Un grido che nacque del cuore:
la testimonianza di Giovanni Paolo II contro la “civiltà della morte”
La Valle dei Templi di Agrigento si gremì di persone che accorsero per partecipare alla celebrazione dell’Eucaristia presieduta da Giovanni Paolo II. Prima dei riti di conclusione, mentre il papa prese la parola per pronunciare la benedizione e il saluto finale, proseguendo a braccio, come spesso faceva, si rivolse ai siciliani e li invitò a rifiutare quella che definì la “civiltà della morte”. Il papa polacco, poi, parlò direttamente ai mafiosi, colpevolizzandoli per le sofferenze subite dagli stessi siciliani e li accusò di non aver rispettato la parola di Dio. Questo gigante della storia, un vero profeta nella Chiesa cattolica, così concluse il suo discorso: «Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Nel nome di Cristo, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!». Era il 9 maggio del 1993. Quelle sue parole fecero immediatamente il giro del mondo e sono tuttora ricordate come l’anatema pronunciato da Giovanni Paolo II contro la mafia.
Quello del 1993 fu il terzo di cinque viaggi apostolici che il Giovanni Paolo II compì in Sicilia durante il suo pontificato. Fu già sull’isola nel 1988 e poi ancora nel 1991. Vi tornò nel 1994 e, per l’ultima volta nel 1995. In questa occasione, a Palermo ripeté – cosa inusuale – lo stesso discorso di Agrigento dimostrando quanto reputò importante che quelle parole fossero ascoltate di nuovo. Erano gli anni bui della lotta dello Stato a quello che si definì l’antistato. La Sicilia pagò, in quegli anni, un alto prezzo in vite umane cercando di opporsi a un’azione della mafia violentissima che non risparmiò nessuno. Giovanni Paolo II intervenne, parlò ai siciliani, scagliò il suo anatema perché si sentì vicino al dolore di quel popolo. Il papa non poté tacere di fronte alle sofferenze imposte da alcuni uomini ad altri uomini, di fronte alla violazione del diritto alla vita, di fronte alla privazione della libertà e del diritto alla felicità. Giovanni Paolo II, l’uomo che conobbe direttamente le sofferenze causate dal nazismo e poi dal comunismo e che svolse un ruolo attivo nella caduta dei regimi sovietici – da lui identificati con il male –, non poté non intervenire contro la mafia, anch’essa portatrice di una “civiltà di morte”.
Quel discorso rinfrancò i siciliani e tutti gli italiani – credenti e non – che dalle parole del papa polacco trassero nuovo coraggio per resistere al male e rinunciare a ogni forma di violenza e denunciare le azioni dei mafiosi e dei camorristi e terroristi in genere. La gente in pericolo di vita, oppressa dalle forme più disparate di violenza e di soprusi, si sente meno sola e veramente confortata da parole tanto forti perché sincere, spontanee, urgenti, non solo di un papa, ma di ogni altro cittadino e profeta che tiene a cuore la sorte della propria nazione. Chi, come il santo padre, è capace di gridare contro il male, diviene un grande profeta e sostenitore del bene ed è capace di donare forza a coraggio a chi subisce la violenza degli altri, dei mafiosi e dei camorristi in modo particolare.
In altra occasione, sul podio della Fiera, a Palermo, sovrastato dall’immagine del Cristo Pantocrator, Giovanni Paolo II commentò così quel momento: «Un grido mi nacque dal cuore». Il 9 maggio 1993 il mondo intero capì che quelle parole appena pronunciate entrarono già nella storia: quel discorso ebbe tutta la rilevanza della netta presa di posizione della Chiesa cattolica nei confronti della mafia. Tuttavia, la forza di quel discorso stava anche nella capacità di Giovanni Paolo II di fare proprie le sofferenze dell’umanità, di prendere su di sé il dolore di ogni singolo individuo. Non c’è dubbio sul fatto che proprio per questa ragione Giovanni Paolo II fu molto amato da tante persone che in lui intravidero innanzitutto una figura paterna sempre vicina a ogni persona perseguitata ed emarginata, tanto più se soprafatta dalla violenza e dalla morte infame.
Giovanni Paolo II, con vivida umanità inumidì l’indice tra le labbra per sfogliare le pagine del suo discorso, e ricordando le parole pronunciate nella valle dei templi, affermò: «Non posso ripetere quel che ho già detto ad Agrigento… Ma non può uomo, nessuna umana agglomerazione, mafia, togliere il diritto divino alla vita».
