Sulla via di Emmaus
È molto bello, soprattutto nel tempo di Pasqua, soffermarsi sulle pericope suggestiva di Lc 24,13-35. Siamo sulla via di Emmaus: Gesù accompagna il cammino dei discepoli che si sono smarriti innanzi allo scandalo terribile e ignobile della morte di croce. In questo racconto è come se Gesù ci invitasse a impegnare tutte le nostre energie per riconoscere e individuare i segni della sua presenza. Di solito, sprechiamo le nostre forze per sottolineare i vuoti della sua presenza. La Pasqua è l’inizio di un nuovo dialogo tra Dio e l’umanità, tra Gesù e i suoi discepoli. Infatti, al “no” dell’uomo espresso chiaramente nel Venerdì santo, ove la croce appare come il segno del male nel mondo e di tutte le ingiustizie della terra, il Padre ha risposto con il “si” della risurrezione, riscattando suo Figlio dal potere delle tenebre e rivelandolo al mondo come il Vivente, ossia come colui che più non muore, cioè che vive per sempre.
La presenza di Gesù – “in persona” – è la vera gioia dei discepoli che sentono il loro cuore ardere e ricevono una vera e propria nuova rivelazione mentre spezzano il pane: i loro occhi finalmente si aprirono, ossia furono guariti dalla cecità interiore provocata dall’angoscia della morte e per la perdita del loro Maestro. La croce di Gesù sembra, da una parte, cancellare tutte le nostre aspettative e speranze – vere o false che siano – e, dall’altra, però, aprire i discepoli (e, dunque, anche noi) a una nuova e più convincente esperienza del Signore Gesù Cristo come il Risorto dai morti, come colui che più non muore e vive per sempre. È la luce del Risorto a dare un significato nuovo alla morte infame del Maestro come pure a riempire di senso le nostre attese e prove della vita! Senza questa luce del Risorto non c’è annuncio, non può esserci alcuna forma di evangelizzazione!
1. Il contesto in cui ci troviamo: il memoriale della Pasqua
Ci troviamo all’interno dei racconti delle apparizioni e della risurrezione di Gesù: la domenica, il primo giorno dopo il sabato, alcune donne (tra cui Maria di Magdala, Giovanna e Maria di Giacomo), sono andate al sepolcro per ungere il corpo di Gesù ma l’hanno trovato vuoto e hanno ricevuto il primo annuncio da due angeli (uomini con vesti sfolgoranti o splendide). Le donne ricevono il kerygma sul Cristo crocifisso e risorto e appaiono smarrite, tramortite dal fatto in sé della passione di Gesù e dal nuovo annuncio degli angeli.
L’evento nuovo che crea sconvolgimento nella vita di queste donne è il racconto della pasqua. Da questo racconto nasce anche un nuovo annuncio: «E, tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri» (Lc 24,9). All’interno del kerygma, vi è spazio per la memoria cancellata dall’evento tragico della morte di croce: «esse si ricordarono delle sue parole» (Lc 24,8). Ciò che cancella la nostra memoria è l’esperienza quasi infinita del dolore e quella decisiva della morte. È a questo punto che s’inserisce la scena dei discepoli in cammino verso Emmaus. Ciò che ha tolto loro ogni memoria e speranza è lo scandalo della croce. Forse, siamo tutti – a un certo punto della nostra vita – inciampati nel paradosso terribile della morte infame del Crocifisso. Quella morte, quel dolore, ci toglie ogni speranza perché abbatte i nostri progetti e cancella le nostre attese.
Parlare di Emmaus significa avere, anzitutto, memoria per lo scandalo della croce che segnò per sempre la divinità e l’umanità del Verbo della vita. Nell’annuncio della Pasqua c’è sempre e innanzitutto il ricordo vivo della passione di Gesù. Difatti, gli uomini in vesti sfolgoranti, ricorderanno alle donne attonite: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? [6] Non è qui, è risuscitato. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea, [7] dicendo che bisognava che il Figlio dell’uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno”» (Lc 24,5-7).
Il racconto della pasqua presume due elementi importanti: la memoria delle parole e dei fatti di Gesù (la sua missione) e il superamento dell’incredulità dei discepoli (le parole delle donne parvero ai discepoli come un vaneggiamento [una sorta di delirio o di sciocchezze], cf. Lc 24,11). La Pasqua obbliga a un cambio di prospettiva: partire dalla vita nuova del Risorto e non più dalla sua morte di croce. «Perché cercate tra i morti il Vivente?» (Lc 24,5). Egli non è più qui, nel sepolcro, perché è risuscitato. È importante “ricordare”, cioè vivere il memoriale! Occorre vincere la paura della morte e il ricordo terribile di quelle sofferenze inflitte a Gesù, il Nazareno. La morte ci azzittisce, la vita nuova ci permette di cantare e raccontare con gioia la novità del Risorto, il Vivente. La presenza dei due uomini in abito sfolgorante richiama non solo due esseri trascendenti (come in At 1,10), ma anche una testimonianza autorevole e sicura (cf. Dt 19,15).
