Appunti del prof. Edoardo Scognamiglio, Ofm Conv.
Si può ritenere per vero, senza sbagliare, che gli studi di genere o Gender studies, come sono chiamati nel mondo anglosassone, rappresentano un approccio multidisciplinare e interdisciplinare allo studio dei significati socio-culturali della sessualità e dell’identità di genere. Nati in Nord America a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, nell’ambito degli studi culturali, si diffondono in Europa Occidentale negli anni Ottanta. Si sviluppano a partire da un certo filone del pensiero femminista e trovano spunti fondamentali nel post-strutturalismo e de-costruzionismo francese (soprattutto Michel Foucault e Jacques Derrida), negli studi che uniscono psicologia e linguaggio (Jacques Lacan e, in una prospettiva post-lacaniana, Julia Kristeva). D’importanza specifica per gli studi di genere sono anche gli studi gay e lesbici e il post-modernismo.
Questi studi non costituiscono un campo di sapere a sé stante, ma rappresentano, innanzitutto, una modalità d’interpretazione. Sono il risultato di un incrocio di metodologie differenti che abbracciano diversi aspetti della vita umana, della produzione delle identità e del rapporto tra individuo e società, tra persona e cultura. Per questo motivo, una lettura gender sensitive, attenta agli aspetti di genere, è applicabile a pressoché qualunque branca delle scienze umane, sociali, psicologiche e letterarie, dalla sociologia alle scienze etnoantropologiche, alla letteratura, alla teologia, alla politica, alla demografia ecc.
Soprattutto ai loro inizi, ma in parte anche oggigiorno, gli studi di genere sono caratterizzati da un’impronta politica ed emancipativa. Sono, infatti, strettamente connessi alla condizione femminile e a quella di soggetti minoritari. Non si limitano, quindi, a proporre teorie e applicarle all’analisi della cultura, ma mirano anche a realizzare cambiamenti in ambito della mentalità e della società. Sono strettamente legati ai movimenti di emancipazione femminile, omosessuale e delle minoranze etniche e linguistiche e, spesso, si occupano di problematiche connesse a oppressione razziale ed etnica, sviluppo delle società post-coloniali e globalizzazione.
Tradizionalmente, gli individui sono divisi in uomini e donne sulla base delle loro differenze biologiche. Nel sentire comune, infatti, il sesso e il genere costituiscono un tutt’uno. Gli studi di genere propongono, invece, una suddivisione, sul piano teorico-concettuale, tra questi due aspetti dell’identità:
– il sesso (sex) costituisce un corredo genetico, un insieme di caratteri biologici, fisici e anatomici che producono un binarismo maschio/femmina;
– il genere (gender) rappresenta una costruzione culturale, la rappresentazione, definizione e incentivazione di comportamenti che rivestono il corredo biologico e danno vita allo status di uomo/donna.
1. I ruoli di genere
Sesso e genere non costituiscono due dimensioni contrapposte ma interdipendenti: sui caratteri biologici s’innesca il processo di produzione delle identità di genere. Traducono le due dimensioni dell’essere uomo e donna. Il genere è un prodotto della cultura umana e il frutto di un persistente rinforzo sociale e culturale delle identità: è creato quotidianamente attraverso una serie di interazioni che tendono a definire le differenze tra uomini e donne. A livello sociale è necessario testimoniare continuamente la propria appartenenza di genere attraverso il comportamento, il linguaggio, il ruolo sociale. Si parla a questo proposito di ruoli di genere. In sostanza, il genere è un carattere appreso e non innato. Maschi e femmine si nasce, uomini e donne si diventa.
Il rapporto tra sesso e genere varia a seconda delle aree geografiche, dei periodi storici, delle culture di appartenenza. I concetti di maschilità e femminilità sono concetti dinamici che devono essere storicizzati e contestualizzati. Ogni società definisce quali valori additare alle varie identità di genere, in cosa consiste essere uomo o donna. Maschilità e femminilità sono quindi concetti relativi.
1.1. Gli inizi della teoria
La prima formulazione del concetto di genere nell’accezione utilizzata da questo tipo di studi venne formulata dall’antropologa Gayle Rubin nel suo The Traffic in Women (Lo scambio delle donne) del 1975. La studiosa parla di un sex-gender system in cui il dato biologico è trasformato in un sistema binario asimmetrico in cui il maschile occupa una posizione privilegiata rispetto al femminile, al quale è legato da strette connessioni da cui entrambi ne derivano una reciproca definizione.
La letteratura scientifica in ambito psicologico non definisce il genere in termini certi e assoluti. Sebbene si sia scritto molto sull’argomento, esplorando le differenze fra maschile e femminile, pochi esplorano in pratica le cause che oggettivamente producono tali differenze.
Il dibattito sulla importanza relativa che ricopre il contrasto natura/ambiente sembra destinato a rimanere senza soluzioni a breve; la considerazione di come i fattori genetici o culturali/ambientali possano influenzare lo sviluppo acquista ancora maggiore importanza alla luce delle moderne istanze di rivalutazione del ruolo della donna.
In generale, la ricerca del settore evidenzia come la personalità e le differenze di comportamento siano da attribuire ad apprendimento e condizionamenti o a modelli e imitazione piuttosto che a fattori puramente biologici, sebbene ancora oggi una parte non trascurabile delle ricerche si concentri sul tentativo di individuare differenze nelle dimensioni e nella struttura del cervello che potrebbero condizionarne le funzionalità.
Si è comunque notato che l’ambiente in cui si sviluppa l’esperienza del soggetto ricopre una maggiore importanza rispetto ai fattori genetici per lo sviluppo della personalità (al quale non fanno eccezione alcune malattie legate a ben documentati fattori genetici come il disordine bipolare, alcune forme di ritardo mentale come la sindrome di Down, la schizofrenia).
1.2. Gli sviluppi della teoria
Judith Butler (Cleveland, 24 febbraio 1956) è una filosofa post-strutturalista statunitense. Si occupa di filosofia politica, etica, teoria letteraria, femminismo e Queer Theory. Dal 1993 insegna al Dipartimento di retorica e letterature comparate all’Università di Berkeley, dove dirige il programma di Critical Theory. Tiene lezioni all’European Graduate School.
Le sue opere più note, Gender Trouble e Bodies That Matter, ridiscutono la nozione di genere e sviluppano la sua teoria della performatività di genere che oggi ha un ruolo di primo piano nella riflessione femminista e queer. È un’attivista del movimento per i diritti degli omosessuali e interviene pubblicamente su temi di politica contemporanea. In particolare, critica la politica israeliana e il suo effetto sul conflitto israelo-palestinese, sottolineando come Israele non rappresenti tutti gli ebrei o tutta l’opinione ebraica.
