Dio non si stanca di perdonare: l’amore che crea futuro
Tra noi francescani si è soliti raccontare questo aneddoto: «Una volta, prima di eleggere il Ministro Generale dell’Ordine, mentre s’invocava lo Spirito Santo, un anziano frate capitolare ebbe a dire: “Piano, fate con discrezione fratelli, non esagerate, invocatelo con moderazione; perché se lo Spirito Santo soffia veramente stravolge tutti i nostri programmi e anche la scelta del nostro Ministro, di chi ci deve guidare, potrebbe cadere su qualcuno altro, su chi non abbiamo pensato!”. Molti dei frati che ebbero modo di ascoltare la voce fioca dell’anziano fraticello iniziarono a ridere a più non posso. E così il clima divenne più familiare, semplicemente più fraterno».
È quello che accaduto realmente, in questi giorni, ai signori cardinali che si sono trovati tutti assieme per eleggere – “che Dio li perdoni” – un pastore che è fuori le righe, inaspettato, che non brilla per capacità di dottrina né per eloquenza di pensiero. È un semplice pastore che vuole stare con la gente, con il popolo di Dio, che sente il bisogno di far saltare ogni protocollo pur di toccare i fedeli, di condividere con la gente semplice la fede, il suo stesso entusiasmo, finanche l’amore per Gesù Cristo. È così papa Francesco! Ha voluto celebrare l’Eucaristia nella parrocchia del Vaticano, nella piccola e devota chiesa di sant’Anna, come un semplice parroco che, un minuto prima di salire sull’altare, si prepara persino l’acqua e il vino per la mensa. È proprio dono dello Spirito Santo che è Signore e dà vita alla sua Chiesa, a noi tutti, gregge di Dio. Semplice, umile, devoto, affezionato al popolo del Signore, papa Francesco, come un buon pastore, ha finanche salutato la gente dopo la Messa, in segno di accoglienza e di sincera condivisione. Si è preoccupato per quelli che sono venuti da lontano e che di solito non hanno privilegi, né amici in Vaticano, per vedere il papa. Ha chiesto, poi, ai fedeli dell’Argentina, di non venire a Roma per salutarlo, ma di restare nella propria terra e di fare carità con i soldi del viaggio, avendo cura per i più poveri. E ieri, durante la Messa, ci ha fatto dono di una riflessione profonda, essenziale, ispirata certamente dall’estro dello Spirito. Ha parlato, infatti, della misericordia di Gesù che non è venuto per i giusti ma per i peccatori. Ha menzionato la donna adultera del Vangelo di Giovanni e la vocazione di Matteo il pubblicano: due figure poste ai margini della società e soggette al giudizio di tutti; due persone già violentate dalla nostra presunta giustizia, dal nostro modo di pesare la verità e di utilizzarla come una clava – letteralmente un bastone – che si abbatte sul capo di chi ha sbagliato.
Papa Francesco ci ha detto che con Dio non può funzionare così: «Il Signore mai si stanca di perdonare: mai! Siamo noi che ci stanchiamo di chiedergli perdono. E chiediamo la grazia di non stancarci di chiedere perdono, perché lui mai si stanca di perdonare. Chiediamo questa grazia».
Mi viene alla mente subito la Lettera che san Francesco scrisse a un Ministro in cui afferma: «Non ci sia mai alcun frate al mondo, che abbia peccato quanto poteva peccare, il quale, dopo aver visto i tuoi occhi, se ne torni via senza il tuo perdono misericordioso, se egli lo chiede; e se non chiedesse misericordia, chiedi tu a lui se vuole misericordia. E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attirarlo al Signore; e abbi sempre misericordia di tali fratelli. E notifica ai guardiani, quando potrai, che da parte tua sei deciso a fare così» (Lettera a un Ministro, nn. 7-11: Fonti Francescane 235).
È il caso di dire che l’amore crea futuro nella misura in cui sa perdonare ed è capace di offrire sempre una via di riconciliazione e di recupero per l’altro. Il messaggio è forte. Non si tratta di buonismo, né di pacifismo a tutti i costi. Il Poverello d’Assisi, così come papa Francesco, aveva sperimentato il perdono di Dio – Gesù Cristo, il crocifisso-risorto – nella propria vita: si era sentito amato, perdonato, riconciliato. È questa la misericordia di Dio: guardare i fratelli e le sorelle con gli occhi di Gesù Cristo, lui che è la nostra giustizia, il perdono del Padre. È un messaggio veramente ispirato quello che ci consegna papa Francesco in questi giorni: amare è donare la vita e dire all’altro “tu non morirai, perché io morirò per te”. In effetti, come recita un detto della tradizione mistica musulmana, la “perfezione della fede è l’amore per il prossimo” (Rumi). Cristo è il nostro perdono, la misericordia di Dio riversata nei nostri cuori mediante il dono dello Spirito Santo.