Il racconto di Emmaus diventa, per noi credenti, una stupenda e meravigliosa catechesi sull’agire misterioso e sulla presenza del Cristo risorto in mezzo a noi. Egli, il Vivente, accompagna i nostri passi: è lui in persona che cammina con noi. Mentre noi mettiamo sempre in evidenza i segni dell’assenza di Dio, del suo potere, il Cristo risorto ci chiama a individuare i segni efficaci della sua presenza vivente.
Si tratta di un dialogo dei due discepoli con un pellegrino su un argomento di estrema attualità, ciò che è accaduto in Gerusalemme in questi giorni (vv. 13-14). L’apice del racconto è il riconoscimento di Gesù da parte dei discepoli, preceduto dall’illustrazione delle Scritture da parte di Gesù. Il racconto non ha uno scopo apologetico, bensì teologico e liturgico. Teologico perché vuole rivelare l’azione vivente del Risorto e liturgico perché il luogo in cui il Cristo si lascia riconoscere è la comunità che spezza il pane e si lascia illuminare dal Vangelo stesso. I due discepoli non fanno parte del collegio apostolico, ma del numero dei discepoli di Gesù, verso i quali Luca sembra mostrare particolare attenzione.
Il capitolo 24 è costruito attorno ad alcune domande fondamentali che permettono di approfondire il racconto della Pasqua e delle stesse apparizioni: le donne al sepolcro si interrogavano sul significato del sepolcro vuoto e nel frattempo i due uomini pongono la domanda (Perché cercate tra i morti colui che è vivo?, v . 5). Gesù che cammina con i discepoli verso Emmaus domanda loro: Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi? (v. 17). I discepoli, dopo aver incontrato il Risorto, si chiedono: Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture? (v. 32). Ci sono poi altre domande relative all’apparizione di Gesù agli apostoli e alla sua ascensione: Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? (v. 38); Avete qualcosa da mangiare? (v. 41). Se è vero che non è necessario rispondere a tutte le domande, bensì porsi quelle giuste, per noi credenti, è fondamentale lasciarci interpellare dagli interrogativi sopra esposti.
2. Che cos’è Emmaus?
Emmaus, in arabo Al Qubeibeh, cioè piccola cupola, è un minuscolo villaggio situato a 18 km (60 stadi) a nord di Gerusalemme che, con maggior probabilità di ogni altro, ricorda l’incontro di Gesù risorto con due discepoli, la sera di Pasqua. È una bella posizione, un luogo circondato da ulivi, fiori, pini marittimi e da colli digradanti verso la pianura di Saron e il mare Mediterraneo. Il sito sembra fatto apposta per facilitare il pellegrino a immaginare Gesù che, camminando da semplice viandante insieme ai due discepoli, tristi per i tragici avvenimenti di Gerusalemme, spiegò loro con efficacia il senso della storia della salvezza, trasformandoli totalmente. Del discepolo Cleopa non sappiamo niente, a volte lo si tende a unire a Maria di Cleofa. Cleopa è un’abbreviazione di Cleopatro, un nome greco che significa “di padre illustre”. Questo personaggio non va identificato con Cleopa o Clopa che copare in Gv 19,25, il cui nome è in aramaico.
Il racconto è scandito in due tappe.
Nella prima, ambientata nel percorso, Gesù spiega le Scritture alla luce della sua Pasqua, facendo “ardere” il cuore dei suoi interlocutori. È significativo che i due non riconoscano Gesù, pur avendolo seguito durante i suoi giorni terreni; accadrà così anche a Maria di Màgdala (cf. Gv 20,11-18). Per riconoscere il Risorto non basta la ragione o l’esperienza fisica. È necessario un altro canale di conoscenza, quello della fede, indispensabile a noi e ai primi testimoni in maniera eguale.
Nella seconda tappa, quando i viandanti raggiungono il villaggio e sostano attorno a una mensa, i loro occhi si aprono solo alla spezzare del pane, una locuzione che indica la celebrazione della cena eucaristica. È all’interno dell’esperienza di fede propria del culto che il volto del Risorto diventa riconoscibile ed è radice di speranza e di testimonianza.
I discepoli hanno anche cercato Gesù, ma non come il Vivente, bensì come il Maledetto, come colui che si è lasciato sopraffare dalla morte e ha deluso ogni loro aspettativa. I discepoli non sono più credenti, bensì dei delusi dalla vita e dal messaggio di Cristo che è stato il loro maestro. Innanzi alla croce, svaniscono tutte le nostre speranze e quelle attese inautentiche da noi considerate indispensabili. Bisogna oramai cercare Gesù come il Vivente e non come un morto.