Butler inizia a sviluppare il tema della performatività di genere nel saggio Performative Acts and Gender Constitution (1988), dove analizza l’idea freudiana dell’identità personale modellata in termini di normalità. Butler contesta l’affermazione di Freud secondo cui la lesbica deriverebbe il proprio comportamento dal modello maschile, percepito come norma. Butler si oppone all’innatismo di genere e argomenta in favore della performatività di genere: la performance di genere crea il genere.
Con Gender Trouble (1990), Butler esamina le opere di Simone de Beauvoir, Julia Kristeva, Sigmund Freud, Jacques Lacan, Luce Irigaray, Monique Wittig, Jacques Derrida e Michel Foucault, argomentando che la coerenza delle categorie sessuali, per esempio l’apparente normalità del genere maschile, sono il costrutto culturale della ripetizione nel tempo di atti corporei stilizzati. Questi atti corporei stilizzati, con la loro ripetizione, creano l’apparenza ontologica del genere. In questo senso, Butler teorizza che il genere, il sesso e la sessualità sono performativi. Butler, seguendo la lezione di Foucault, sostiene che la costruzione del soggetto sessuato, desiderante, non sia una scelta, ma una conseguenza del discorso disciplinario. L’apparente ovvietà del sesso come fatto biologico naturale dimostra, secondo Butler, quanto profondamente sia nascosta, nel discorso, la sua produzione. Allo stesso modo sono costruiti come naturali la dualità sessuale e l’eterosessualità. Butler sostiene che senza una critica del sesso come prodotto del discorso, la distinzione sesso/genere come strategia femminista per contestare l’asimmetria di genere è inefficace. Butler sostiene che il femminismo abbia commesso un errore nel trattare le donne come un gruppo astorico dalle caratteristiche comuni, in quanto tale approccio rinforza la visione binaria delle relazioni di genere. Secondo Butler, le femministe dovrebbero analizzare come il potere determini la comprensione del genere femminile non solo nella società, ma all’interno del movimento femminista stesso.
In Bodies That Matter (1993), Butler, ricorrendo alla nozione di iteratività sviluppata da Derrida, sottolinea il ruolo svolto, nella performatività, dalla ripetizione. È l’iteratività a rendere possibile la costruzione del soggetto sessuato come “naturale”. Censura e discorso dell’odio sono al centro della riflessione di Excitable Speeches (1997). Butler ritiene che la censura, benché in alcuni casi sia peggio della tolleranza, in altri possa essere necessaria. Butler considera la censura un effetto del potere statale e, riprendendo una tesi di Lacan, una condizione primordiale del linguaggio e del discorso: l’Io linguistico come effetto di una censura originaria. Pertanto, secondo Butler, un vero discorso di opposizione è impossibile, dato che il principio cui si oppone, la censura, è allo stesso tempo il principio che fonda il discorso di opposizione.
Butler teorizza inoltre che il discorso dell’odio esista retrospettivamente, dopo essere stato dichiarato tale dall’autorità. In questo modo, lo Stato riserva a sé il potere di definire i limiti del discorso accettabile. Perciò Butler critica le tesi anti-pornografiche della teorica femminista Catharine MacKinnon, in quanto non mettono in discussione il potere censorio dello Stato. Inoltre, poiché il discorso dell’odio dipende dal contesto, Butler dubita dell’efficacia della censura e sottolinea le difficoltà di un’identificazione sistematica del discorso dell’odio.
Undoing Gender (2004), una raccolta di saggi divulgativi su sesso, genere e psicanalisi, affronta fra gli altri il tema del desiderio in quanto prodotto delle norme sociali. Analizza inoltre il caso di David Reimer, il cui sesso fu riassegnato da maschio a femmina dopo una circoncisione maldestra subita a 8 mesi d’età.
In Giving an Account of Oneself (2005), Butler sviluppa un’etica basata sull’opacità del soggetto a se stesso. Ispirandosi al pensiero di Theodor Adorno, Michel Foucault, Friedrich Nietzsche, Jean Laplanche, Adriana Cavarero e Emmanuel Levinas, Butler teorizza che la formazione del soggetto è sociale, relativa a una comunità di altri e alle sue norme, che sono all’origine del suo “io” grammaticale. L’opacità del soggetto a se stesso lo rende, pertanto, non pienamente responsabile delle sue azioni. Butler teorizza dunque un’etica in cui il sé responsabile riconosca i limiti della propria capacità di rendere conto di se stesso agli altri e rispetti questi limiti in quanto intrinsecamente umani. La società in cui uno diventa umano è ciò che il soggetto non può sapere di se stesso. In tal modo, Butler situa la critica sociale e politica al centro della pratica etica.
1.3. La Queer Theory
Queer è un termine della lingua inglese che tradizionalmente significava “eccentrico”, “insolito”. Il termine a sua volta deriva dal tedesco quer che significa “di traverso, diagonalmente”.
L’uso del termine nel corso XX secolo ha subìto diversi e profondi cambiamenti e il suo uso è tuttora controverso, assumendo diversi significati all’interno di diverse comunità. In italiano si usa per indicare quelle persone il cui orientamento sessuale e/o identità di genere differisce da quello strettamente eterosessuale: un termine-ombrello, si potrebbe dire, per persone gay (omosessuali), lesbiche, bisessuali, transessuali, transgender e/o intersessuati. Non è un sinonimo di LGBT (Lesbian Gay Bisex Transgender) o gaylesbico. Il termine queer nasce anche (e soprattutto) in contrapposizione agli stereotipi diffusisi nell’ambiente gay.
Il termine si scrive spesso con lettera maiuscola quando fa riferimento a un’identità o comunità, piuttosto che a un semplice fatto sessuale. Tra le persone omosessuali, la maggior parte si definisce gay o lesbica piuttosto che queer. Queer è più che altro un termine politico, spesso usato da coloro che sono politicamente attivi, da chi rifiuta con forza le tradizionali identità di genere, da chi rifiuta le categorie dell’orientamento sessuale come gay, lesbica, bisessuale ed eterosessuale, da chi si rappresenta e percepisce come oppresso dall’etero-normatività prevalente nella cultura e nella società o dalle persone eterosessuali le cui preferenze sessuali le rendono una minoranza.
