Come Francesco, pellegrino in Terra Santa
per dire che il dialogo non è mai tempo perso
Come pellegrino di Dio e profeta di pace, papa Francesco compie il viaggio in Terra Santa a cinquant’anni dallo storico pellegrinaggio di Paolo VI. Tra cinque anni, invece, si compiranno ottocento anni dal viaggio di Francesco, il Santo di Assisi, che nel 1219 partì per le terre d’Oltremare. C’è, sicuramente, una relazione tra questi due pellegrinaggi. Oggi come allora, il contesto non è semplice perché le tensioni della politica non solo interna e i conflitti provocati dalla difficile convivenza tra tutti i figli di Abramo (ebrei, cristiani e musulmani) si fanno sentire. Papa Francesco, diversamente dai suoi predecessori, è il primo a entrare direttamente in quello che oggi conosciamo come Stato di Palestina: da Amman, capitale della Giordania, si è spostato direttamente, quest’oggi, a Betlemme, mirando in tal modo a riproporre la two-state solution (la soluzione di due Stati) quale via per risolvere l’annoso e doloroso conflitto. Bergoglio è arrivato disarmato, senza alcuna pretesa di imporre verità di fede, ma con il cuore pieno di speranza e di gioia affinché la pace regni in tutto il Medio Oriente, a partire proprio da Betlemme.
Le genti che lo hanno accolto e che ancora lo ascolteranno – cristiani, ebrei, musulmani – non possono non comprendere il senso della sua visita e trarre da essa occasione per un cammino di ascolto, di comprensione, di accoglienza reciproca, per progredire insieme sulla via della pace. Il pellegrinaggio di papa Francesco si sta svolgendo con grande semplicità e letizia francescana. Il papa, infatti, non sta utilizzando auto blindate. A Betlemme, come già ad Amman, viaggerà su una jeep aperta per incontrare la gente, come fa regolarmente ogni mercoledì in piazza S. Pietro. Non solo: in Palestina come in Giordania, il papa venuto dalla fine del mondo incontrerà rifugiati vittime delle guerre, mentre a Betlemme pranzerà con alcune famiglie palestinesi, segno ulteriore dell’attenzione che, sin dall’inizio del suo pontificato, ha mostrato per la dimensione umana che finisce per emergere dai conflitti nella regione. Ultimamente, papa Francesco, in una sua omelia, ha detto che il dialogo non è mai tempo perso perché avvicina i cuori delle persone e aiuta a fare fraternità. Non vi è niente di più francescano in questa espressione.
Il pellegrinaggio dell’altro Francesco, il Poverello, si svolse in tempo di guerra, in un contesto difficile e cruento; la spedizione dal Sultano produsse un incontro cordiale oltre ogni aspettativa, ma si risolse, nella sostanza, con un nulla di fatto. Eppure, quella vicenda produsse un “incontro” la cui lezione fa ancora meditare. Da quell’incontro con il mondo islamico, Francesco apprese che il dialogo è il primo spazio dell’annuncio del Vangelo.
Perché non cercare anche noi, oggi, di imparare gli uni dagli altri, di valorizzare le differenze, i doni e i carismi dell’altro? Perché non scegliere insieme la via della pace, dando compimento al desiderio di Gesù, l’ebreo Figlio di Dio che anche i musulmani riconoscono come grande profeta?
Nell’incontro che san Francesco ebbe con il Sultano d’Egitto, noi troviamo l’inaugurazione di una terza via per la missione. Infatti, se la prima via fu rappresentata dalle crociate – l’altro è un nemico e, quindi, è da sopprimere –, e la seconda, invece, fu segnata dall’isolamento e dall’emarginazione – l’altro non ha niente da condividere con me –, la terza via fu quella del dialogo e dell’incontro: andare verso l’Altro. Francesco intuisce che il dialogo è lo spazio della missione per confrontarsi con chi non conosce il Vangelo e non ha sentito parlare di Gesù Cristo. Questo spazio della missione non si regge sul rigido principio della verità, bensì su quello benevolo della carità. Per Francesco, come per papa Bergoglio, Dio è il Dio dell’umile servizio che invita i frati e ogni vero cristiano ad andare fra gli altri nello spirito della non violenza e della pace, per condividere il loro lavoro e la loro vita e costruire così una società fraterna che comprende tutti gli abitanti della terra.
Il Poverello e papa Francesco hanno compreso che l’identità del cristiano è flessibile, cioè capace di confrontarsi con le mutate condizioni sociali e politiche del mondo, nonché di vincere preconcetti e forme d’intolleranza. È un’identità che vive della volontà d’incontrare l’altro, che sente il desiderio del dialogo, senza cedere alla tentazione del relativismo e abdicare alla propria storia e tradizione. Questa identità religiosa è anche culturale e ammette dei cambiamenti, delle trasformazioni. Là dove la compagine non solo ecclesiale ha paura del confronto, dell’apertura, soprattutto nel sapersi minoranza, e là dove il cristianesimo s’identifica con l’Occidente, questa stessa identità cristiana è soggetta a pericoli di chiusura, a divenire un dato culturale e sociologico del passato. La Chiesa cattolica può potenziare la propria presenza nella società d’oggi e divenire credibile nella misura in cui si apre al dialogo con il mondo e la storia degli uomini e delle donne del suo tempo.
P. Edoardo Scognamiglio, Ofm Conv., Teologo.
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