Perché cercate tra i morti il Vivente? Come noi cerchiamo Gesù? Non basta essere suoi discepoli. Occorre cercarlo come il Vivente. In Mc e Mt è attestato che i discepoli cercano Gesù (cf. 16,6 e 28,5). Ma come lo cercano? Come un sopravvissuto alla morte? L’oggetto della ricerca, per Luca, è quello di cercare il Vivente tra i morti (cf. Ap 1,17s.). Luca, diversamente da Marco e Matteo, non qualifica Gesù come il Crocifisso (ton estauròmenon), bensì come il Vivente (ton zônta). Nei racconti dei fatti pasquali, il verbo vivere (zaô) ricorre solo in Luca. Mentre Mt e Mc sono più retrospettivi, Lc è più prospettico: Gesù aveva predetto anche la sua risurrezione e non solo la morte. Si vuole accentuare la realtà della risurrezione. Vi è piena identità tra il Crocifisso e il Risorto, come anche tra il loro agire prima e dopo la croce, prima e dopo la risurrezione. La vita nuova del Risorto continua nella vita della Chiesa che lo annuncia.
3. Qualche riferimento esegetico
Il verbo ὁράω indica l’atto del vedere in quanto comprensione o conoscenza del mistero (cf. Gv 1,18.50.51; 11,40; 14,7.9; 20,8.25.29; 1Gv 1,1). Acquista un ruolo determinante pure per il futuro (cf. Gv 1,39.50.51): il discepolo, in Gesù, è chiamato a vedere sempre qualcosa di nuovo. L’uso al perfetto sta a dire, nel caso di Gv 14,9 – “l’avente visto me ha visto il Padre” – che si tratta di un vedere di fede che affonda le radici nella memoria del passato e che ha una sua continuità viva e dinamica nel presente (cf. Gv 14,7.9; 20,18.25.29); è, comunque, un vedere-guardare con gli occhi della fede che tiene assieme il presente (in ordine alla sostanza) e il futuro (in ordine alla totalità del suo compimento o della pienezza). Ciò vale anche per Luca. Si vedrà il Risorto nella misura in cui si saprà accogliere l’insegnamento impartito da Gesù a proposito della sua morte di croce e si avrà fede in lui. La fede in Gesù diviene conditio sine qua non per la visione del Risorto!
Il termine omileon ha un importante significato liturgico-sacramentale e catechetico. C’è una ricerca appassionata e inquietante dei fatti relativi a Gesù e a quello che aveva annunciato e vissuto. Si afferma, anzitutto, l’attenzione sul dialogo tra i due discepoli, segue la catechesi di Gesù. Dapprima l’uomo cerca Cristo, ma resta scandalizzato dalla sua croce. Sarà poi Cristo a mettersi sui passi dei discepoli. Cristo è la nostra luce che ci illumina.
“Gli occhi impediti”: si tratta di una vera e propria cecità interiore. La rivelazione che riceveranno del Risorto sarà come una nuova creazione: si aprirono i loro occhi. È la conoscenza mediante il dono pasquale della fede. I due discepoli sanno tutto di Gesù, sono aggiornatissimi, bene informati. Sono un esempio moderno di globalizzazione: sanno più dell’ignoto pellegrino che loro stessi sembrano rimproverare perché non sa degli ultimi fatti accaduti a Gerusalemme. Eppure, i due viandanti hanno gli occhi bendati e sono tristi. La gioia è il tipico sentimento della pasqua. I due discepoli si fermano perché sono abbattuti e tristi.
“Tu solo sei così straniero (paroikeo)”: è un termine noto solo a Luca che indica lo stato di uno straniero che vive in una città.
“Noi speravamo…”: i discepoli non possiedono ancora la chiave di volta per comprendere i fatti accaduti a Gesù. L’oggetto della loro speranza messianica era la liberazione d’Israele… Quest’attesa messianica è stata svilita, anzi, vanificata, distrutta… La morte di Gesù ha tolto loro ogni speranza. La croce è inevitabilmente letta come la fine di ogni speranza: solo il Risorto può farla comprendere come il vero mistero della salvezza.
Il termine stolto (anòetos) non è frequente nel NT: oltre che in Lc 24,25, si trova nelle lettere di Paolo. Può significare ignorante, ma indica soprattutto l’incomprensione dell’agire divino. Stolti sono i Galati a cui Paolo rimprovera l’abbandono della retta comprensione di Gesù Crocifisso (cf. Gal 3,1). I due viandanti sono “senza testa” e “lenti di cuore”, cioè lenti, assopiti, chiusi in se stessi, perché raggelati dalla tristezza. La presenza di Gesù, invece, che non abbandona i suoi discepoli, è motivo di gioia, di fuoco nuovo.