Molte persone, comunque, s’identificano primariamente come queer piuttosto che come gay, lesbiche, bisessuali, trans o intersessuati. Alcune ritengono e sentono che le etichette non descrivano adeguatamente le loro identità, preferenze e orientamento sessuale. Molte persone ritengono che, usare il termine-ombrello queer, sia un modo positivo per riappropriarsi di un termine che in passato era usato contro di loro, spogliando quindi la parola del suo potere offensivo. Tale uso sta diventando sempre più comune tra i giovani. Di rado è scritto con lettera maiuscola.
Alcune persone queer s’identificano come tali perché sentono che ciò li aiuta, li potenzia nell’essere se stesse a un livello e in un modo che va oltre le rigide limitazioni della tradizionale interpretazione binaria dell’orientamento sessuale (omo/etero/bi-sessuale) e dell’identità di genere (maschio/femmina). Per loro, essere queer significa buttare fuori dalla finestra tali etichette e le aspettative ad esse legate per abbracciare il fatto che la loro sessualità (identità, orientamento, scelta o preferenza che sia) è semplicemente diversa dalla norma in uno o più modi. Storicamente, il termine era un epiteto affibbiato in Inghilterra alle persone gay come offesa. Dal momento che il termine ha avuto origine, e talvolta persiste, come insulto omofobo, e dal momento che un altro significato comune del termine è “strano”, alcuni membri delle minoranze gay non vedono di buon occhio il suo uso, per lo meno nel mondo anglofono.
Il termine si attesta nell’uso comune durante gli anni novanta, quando viene reso popolare dal gruppo di attivisti inglesi Queer Nation. Lo si trova, comunque, nella lingua inglese con l’uso di “bizzarro”, “strambo” già nel XIX secolo. Negli anni Settanta del secolo scorso, in Inghilterra, è equivalente all’italiano “frocio”, ma in Italia passa, proprio a partire da quegli anni, senza la connotazione negativa dell’equivalente italiano. Il passaggio si realizza, infatti, proprio lungo quelle correnti di pensiero che propongono una riappropriazione del termine.
In Italia, il termine queer identifica anche il supplemento libri domenicale allegato al quotidiano Liberazione fino alla sua chiusura e successivamente l’inserto culturale del settimanale Altri, ambedue diretti dal medesimo direttore Piero Sansonetti, che hanno preso appunto il nome di Queer, intendendo proprio connotare, provocatoriamente, la propria diversità di vedute nel panorama culturale italiano.
2. La strategia del Gender
La teoria del Gender sta entrando nelle scuole. Di fatti, nel 2014, in Italia, è partita la Strategia nazionale per combattere le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere. Il titolo di questa azione, voluta dal Governo italiano tramite il Dipartimento per le pari opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri, è piuttosto lungo e complesso (www.pariopportunita.gov.it e www.unar.it). Dietro una terminologia asettica, quasi avvocatesca, c’è una visione antropologica secondo la quale è finito il tempo in cui l’umanità si divide naturalmente in due sessi: i maschi e le femmine, gli uomini e le donne. La visione “gender”, su cui si fonda la “strategia” italiana, dice invece un’altra cosa: in realtà ciò che conta non è il sesso biologico e la relativa azione educativa che normalmente si riceve in famiglia, e poi nella scuola, in parrocchia o altrove. Tutto questo sarebbe superato da una nuova auto-consapevolezza di maschi e femmine che potrebbero scoprire di voler essere femmine in un corpo maschile, o maschi in un corpo femminile, o omosessuali o lesbiche o bisessuali o altro ancora.
Invocando una libertà assoluta di diventare ciò che si desidera essere, qualsiasi ostacolo o condizionamento o concezione culturale che proponga un altro percorso educativo, anche semplicemente quello naturale di maschio o femmina, è considerato sbagliato e addirittura “discriminatorio”. La “strategia” in questione si propone, quindi, di agire nella società, con modalità precise, perché nessuno in famiglia, nella scuola, nei mass media, in chiesa, si “permetta” di proporre concezioni educative che dissentano da modelli “gender”.
La “Strategia” è stata affidata solo a 29 associazioni Lgbt. Vediamo cosa dice il documento governativo sulla “strategia” per combattere tali presunte discriminazioni. Anzitutto si è individuato il campo di analisi della situazione italiana, istituendo un “Gruppo nazionale di lavoro Lgbt”, acronimo che significa “lesbiche, gay, bisex e transgender”. Il Governo precedente (Monti) ha radunato nel “gruppo nazionale” 29 associazioni di settore (es. Arcigay, Arcilesbica), non facendo sapere nulla di questa operazione se non a cose fatte, provocando di fatto l’esclusione di numerose altre associazioni e realtà educative che potevano dare un prezioso contributo nella riflessione su cosa significhi oggi la “discriminazione” su base sessuale. Il primo punto affrontato è consistito nell’indagine statistica su come gli italiani concepiscano le discriminazioni verso “la comunità omosessuale”. I risultati emersi darebbero un quadro di accettazione e tolleranza (60%) verso le relazioni omosessuali anche se poi solo il 43,9% sarebbe favorevole ai matrimoni gay e il 20% all’adozione da parte di coppie omosessuali. A partire da questi dati, le “Pari Opportunità” hanno iniziato a finanziare campagne nazionali di comunicazione contro l’omofobia, l’ultima col titolo perentorio: “E non c’è niente da dire. Sì alle differenze. No all’omofobia”. Ovviamente siamo tutti d’accordo sul non odiare i gay, ma se qualcuno pensasse che l’omosessualità non è un “bene”? Oppure la considerasse una forma di “disordine” del comportamento? Sarebbe per queste opinioni, di per stesse opinabili, perseguibile?
È forte il rischio di forte pressione culturale. Proseguendo nell’azione, le “Pari Opportunità” hanno siglato un accordo col ministero dell’Istruzione, dando vita a una estensione della “Settimana contro la violenza” nelle scuole (avviata dal 2009) che, dal 2013, ha ampliato la sua sfera di azione alle diverse forme di discriminazione sessuale e di “genere”. Se al suo interno c’è un obiettivo valido, quello di combattere il “bullismo”, che a volte si scatena nei confronti di qualche giovane gay o lesbica (si parla di 140 casi nel 2012), in realtà lo scopo è quello di compiere una forte pressione culturale per far passare la visione “gender”. Ciò è tanto più comprovato dal fatto che il testo governativo parla di appena il 24% di omosessuali italiani che hanno dichiarato di aver subito discriminazioni a scuola, mentre secondo un’indagine Ilga Europe (International Lesbian Gay Association, l’associazione super-sponsorizzata da parte degli organismi comunitari che “detta” la linea alle comunità gay nazionali) tale percentuale sarebbe di oltre il 60%. Con ciò si renderebbe necessaria questa azione d’indottrinamento “gender”, anche se i dati nazionali dicono il contrario.
