Beirut, ad Aleppo e Gerusalemme – sono ai piedi della croce, quasi alla massima distanza possibile da Dio. Non bisogna, però, credere che il peccato sia una distanza maggiore. Il peccato è una distanza. Il male è la distanza assoluta, un cattivo orientamento dello sguardo e delle nostre intenzioni. Per vincere questa distanza dobbiamo ricondurre i nostri sguardi e pensieri, azioni e gesti, a colui che hanno trafitto e posto sulla croce. Durante gli attacchi bruschi del male dobbiamo ancor di più mantenere gli occhi rivolti a Dio: perché la Provvidenza non è assente, ma opera in noi e con noi tutte le volte che pensiamo con fiducia e stiamo dalla parte del bene che non fa rumore e chiede il nostro contributo per muoversi, per accendersi e riscaldare i cuori sia degli innocenti che dei malfattori. Nonostante tutto, dobbiamo continuare ad amare, a confidare nel Signore, a condannare il male e la morte, la violenza e i soprusi, ma continuare a compatire, a donare la nostra vita per Cristo e per i fratelli… Il Crocifisso è la misura del nostro amore, ossia amare senza misura nonostante tutto, nonostante il male nel mondo. Bisogna convincersi che l’amore è un orientamento e non uno stato d’animo. San Paolo pensava forse a cose di questo genere quando diceva: «Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nell’amore, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,17-19).
Edoardo Scognamiglio
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