Il verbo spiegare (diermhéneusen) sta a indicare che il Risorto è il nuovo principio ermeneutico delle Scritture e della sua stessa passione-morte. È il Vivente a dare un significato nuovo alla storia del Crocifisso. Al centro della catechesi del Risorto vi è l’annuncio della morte e della risurrezione, quasi a dire che la sua morte non fu un incidente sul lavoro, un fatto improvviso e inaspettato, ossia estraneo alla promessa di Dio. È, anzi, il passaggio per entrare nella gloria. La pasqua di Gesù getta una luce nuova sulla croce e su tutta la Scrittura che diventa, a sua volta, un commento alla passione di Cristo come gloria di Dio.
Sono importanti pure i verbi ricordare e raccontare…
Egli fece finta di proseguire… (v. 28): il Risorto va oltre le nostre paure, attese e infedeltà, perché è sempre alla ricerca dei suoi discepoli. Resta con noi… (v. 29: “Dimora con noi”). L’invito si trasforma in preghiera, fino a diventare un canto quasi di contemplazione che si fa silenzio, adorazione, quasi a dire che il Risorto, colui che cerca i discepoli, vuole essere cercato: il nostro desiderio di lui lo forza a stare con noi, perché Cristo per primo, con grande ardore, ha desiderato mangiare con noi (cf. 22,15). L’invio a rimanere non è una formula vuota di cortesia, bensì un’offerta seriamente intesa, fatta nella forma propria dei costumi orientale, di una costrizione cordialmente insistente (cf. Gen 19,3; At 16,15) e in maniera convincente motivata con il calar del giorno. La comunione conviviale con il Signore va ottenuta con la preghiera. Con il suo comportamento, Gesù ne crea le premesse. Se il Risorto dimora con noi non c’è più notte, né paura per la morte, né alcuna forma di oscurità né possono sopraggiungere le tenebre. Egli è il Vivente, ossia la Luce che vince le tenebre del mondo! Il dimorare di Dio con noi è, forse, una delle espressioni che meglio ci fanno cogliere il significato dell’Eucaristia. Gesù promise che con il Padre avrebbe preso dimora presso di noi, e ci invitò a dimorare in lui come lui in noi (cf. Gv 14,23; 15,4). Questa promessa ora è realizzata nell’Eucaristia. Il pane spezzato è la dimora di Cristo, il Crocifisso-Risorto, tra i suoi discepoli. Gesù acconsente alla richiesta dei discepoli e rimane come ospite. Gesù, dunque, non è presente solo nella parola della Scrittura, ma anche nello straniero accolto come ospite.
Il Risorto appare nel sottrarsi, e coloro che lo vedono lo scorgono mentre egli si sottrae. Cristo è colui che viene e se ne va… Il Risorto è colui che poi scomparve e fu innalzato. Egli viene come colui che va. Si vede pre-sente il Risorto che quasi è as-sente. Egli è visto con una incertezza certa e una certezza incerta. Il Risorto non è disponibile e non è fissabile. La sua presenza nella comunità e nella storia è di luce, completamente nuova, trasfigurata… Il Risorto si sottrae allo sguardo prolungato dei discepoli – “egli divenne invisibile” (cf. v. 31) – ma resta sempre accanto ai due viandanti e ogni volta che si spezza il pane nel suo nome si fa riconoscere e si rende presente. L’Eucaristia diventa il nostro roveto ardente: chi riceve il corpo del Signore brucia di nuovo amore, di fuoco di vita che ha vinto per sempre la morte (cf. v. 32).
Chiediamoci, tuttavia, quand’è che i discepoli riconobbero il Signore? Solamente allo spezzare del pane, come a dire che è nell’intimità con il Signore che egli si fa vedere e toccare come il Risorto, ossia il nuovo Adamo. Dopo aver incontrato il Signore, i discepoli cambiarono direzione e tornarono a Gerusalemme; la Pasqua di Gesù continua nel loro annuncio: Davvero il Signore è risorto (v. 34). Le rivelazioni di Dio devono essere annunciate. Quelli che le hanno ricevute sono chiamati a testimoniare. I due discepoli sentono l’apparizione – che è iniziativa gratuita del Risorto – come un incarico e, nonostante l’ora tarda, si mettono in cammino verso Gerusalemme per portare la lieta novella agli undici e agli altri. Il ritorno diventa un vero e proprio annuncio: ovunque gli uomini ricevano la grazia della visita di Dio si sentono chiamati ad annunciarla e a testimoniarla a casa.
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