La strategia non si limita a produrre iniziative da attuare nelle scuole, ma investe il mondo del lavoro, la sanità (donazione di sangue, riconversione chirurgica del sesso ecc.), le prigioni, gli alloggi, i mass media. Pertanto, ad esempio, a scuola verranno proposte iniziative didattiche “in maniera adeguata e sistematica” per docenti e alunni, utilizzando “l’expertise delle associazioni Lgbt”; ossia, saliranno in cattedra direttamente coloro che vivono questa condizione sessuale. Non si pensa di coinvolgere i genitori o le associazioni familiari, chiedendo loro un parere: lo si fa piovere dall’alto e basta. E poi, con quale autorevolezza didattica, poniamo, di un “transgender”: ci vorrà una laurea specifica, oppure il solo fatto di essere un “trans” darà diritto a diventare docente? E ancora: perché non affidare il tema del rispetto delle “diversità” agli stessi docenti che sono tenuti a educare ai valori costituzionali di rispetto della persona? Infine: è giusto, sul piano didattico e formativo, offrire agli studenti un solo indirizzo culturale ed etico su una materia così delicata per lo sviluppo completo della personalità? Tutti questi interrogativi assillano i genitori come i docenti. Dare una risposta coerente ed equilibrata può essere un bene per tutti.
3. Una critica obiettiva alla teoria del Gender
L’identità sessuale è ontologica, nel senso che fa parte essenziale della struttura della persona umana, sia da un punto di vista strettamente genetico, sia da quello globale dell’integrazione tra fattori biologici, psichici e culturali, che non sono estrapolabili. Di qui la denuncia della falsa «scientificità» della teoria del Gender che, isolando un fattore culturale da tutti gli altri, rappresenta l’indebita intrusione nella scienza di una visione ideologica.
L’ideologia del gender è una delle più grandi truffe che sono mai state architettate a danno dell’umanità. Cosa recita in sostanza tale tesi? Non si è uomini e donne perché nati con certe identità fisiche, ma lo si è solo se ci si riconosce come tali. Quindi, il sesso (sex) costituirebbe un corredo genetico, biologico e anatomico, mentre il genere (gender) rappresenta una costruzione culturale, che può essere anche contrario al sesso: se voglio sentirmi donna sarò donna e il giorno dopo posso sentirmi uomo, e allora sarò uomo. Oppure se mi gira posso essere gay, lesbo, trans, bisex e via con una scelta di ben altri 17 generi, secondo l’Australian human rights commission. La tesi del Gender ha anche una chiara origine ateista. Benedetto XVI affermò in proposito: «La Chiesa ribadisce il suo grande sì alla dignità e bellezza del matrimonio come espressione di fedele e feconda alleanza tra uomo e donna, e il no a filosofie come quella del gender si motiva per il fatto che la reciprocità tra maschile e femminile è espressione della bellezza della natura voluta dal Creatore».
I Paesi nordici sono all’avanguardia su queste utopie, tanto che uomini e donne si comportano fin da piccoli in maniera completamente uguale, annullando ogni differenza. A Stoccolma, ad esempio, nell’asilo Egalia gli alunni non sono più bambini e bambine, ma “friends” e sono tutti chiamati con il pronome neutro “hen”. Tutti i giochi e le favole sono obbligatoriamente neutri per indurre artificialmente l’indistinzione, la totale parità e la lotta alla discriminazione. Molti genitori non rivelano il sesso biologico ai propri figli, e nemmeno ai parenti stretti, per lasciare ad essi la scelta.
Marzio Barbagli, prestigioso sociologo italiano autore de La sessualità degli italiani (Il Mulino) ha spiegato che la negazione delle differenze sessuali «porta più danni che vantaggi». Ha approfondito la psicologa Simona Argentieri: «Nascono dalla presunzione di avere un’idea precisa del processo di sviluppo maschile e femminile, e di correggerlo prevaricando». Diversi studi, inoltre, hanno messo in luce il Norwegian gender paradox, il paradosso norvegese del gender. Si tratta di una segregazione verticale tra uomini e donne nei settori di lavoro, che dimostra come le donne continuino a scegliere professioni tradizionalmente viste come “femminili” e gli uomini quelle tradizionalmente “maschili”. Questo fenomeno è stato oggetto di ricerca da parte di Catherine Seierstad, della Queen Mary University of London. La studiosa ha cercato di capire come mai, nonostante tutti gli sforzi normativi per la parità di genere, i comportamenti dei due sessi non rispecchino l’uguaglianza tanto ricercata.
Anche il sociologo norvegese, Harald Eia, ha cercato di approfondire la questione attraverso un documentario in sette puntate mandato in onda nel 2010. Eia si è rivolto ad americani e inglesi, da Cambridge alla California State University, passando per UCLA, e ha incontrato diversi docenti di psicologia (R. Lippa, A. Campbell), medicina (S. Baron-Cohen) e sociologia, i quali hanno spiegato che le donne e gli uomini sono, alla fine, ben diversi tra di loro e che questo fatto viene rispecchiato dai loro comportamenti. Eia ha dunque portato tali testimonianze davanti ai responsabili del Nordic Gender Institute, e il documentario si è chiuso con i loro imbarazzi e l’incapacità di fornire spiegazioni scientifiche per la loro linea di pensiero. Uno degli effetti immediati del documentario è stata la decisione, da parte del consiglio dei ministri dei paesi nordici (Nordic Council of Ministers) di tagliare i fondi al Nordic Gender Institute, provocandone la chiusura.
David Geary, psicologa dell’età evolutiva presso l’Università del Missouri, ha spiegato che anche tra i nostri parenti stretti, come il cercopiteco, i ricercatori hanno scoperto che le femmine giocano con le bambole molto di più dei loro fratelli, che preferiscono invece palle e macchinine. Sembra improbabile, tuttavia, ha spiegato, che le scimmie siano state indottrinate dagli stereotipi della società, come invece sostengono per gli uomini i teorici del gender. Doreen Kimura, psicobiologo della Simon Fraser University, ha invece mostrato che le differenze sono presenti fin nel cervello, e i risultati hanno messo fortemente in dubbio la visione che il genere sia plasmato dalla società. Anche Christina Hoff Sommers, studiosa dell’American Enterprise Institute, ha parlato in modo molto negativo di questo “indottrinamento”.