Era il 23 novembre del 1995, quinta e ultima visita del papa in Sicilia, in occasione del convegno delle Chiese d’Italia. Era difficile che un Pontefice si ripetesse, che riprendesse un brano intero di un discorso precedente. Karol Wojtyla spesso infranse il cerimoniale, spazzando via usi e costumi della tradizione. Già il primo anatema, d’altronde, fu un guizzo, un’illuminazione improvvisa, all’ombra della Valle dei Templi. In quel momento alla Fiera, il papa ripensò alla celebrazione di un anno e mezzo prima, ad Agrigento (9 maggio 1993), con il vento che gli scompigliava i capelli bianchi e il Tempio della Concordia alle spalle. Ripensò all’anatema contro i mafiosi, al suo dirompente invito alla conversione. E lo ripeté, parola per parola, con la mente rivolta a quella che era stata invece la risposta della mafia: a luglio le bombe di Roma, che danneggiarono le chiese di S. Giovanni in Laterano e di S. Giorgio al Velabro, a settembre l’omicidio di don Pino Puglisi, parroco di Brancaccio. «Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può uomo, nessuna umana agglomerazione, mafia, togliere il diritto divino alla vita… Nel nome di Cristo, crocifisso e risorto, di Cristo che è Via, Verità e Vita, mi rivolgo ai responsabili. Convertitevi, un giorno arriverà il giudizio di Dio!». Giovanni Paolo II ripeté le parole a Palermo, la terra amata da don Puglisi, un anno e mezzo dopo.
Scavando nei testi dei discorsi pronunciati da Wojtyla durante le cinque visite nell’Isola, si ricostruisce una fitta trama di riflessioni, tutte ispirate dal tentativo di scuotere i siciliani, soprattutto i giovani, dai «mali atavici dell’apatia e del fatalismo». E di spronarli verso una nuova cultura imprenditoriale, abbandonando la tentazione di aspettare tutto dallo Stato. In questa ottica, Giovanni Paolo II non si limitò alla denuncia contro la mafia, ma spinse la Chiesa verso una nuova evangelizzazione, consapevole che la criminalità organizzata non verrà mai sconfitta se non prevarrà «una cultura della vita».
Molto prima dell’anatema di Agrigento, la prima visita di Giovanni Paolo II in Sicilia (nel lontano 20-21 novembre del 1982) passò agli annali delle cronache come un’occasione mancata. Wojtyla – salito al soglio di Pietro da più di quattro anni – non pronunciò la parola “mafia”. Così, andarono deluse, tra mille polemiche, le attese di quanti chiedevano una posizione più netta in un’Isola scossa da omicidi eccellenti (a settembre era caduto il generale Dalla Chiesa) e da altissime denunce (l’«omelia di Sagunto» del cardinale Pappalardo ai successivi funerali). In realtà, a rileggere quei discorsi si trovano, però, le fondamenta delle prese di posizione successive: «I fatti di violenza barbara – disse il papa a Palermo il 21 novembre – che da troppo tempo insanguinano le strade di questa splendida città offendono la dignità umana… Occorre ridare forza alla voce della coscienza, che ci parla della legge di Dio». Parlando poi al clero, sottolineò come «in questa drammatica realtà il Vangelo deve essere proclamato alto e forte. Perciò il ministero sacerdotale è chiamato a una operosità che non conosca stanchezze».
Dopo i viaggi a Messina e Patti (11 e 12 giugno 1988), va ricordata la visita “ad limina” dei vescovi siciliani del 22 novembre 1991. Giovanni Paolo II affermò che, per sanare la dilagante mentalità mafiosa, «è necessario riannunciare il Vangelo agli uomini della Sicilia e raggiungere in modo vitale e fino alle radici la loro cultura, impregnandola efficacemente della Buona Novella di Cristo, e sconvolgere mediante la sua forza i criteri di giudizio, i valori determinanti, i modelli di vita che sono in contrasto con la Parola di Dio e con il disegno della salvezza… La Chiesa siciliana è chiamata, oggi come ieri, a condividere l’impegno, la fatica e i rischi di coloro che lottano, anche con discapito personale, per gettare le premesse di un futuro di progresso, di giustizia e di pace per l’intera isola». Fu la volta del viaggio del 1993, che oltre ad Agrigento, toccò Erice, Trapani, Mazara e Caltanissetta. Wojtyla volle incontrare i familiari di Falcone, Borsellino e Livatino (quest’ultimo definito davanti ai genitori “martire della giustizia, indirettamente della fede”). Il papa pronunciò quindici discorsi in tutto. Di straordinaria forza e intensità. Paragonò le cosche e le loro «catene ataviche di odio e vendetta» al frutto delle fatiche di Satana, invitò i sacerdoti a «risanare l’isola dalla piaga della mafia».
