Le riunioni liceali e la ricetta del PD

Le riunioni liceali e la ricetta del PD

di Michele Giustiniano

Frequentare il liceo classico più duro della provincia comporta molti sacrifici (le ore di studio diurno e notturno non si riescono a contare), svariate rinunce (le partite infrasettimanali di calcetto con gli amici, lo shopping e altri svaghi, durante l’anno scolastico sono un lusso più unico che raro), infinite disillusioni future (il “riso amaro” che si dipinge sul volto e nell’anima, dopo la laurea col massimo dei voti, mentre ti barcameni nel precariato e ti ritorna in mente quella frase che ripetevano sempre il preside e i professori: «voi siete la classe dirigente del futuro prossimo»), ma anche diversi vantaggi (dopo la maturità si può affrontare qualsivoglia studio universitario, macinando esami, con le lodi che fioccano più della neve a Cortina in pieno febbraio) e qualche privilegio. È proprio così. O almeno così è stato per la mia generazione.

I privilegi, a dir il vero, per chi ha una formazione solida, in questi nostri tempi «liquidi» sono ben pochi, ma talvolta forieri di notevoli soddisfazioni intellettuali. Uno di questi sta nella possibilità di confrontarsi con i compagni di studio d’un tempo, gli amici di sempre, quei fratelli che hai acquisito a 13 anni circa e che con te hanno condiviso lunghi anni di sofferenze, trepidazioni e gioie.

In un certo senso, per quanto diversissimo, ciascuno di loro è come te. Ciascuno di loro è te. Tra loro c’è il giurista, il medico, il biologo, il giornalista, il filosofo, il bioeticista, l’economista. Ma quel comune denominatore culturale che ha temprato gli anni della meglio gioventù garantisce alla riflessione di ognuno quel quid pluris che fa la differenza.

Con loro puoi parlare di scienza, di fede, di arte, di politica, di storia, di viaggi, di cibo, di vini, di sesso. E si può essere in disaccordo su tutto, ma il privilegio consiste proprio in questo: quel comune denominatore ti garantisce che la discussione non approderà mai a nulla di scontato, di banale, di retorico, di fine a se stesso.

È accaduto così qualche giorno fa, al compleanno dell’avvocato del gruppo, quando la biologa del gruppo ha raccontato una sua recente delusione dopo una storia di impegno politico disinteressato e sincero nel centrosinistra, e il filosofo marxista del gruppo ha sentenziato: «il Partito Democratico di Renzi è un cocktail…e la ricetta è questa: la struttura gerarchica e burocratica del vecchio PCI, il radicamento sul territorio della Democrazia Cristiana, la spregiudicatezza affaristica del peggior PSI e una spruzzata della Milano da bere».

La disamina era secca, perfetta, non faceva acqua da nessuna parte. Ascoltando queste parole, mi son ritrovato a pensare per l’ennesima volta che riflessioni del genere valgano tutte le notti passate insonni a divorar pagine.

Ma dopo la dolcezza provata nel gustare le capacità analitiche dell’amico filosofo, è giunta al palato tutta l’amarezza di quel cocktail: gli italiani bevono sempre le stesse cose. Sotto la luccicante etichetta del nuovo che avanza si celano i soliti intrugli. Possono cambiare le dosi, il colore, la scorzetta d’agrume decorativa e leggermente anche il sapore. Il bicchiere può avere una forma nuova, un nuovo ombrellino (magari in versione 4.0) e la fettina di un nuovo frutto esotico da fotografare e magari postare immediatamente su twitter. Ma gli ingredienti dei cocktail che mandiamo giù son sempre quelli….da decenni.

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