Infine, il filosofo Vittorio Possenti, docente presso l’Università Cà Foscari di Venezia – anche riferendosi al mancato riconoscimento giuridico di coppie omosessuali – ha spiegato che: «Discriminare non è sempre qualcosa di cattivo, poiché è semplice atto di giustizia trattare in modo diverso cose diverse. Riconoscere le differenze non significa discriminare, mentre ricorrere ai criteri di eguaglianza e nondiscriminazione in maniera assoluta può giustificare qualsiasi esito, come quelli di cancellare le diversità di genere o di inventare “nuovi diritti” quali il diritto al figlio, o a disconoscerlo dopo averlo voluto con la fecondazione in vitro (parto anonimo). Definire discriminazione una qualsiasi differenza è dunque un falso egualitarismo in cui non esistono più volti, ma tutto è indistinto, amorfo, intercambiabile e funzionale. Cancellare le differenze reali non è inclusione ma confusione».
4. Una nuova sfida antropologica
La teoria del genere si va diffondendo nell’Occidente e cerca di penetrare anche in altri contesti culturali, promossa da grandi organizzazioni internazionali. Essa consiste, in sostanza, nella negazione della rilevanza antropologica delle differenze sessuali, biologicamente definite, rispetto alle determinazioni culturali della sessualità. Le conseguenze di questa impostazione sono di portata grandissima in tutto l’ambito della vita sessuale delle persone e, anzi, per gli stessi modelli vigenti di antropologia e di morale sessuale.
Dalla fine del XIX secolo è andato sempre più in crisi il modello di antropologia sessuale sedimentato nella cultura occidentale che, pur variamente declinato, aveva dominato il mondo occidentale dai tempi degli antichi greci e che era stato usato dalla tradizione cristiana per tematizzare l’esperienza morale cristiana. La concezione prevalente della sessualità ha subito un’autentica rivoluzione per cause molteplici e variamente interconnesse: i progressi delle scienze biologiche hanno chiarito alcuni aspetti fondamentali della sessualità e della procreazione umana, mentre gli apporti innovativi delle scienze umane (soprattutto psicologia, antropologia culturale e sociologia) hanno aperto orizzonti interpretativi prima neppure immaginati. I ruoli sessuali e i rapporti tra i sessi, il legame fra sessualità e matrimonio, la stessa naturalità dei sessi sono stati messi in discussione e, ripercorrendone la genealogia storica, si è cercato di mostrarne il legame con logiche di potere e di repressione.
Il superamento dei sistemi normativi tradizionali imposti – si dice – per convenzione e autorità, l’esaltazione della libertà del desiderio, l’emancipazione sessuale e sociale della donna, la destrutturazione dei legami familiari tradizionali, lo scollamento fra esercizio della genitalità e procreazione, sono alcuni dei tratti tipici della cosiddetta rivoluzione sessuale. Queste idee hanno avuto un influsso determinante sulla mentalità oggi prevalente nel mondo occidentale, subendo tra l’altro singolari trasformazioni nell’incontro con la filosofia marxista che ha dominato la scena della cultura europea nel cuore del XX secolo: pensiamo alla produzione d’avanguardia di W. Reich (1897-1957) la cui opera più nota Die Sexualität im Kulturkampf (La sessualità nel conflitto culturale) fu pubblicata per la prima volta a Vienna nel 1936, pensiamo al femminismo militante della Simone de Beauvoir (1908-1986), alle suggestioni marxiste presenti, anche se elaborate in modo critico, in E. Fromm (1900-1980), alla graffiante produzione di H. Marcuse (1898-1979), in cui la ragione hegeliana pare sostituita dalla pulsione freudiana e rivoluzione politica e liberazione dell’eros sembrano coincidere. Secondo Marcuse, infatti, dopo la conquista delle libertà civili, ideale della Rivoluzione Francese, e dopo la libertà dal bisogno, meta della Rivoluzione Russa, gli ulteriori traguardi della libertà saranno la libertà dal lavoro, la libertà dalla famiglia, la libertà dalla morale. Il compito della Modernità matura sarà dunque svincolare la sessualità umana dall’istituto familiare, legato alle convenzioni, al sangue, al controllo sociale e dare piena libertà al dispiegarsi dell’eros, infranti tutti i tabù e i divieti.
Nel nostro tempo la sessualità è tendenzialmente vissuta in autonomia rispetto alla funzione procreativa ed è compresa secondo direzioni di senso plurime, mettendone comunque preferibilmente in risalto le qualità ludiche, erotiche, espressive, creative, affettive rispetto alle finalità procreative. La sessualità non avrebbe perciò un senso fondamentale, dato con la natura della persona, ma sarebbe aperta ad accogliere più sensi gerarchizzabili soltanto dall’individuo all’interno del suo personale sistema di valori. Inoltre, benché non si trascurino le valenze politiche della sessualità, l’orientamento oggi di gran lunga dominante tende a privilegiarne le dimensioni soggettive e private, ponendo la vita sessuale in relazione con l’esercizio dell’autonomia e con la realizzazione del benessere personale. È una nuova visione della sessualità che rappresenta una sfida per la antropologia e la morale sessuale tradizionale.
5. Sesso e genere fra natura e cultura
È evidente che, in natura, la sessualità si presenta strettamente connessa con i processi riproduttivi. La riproduzione sessuata non è certo l’unico né il più diffuso modo per dare origine ad un nuovo individuo, ma, dal punto di vista evolutivo, la riproduzione sessuata presenta un enorme vantaggio rispetto a quella asessuata perché permette un continuo rimescolamento genetico all’interno della stessa specie. Le scienze biomediche del XIX e XX secolo hanno mostrato che la sessualità, anche a un livello puramente fisico, non è la caratteristica di un solo organo o apparato, né si può ridurre a un certo assetto cromosomico o alla capacità di produrre gameti di un certo tipo, ma comprende un insieme articolato di caratteri istologici, anatomici, fisiologici in stretta interdipendenza.