Altrettanto nette le posizioni assunte l’anno dopo (4, 5 e 6 novembre 1994) a Catania e a Siracusa. La prima sferzata fu per la stessa Chiesa. Non basta la denuncia, occorre l’azione e la conversione. Per cambiare la mentalità dei siciliani è necessario fondare «una civiltà dell’amore come antidoto alla mafia». Quando il Vangelo non entra nella profondità della vita ma resta alla superficie nascono strani fenomeni di convivenza tra usanze religiose e costumi mafiosi (il già citato santino bruciato per l’iniziazione, la presenza degli «uomini di rispetto» alle processioni, le «letture religiose» di boss del calibro di Michele Greco o Pietro Aglieri…). «Per realizzare degnamente questo disegno di rievangelizzazione – disse il papa a Siracusa – e di catechesi a tutti i livelli, è necessario il lavoro indefesso, costante, organizzato e concorde di tutte le forze disponibili del clero». I sacerdoti devono essere pronti, in questa missione, al sacrificio anche della vita. Un compito assunto coscientemente in prima persona dallo stesso pontefice. Per due volte, a Catania e a Siracusa, il papa ricordò poi il martirio di don Pino Puglisi. E lo definì, tra gli applausi della folla, «coraggioso testimone del Vangelo». Significativo il riferimento durante la visita a Catania: fu fatto durante la cerimonia di beatificazione per Madre Maddalena Morano.
Il papa invocò una serie di santi e di beati, di «grandi siciliani». Poi sollevò gli occhi un attimo e disse, anche stavolta a braccio, «penso anche a don Giuseppe Puglisi, coraggioso testimone della verità del Vangelo». Nei suoi discorsi nell’Isola, Giovanni Paolo II inquadrò i mali tipici dell’indolenza siciliana, di un popolo attraversato dalla «voglia di non fare» in tutte le classi sociali, dagli ultimi Gattopardi al ceto borghese, ai reietti delle periferie. A Siracusa spiegò: «Non cedete alle tentazioni dell’apatia, del torpore e della pigrizia, che conducono all’inerzia e all’accettazione fatalistica del male e dell’ingiustizia. Non serve limitarsi a deplorare le lacune della pubblica amministrazione, la conflittualità di gruppi politici che mirano esclusivamente al potere anziché al servizio. È necessario, invece, impegnarsi a dare una risposta agli ormai annosi mali sociali. È indispensabile riacquistare il senso e la voglia della partecipazione». Alla carenza sul versante imprenditoriale ha fatto riscontro un’inadeguata cultura del lavoro dipendente, segnata dalla logica del posto sicuro e non tanto da quella del lavoro concepito come diritto-dovere, secondo l’etica della professionalità. Hanno potuto così prosperare il clientelismo, l’assistenzialismo, l’illegalità.
Una così acuta analisi dei mali non solo della Sicilia o del Sud, si chiuse nel 1995, all’ultima visita, con una nota di ottimismo e di speranza: «Spetta alle genti del Sud – concluse il papa a Palermo, alla Fiera, sotto lo sguardo del Pantocrator – essere le protagoniste del proprio riscatto… E le ragioni di una cultura della moralità, della legalità, della solidarietà stanno progressivamente scalzando alla radice la mala pianta della criminalità organizzata». Partendo dal sacrificio di don Puglisi, dopo la rivolta della società civile, Giovanni Paolo II indicò così la strada del riscatto anche alla comunità ecclesiale. Attraverso un linguaggio nuovo e proprio dei cristiani – il linguaggio evangelico della profezia e della conversione – superò di slancio l’antico dibattito sui compiti e le competenze della Chiesa in terra di mafia. E la Chiesa stessa, negli anni successivi, ha iniziato a porsi il problema del proprio rinnovamento e della propria presenza nella società italiana. La cultura meridionale è bisognosa di radicali interventi purificatori e risanatori. Per questo, la comunità ecclesiale non può limitarsi a sterili denunce, magari prendendo in prestito slogan e atteggiamenti della società civile, ma deve continuamente confrontarsi con l’obiettivo della “inculturazione della fede”: “Parlare di evangelizzazione come inculturazione porta ad esplicitare l’esigenza di un confronto della prassi pastorale con la cultura diffusa.
Le Chiese del Sud, di fronte ai processi di secolarizzazione e di decristianizzazione della mentalità collettiva, hanno il compito di informare la mentalità collettiva a modi di pensare e di agire in consonanza con il messaggio cristiano. Il fine è quello di determinare un ambiente in cui la testimonianza cristiana non solo risulta possibile, ma riesce anche a incidere nella linea di una umanizzazione dei rapporti sociali. Dandosi questo compito, inevitabilmente le Chiese del Sud incrociano il tema della mafia, della camorra e della ndrangheta e, insieme alla mafia, alla camorra e alla ndrangheta, incrociano anche la via del martirio.
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