Papa Francesco sente il bisogno d’infondere nei cuori dei fedeli la misericordia di Dio, ossia quella bontà infinita – agape (amore gratuito di sé) – che trova nel Cristo crocifisso e risorto la sua forma perfetta e più concreta. Chi ama veramente come Cristo, sembra dirci il Santo Padre, non si ripete, perché compie sempre un gesto nuovo. L’amore così inteso fa nuove tutte le cose perché si dimentica del passato, dei nostri errori. Abbiamo bisogno di educarci alla richiesta di perdono, a saper chiedere di essere riconciliati, di rientrare nella comunione di vita con il Signore. È questo un atto di profonda umiltà, di vera conversione. Nell’omelia del Santo Padre ricorrono i verbi “bastonare, condannare” per esprimere l’atteggiamento della folla e di chi detiene il potere religioso. Il messaggio è forte e chiaro: la verità (il prendere atto del nostro peccato) non è il fine del nostro rapporto con Dio e con le persone, cioè di ogni nostra relazione, bensì solamente lo strumento – un mezzo – per raggiungere un fine più grande che è il perdono, la riconciliazione. È questa la sfida profetica che s’innesta con questo pontificato: la Chiesa, il popolo di Dio, è il luogo dove abbonda il peccato, il male, ma altresì lo spazio sacramentale dove sovrabbonda la grazia del Signore, il fuoco-amore dello Spirito Santo. Una fraternità, direbbe a noi oggi san Francesco, è perfetta non se vive la Regola, bensì se è capace di testimoniare al mondo il perdono e la pace.
Il tema della misericordia è ritornato anche nell’Angelus di ieri: «Eh!, fratelli e sorelle, il volto di Dio è quello di un padre misericordioso, che sempre ha pazienza. Avete pensato voi alla pazienza di Dio, la pazienza che lui ha con ciascuno di noi? Quella è la sua misericordia. Sempre ha pazienza, pazienza con noi, ci comprende, ci attende, non si stanca di perdonarci se sappiamo tornare a lui con il cuore contrito… Un po’ di misericordia rende il mondo meno freddo e più giusto. Abbiamo bisogno di capire bene questa misericordia di Dio, questo Padre misericordioso che ha tanta pazienza…». Parecchi fedeli, soprattutto vescovi, religiosi e sacerdoti, hanno sorriso nel momento in cui papa Francesco ha citato, facendone involontariamente pubblicità, un libro del cardinale Walter Kasper sulla misericordia uscito in questi giorni. Poi il Santo Padre ha racconto di un simpatico e divertente dialogo avuto con una donna anziana che gli aveva detto: “Se il Signore non perdonasse tutto, il mondo non esisterebbe”. È fatto così papa Francesco: impacciato nei movimenti, un po’ dinoccolato, bisognoso di vivere il suo ministero di romano pontefice come un vero pastore, come un parroco che dialoga cuore a cuore con la gente, non curante del protocollo o di una certa etichetta “da cerimonie” che tante volte stanca e ci fa perdere di vista il contatto umano e la semplicità dei rapporti. Credo che ne vedremo delle belle: questo papa ama stare in mezzo alla gente, scendere in piazza, visitare da vicino gli ammalti, stringere le mani degli operai, confortare, suscitare fiducia nel cuore di chi è solo e si sente abbandonato. Non sarà un papa da cattedra, anche se saprà parlare ex-cattedra. Insomma, anche questa volta, lo Spirito Santo si è messo all’opera e ci ha aperto nuove strade, un modo inaspettato e originale per ritornare a parlare di Gesù, del Vangelo, della misericordia del Padre, della conversione, dell’amore fraterno e della giustizia in modo simpatico e semplice, estroverso, restando sopra le righe e forse senza troppo prenderci sul serio nei nostri ruoli e ministeri, compiti e impegni. D’altronde, anche san Francesco, sul letto di morte, disse ai suoi fratelli: «Incominciano a fare penitenza».
Edoardo Scognamiglio, teologo, PFTIM – Napoli
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