Ciò, però, che caratterizza la sessualità umana rispetto a quella animale non sta negli aspetti fisici della sessualità, ma nei suoi aspetti simbolici. La sessualità umana, infatti, si carica di significati e finalità non immediatamente ricollegabili alla biologia e alla riproduzione. Se è vero che la sessualità umana comporta strutture e determinismi biologici, tuttavia la caratteristica saliente della sessualità umana va ricercata altrove, nelle sue potenzialità espressive, nelle sue capcità comunicative, nelle sue elaborazioni culturali. Questa sottolineatura moderna delle dimensioni interiori e soggettive della sessualità non è una novità assoluta nella storia del pensiero, ma un apporto decisivo in questo senso è venuto dalle scienze umane, sviluppatesi dalla fine del XIX secolo, e soprattutto dalla psicologia analitica iniziata da S. Freud (1856-1939). Andando oltre gli istinti, le inclinazioni e i comportamenti, esiste un mondo misterioso da cui emerge il nostro essere personale e che continuamente interagisce con il mondo della realtà e delle relazioni. Oltre le valutazioni che si possono dare della psicoanalisi e dei suoi molti limiti teorici, pare di poter affermare che si tratta di un patrimonio a qualche livello da tutti condiviso e, con le dovute precisazioni, anche la teologia morale ha cominciato a parlare della sessualità come funzione della crescita personale, come fattore di socializzazione, come forza di auto-trascendimento.
Un grande contributo alla comprensione dello sviluppo degli aspetti personali della sessualità è venuto dagli studi medico-psichiatrici di J. Money e degli Hampsons che, negli anni ’50 del secolo scorso, formularono una teoria sui fattori che determinano lo sviluppo delle componenti fondamentali del sesso psicologico. La teoria di Money parte dalla premessa che il sesso di una persona risulta da molteplici fattori e non da uno solo, e che fra questi fattori devono essere inclusi il sesso psicologico e quello sociale, i quali sono legati in modo indissolubile al benessere della persona. Accanto all’orientamento sessuale, che si riferisce all’oggetto del desiderio erotico, egli introdusse le categorie di identità di genere, cioè l’auto-percezione di se stessi come maschi o come femmine, e di ruolo di genere, cioè tutto quello che una persona fa o dice per indicare a se stessa o agli altri la sua appartenenza ad un sesso: esso include, ma non si restringe alla sessualità nel senso erotico. La percezione di se stessi come maschi o come femmine precede lo sviluppo dell’orientamento sessuale e l’assunzione di un qualsiasi ruolo sociale. Questa percezione sta al centro del nostro essere e informa di sé tutto quanto facciamo,
L’uso della categoria di genere, invece che quella di sesso, non è casuale, ma vuole sottolineare l’origine e la valenza psicosociale di questi aspetti della persona, svincolandoli dall’ambito della biologia: genere evoca cultura, mentre sesso suggerisce natura. Money ha ritenuto di provare che, dal punto di vista psicologico, la sessualità alla nascita è indifferenziata e diventa differenziata in senso maschile o femminile nel corso delle esperienze educative infantili, configurandosi come una sorta di imprinting psichico che si completa entro due anni e mezzo dalla nascita e che può essere mutato più tardi solo a prezzo di gravi rischi per l’equilibrio psichico. Un aspetto sconcertante delle sue teorie stava nell’affermazione che l’identità di genere si sviluppa conformemente al sesso di allevamento e che, in casi limite – come nel caso degli intersessi – tale sviluppo può avvenire anche in contrasto con il sesso genetico, gonadico, genitale interno e persino fenotipico, presi singolarmente o in combinazione, per cui il sesso di allevamento deciso dai genitori dovrebbe essere considerato il miglior indice prognostico della futura identità di genere.
Le teorie di Money furono accolte trionfalmente, oltre che fra pediatri e psichiatri, anche negli ambienti femministi e nel nascente pensiero gay perché sembravano delegittimare, con argomenti scientifici, le strutture antropologiche ed etiche tradizionali e offrire un appoggio oggettivo alle nuove teorie sociologiche e antropologiche che prendevano forma e vigore negli anni ’50. Le idee di Money sono state ridimensionate ben presto da evidenze cliniche contrarie e da osservazioni sulla sessualizzazione del cervello maschile e femminile, ma questo non ha scalfitto la sicurezza dell’ideologia del genere. Una visione equilibrata dei dati scientifici attualmente in nostro possesso dovrebbe condurci ad evitare estremismi e contrapposizioni opponendo sesso come natura e genere come cultura e dovrebbe indurci ad elaborare una visione complessa, pluristratificata e armoniosa delle diverse componenti della sessualità umana, ma è tipico delle ideologie essere unilaterali, riduttive, intolleranti alle critiche e poco interessate ai dati di fatto che le contraddicono.
6. L’ideologia del genere
La distinzione fra sesso e genere ci introduce nel cuore della controversia: il sistema binario dei sessi è frutto di una necessità naturale o di una costruzione sociale? La risposta della teoria del genere è che la naturalezza delle differenze tra l’uomo e la donna e il sistema tradizionale dei sessi sono un prodotto esclusivo della cultura. La rigida dicotomia dei ruoli nella società e nella famiglia, così come i modelli comportamentali del maschio e della femmina e i rispettivi, cosiddetti, tipici profili psicologici non sarebbero altro che la risposta ad un sistema di attese sociali e di distribuzione del potere. Tutto questo, insomma, è frutto di costruzione.
Gli studi antropologici di M. Mead (1901-1978) su alcune società primitive – studi attualmente molto criticati – pretendevano di mettere in luce, sin dagli anni ’30 del secolo scorso, che le culture ritenute più primitive si presentano, in effetti, più libere e molto meno repressive della cultura occidentale, specie nella sua versione borghese, e che la tradizionale immagine dell’uomo e della donna riscontrata nelle culture occidentali è relativa a queste culture e non esprime strutture antropologiche perenni.
Simone de Beauvoir ha approfondito la tesi dell’origine culturale delle differenze esistenti tra uomini e donne, con lo scopo precipuo di mostrare la parità della donna, contro la mentalità del suo tempo, fortemente impregnata di pregiudizi maschilisti. Una società – ella scrive – non è una specie: in essa la specie si realizza come esistenza, si trascende verso il mondo e verso l’avvenire. I suoi costumi non s’inferiscono dalla biologia: gli individui non sono mai abbandonati alla loro natura, obbediscono a quella seconda natura che è l’abitudine, nella quale si riflettono desideri e timori che rivelano il loro atteggiamento ontologico. Il soggetto non prende coscienza di se stesso e non si realizza in quanto corpo, ma in quanto corpo sottoposto a leggi e tabù: prende coscienza in nome di certi valori.
Ancora una volta non è la fisiologia che può stabilire dei valori, piuttosto i dati biologici assumono quei valori che l’esistenza dà ad essi … Così noi dovremo chiarire i dati della biologia alla luce di un contesto ontologico, economico, sociale, psicologico.
Secondo i principi di J.P. Sartre, cui Simone de Beauvoir era personalmente legata, ognuno è sempre come lo vede l’altro. L’uomo non ha una natura data, ma è libertà. È vero che esistono fra uomo e donna differenze su base naturale, ma esse non costituiscono una condizione ineluttabile perché l’essere della donna, se è condizionato dal suo corpo come quello dell’uomo, non è mai completamente dato, ma è sempre da fare. La donna è persona libera che progetta se stessa nel mondo e perciò, molto più della fisiologia e della psicologia, conta il modo con cui la donna assume le condizioni della sua esistenza e le trasforma.
Uno degli apporti più significativi e fecondi delle scienze umane moderne è l’avere rivelato le connessioni intime e quasi inestricabili fra sessualità e società. La sessualità fa la società: essa, infatti, connotando profondamente l’identità individuale e tessendo legami privilegiati fra gli individui, si configura come la matrice genetica delle strutture relazionali e sociali e, attraverso la trasmissione della vita, assicura al gruppo un avvenire e gli offre possibilità di espansione e di rinnovamento. D’altra parte, la società fa la sessualità se si pensa che la sessualità non può sottrarsi all’influenza della cultura di modo che l’insieme delle determinazioni culturali concorre a modellare la sessualità vissuta dai soggetti.
Queste prospettive, se spogliate dalla sopravvalutazione dell’elemento culturale e rilette in un contesto antropologico adeguato, possono arricchire positivamente la nostra visione della sessualità umana. La sessualità investe integralmente la persona nella sua complessa articolazione ontologica e, se da un lato la radica nel mondo della natura, dall’altra la sospinge verso il mondo della cultura, così che non si dà mai nell’uomo e nella donna alcun momento concreto che sia puramente natura e che non sia insieme anche cultura. L’essere umano è un essere eminentemente simbolico per cui la sua condizione sessuata è sempre vissuta-interpretata-progettata alla luce di un senso che è anticipato come “non detto” nelle strutture corporee, che le eccede e che deve essere accolto, elaborato e vissuto attraverso i linguaggi, i segni e le immagini della cultura. La cultura segna, quindi la comprensione e l’espressione della sessualità, ma non ne determina il senso il quale non è riducibile a semplice costruzione culturale.
Nel mondo contemporaneo, invece, l’esasperazione della contrapposizione fra natura e cultura, la negazione della rilevanza dell’elemento corporeo nel contribuire alla definizione della sessualità umana e l’enfasi sull’autodeterminazione individuale svincolata da ogni riferimento valoriale oggettivo, hanno condotto a una svalutazione estrema del sesso come realtà data, fissa e stabilizzata, a favore del genere inteso come struttura culturale flessibile e decostruibile e, quindi, in ultima analisi, dipendente dalla libertà del soggetto.
Il genere è una costruzione culturale. Di conseguenza non è né il risultato causale del sesso, né è tanto apparentemente fisso come lo è il sesso. Quando lo status costruito del genere è teorizzato come del tutto indipendente dal sesso, il genere stesso diviene un artificio fluttuante, con la conseguenza che uomo e maschile possono significare tanto facilmente un corpo femminile quanto uno maschile, e donna e femminile tanto facilmente un corpo maschile quanto uno femminile.
7. Domande giuste e risposte sbagliate
I dibattiti che stanno agitando le opinioni pubbliche e i legislatori occidentali sul riconoscimento delle unioni omosessuali e la loro piena equiparazione alla unioni eterosessuali come modelli famigliari alternativi, gli interventi di correzione del fenotipo nel caso di disordini della identità di genere eseguiti in nome del primato della autocoscienza, l’esaltazione del libero esercizio della genitalità sono alcune delle questioni quotidiane che sono confluite nel gran contenitore ideologico costituito dalla teoria del genere.
Noi siamo convinti che nel campo dell’antropologia e dell’etica sessuale esistano sfide e problemi reali, ma siamo parimenti persuasi che la teoria del genere dà a questi problemi reali risposte parziali e inadeguate. Si tratta di domande e istanze che agitano anche il mondo ecclesiale e che sono oggetto di appassionata riflessione in ambito teologico.
Una prima critica riguarda il legame stretto fra sessualità e procreazione: l’antropologia sessuale tradizionale, erede dell’antropologia stoica, comprendeva la sessualità in prospettiva naturalistica e sottolineava, fra i molti aspetti possibili della sessualità umana, quello procreativo. Questa comprensione unilaterale, ovviamente, comportava una sottolineatura della binarietà dei ruoli sessuali in funzione della procreazione. L’attenzione era centrata prevalentemente sulla funzione naturale degli organi sessuali, intendendo il termine “naturale” in riferimento alla capacità procreativa. In questa prospettiva, la sessualità umana non risultava particolarmente connotata rispetto alla sessualità animale e la comprensione della sessualità tendeva ad appiattirsi sulla genitalità. Da Aristotele a Tommaso, passando per Agostino, la dualità sessuale o, meglio, il dimorfismo sessuale, veniva spiegato in relazione alla finalità procreativa. L’etica sessuale tradizionale assumeva come criterio base per valutare la correttezza dell’esercizio della sessualità e dell’uso lecito del piacere sessuale la fecondità degli atti sessuali e la loro contestualizzazione nell’istituto matrimoniale: si consideravano perciò illeciti tutti gli atti sessuali extramatrimoniali e “contro natura” tutti gli atti – anche fra sposi – che non fossero almeno potenzialmente procreativi. Contro natura, in particolare, era considerata l’omosessualità e gli omosessuali o sodomiti erano ritenuti soggetti viziosi e depravati, segnati da un duro stigma sociale e fatti oggetto di palesi ingiustizie. L’altro aspetto della tradizione antropologica preso di mira dalla teoria del genere, chiaro riflesso dei suoi umori femministi, è la pretesa naturalezza delle asimmetrie di potere fra maschi e femmine. Secondo gli antichi, la donna, per motivi biologici, sarebbe naturalmente inferiore, inadatta a dirigere e governare, moralmente fragile, destinata ad un ruolo subordinato nella società e, anche in famiglia assoggettata al capofamiglia. L’organizzazione sociale, le strutture educative, i sistemi legislativi, le elaborazioni filosofiche, le convenienze comportamentali erano tutte orientate alla perpetuazione e rafforzamento dell’ideologia maschilista, suggerendo ai bambini e alle bambine l’assunzione di persuasioni e di ruoli corretti. Lo status quo era rafforzato dagli insegnamenti tradizionali delle religioni monoteiste incluso il cristianesimo. La lettura sessista di Efesini 5, per esempio, sembrava canonizzare la soggezione unilaterale delle mogli ai mariti, nonostante la reciprocità di sottomissione invocata dal versetto 21 di quello stesso capitolo paolino. L’emancipazione della donna dalla sudditanza, la sua uscita da uno stato di minorità permanente e il suo ingresso da protagonista nella società suonavano per l’antropologia tradizionale come una rivoluzione inaccettabile e disastrosa che violava l’ordine naturale voluto dal Creatore.
Queste istanze sono risolte dalla teoria del genere negando il dualismo binario dei sessi, rifiutando l’istituto matrimoniale naturale, propugnando la liberazione dell’eros da qualsiasi vincolo etico che non sia il consenso, mettendo sullo stesso piano omosessualità ed eterosessualità. I problemi cui vuole rispondere la ideologia del genere sono autentici, ma la soluzione proposta è devastante. Risposte sbagliate a domande giuste.
Un limite a priori della teoria del genere sta nella sua incapacità di valorizzare la singolarità della persona e la ricchezza del suo essere, privilegiando in modo riduttivo alcuni aspetti a scapito di altri. Per non mortificare l’autocoscienza, si riduce il corpo a un dato bruto, plasmabile, a volontà, come se non fosse sempre e originariamente un corpo umano e, quindi, portatore di una istanza di senso che precede ogni interpretazione. Per riconoscere la pari dignità della donna, poi, si nega la sua differenza e la sua originalità rispetto all’uomo. Per non esser costretti a un generare biologicamente necessitato e istintuale si sciolgono l’amore umano incarnato e la procreazione come se la fecondità fosse nemica del desiderio. Per difendere le persone omosessuali da ingiustizie e violenze e garantire loro la fruizione dei giusti diritti si oscura e si svuota la differenza antropologica fra etero ed omosessualità. La questione è antropologica: l’uomo e la sua sessualità si fluidificano in un costruttivismo suscettibile di decostruzioni e riletture infinite e non si tiene conto del fenomeno umano e della sua sessualità, in particolare, come realtà complesse.
La sessualità è una realtà articolata che attraversa tutta la condizione umana. Essa certamente non può essere ridotta alle strutture genitali e alle funzioni riproduttive, ma deve essere compresa in uno sguardo d’insieme sulla realtà umana perché è la persona nella sua integralità ad essere sessuata, a livello biologico, a livello psicologico, a livello spirituale. Così si esprimeva l’istruzione Persona Humana nel 1975: «La persona umana, a giudizio degli scienziati del nostro tempo, è così profondamente segnata dalla sessualità, che questa deve essere considerata come uno dei fattori che danno alla vita di ciascuno i tratti principali che la distinguono. Dal sesso, infatti, la persona umana deriva le caratteristiche che, sul piano biologico, psicologico e spirituale, la fanno uomo o donna, condizionando così grandemente l’iter del suo sviluppo verso la maturità e il suo inserimento nella società».
Dal momento che la persona si auto-comprende attraverso l’esperienza fondamentale e irriducibile della corporeità, la quale è sempre una corporeità sessuata, ciascuno di noi non può comprendersi compiutamente prescindendo dalla connotazione sessuale del suo esistere corporeo. Quest’auto-comprensione è un processo che non si compie in un vuoto assoluto, fuori dello spazio e del tempo, ma sempre in precisi contesti storici e culturali, all’interno di un’interpretazione generale del mondo umano e attraverso i codici linguistici e simbolici propri di un certo gruppo e di un certo tempo. L’auto-comprensione del proprio esistere in quanto esseri sessuati si configura, così, come un processo di mediazione e di unificazione compiuto dal soggetto fra molteplici elementi di diversa provenienza, naturale e culturale, fisici e psichici, consci e inconsci, necessitati e liberi.
Il vissuto della sessualità, passando attraverso un processo di mediazione, ne riflette e ne subisce le vicende, le difficoltà, i fallimenti, derivandone un’inevitabile componente di relatività. Le regole che le diverse società hanno elaborato in tempi e luoghi diversi per dare ordine all’esercizio della sessualità sono diverse e riflettono sensibilità difficilmente riducibili a norme universalmente condivise. Esistono, però, delle costanti antropologiche che si radicano nella stessa natura della persona. Il legame naturale fra sessualità e generazione rappresenta una prima evidenza antropologica che le diverse culture hanno valorizzato e normato, data l’importanza della generazione per la vita sociale e individuale. Accanto a questo, il tratto tipico dell’intuizione morale originaria sulla sessualità umana, prima ancora di qualsiasi specificazione normativa, è il legame fra l’esercizio della sessualità e una relazione interpersonale stabile fra uomo e donna che diciamo coniugale. La sessualità – si legge in un bel testo del Catechismo della Chiesa cattolica – «segna tutti gli aspetti della persona umana, nell’unità del suo corpo e della sua anima. Essa coinvolge specialmente l’energia affettiva, la capacità di amare e di procreare e, in modo più generale, l’attitudine a stringere con l’altro rapporti di comunione».
L’antropologia personalista tematizza queste istanze e risponde, in modo inclusivo e non esclusivo, alle questioni serie che sono sottese alla teoria del genere. La sessualità presenta un volto pienamente umano soltanto quando essa è assunta in relazioni libere tra persone umane. Uomo e donna sono modi diversi di attuarsi dell’unico progetto umano, uguali nella dignità, diversi per incontrarsi. In una visione unitaria e multidimensionale della persona, corpo e auto-coscienza non si oppongono perché il corpo altro non è che la rivelazione del Sé e in esso si anticipa un senso di fondamentale apertura alla comunione che la persona abbraccia liberamente. Proprio il tema della comunione interpersonale, alternativa a un’antropologia individualista, dovrebbe diventare il comune punto di partenza per una rilettura dell’antropologia sessuale e permettere di cogliere nel matrimonio fra uomo e donna il telos e compimento dell’umana sessualità. Se, infatti, la comunione è apertura all’altro da me, la pienezza coniugale della relazione richiede la diversità sessuale significata nel corpo, simbolo della persona, e la fecondità è segno e suggello della ricchezza creativa di questa comunione con l’alterità.
La bibliografia sul Gender è sterminata, cf. almeno il testo e i rimandi bibliografici presenti in M.A. Peeters, Il Gender. Una questione politica e culturale, Cinisello Balsamo (Milano) 2014.
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