Il vivere è Cristo e il morire un guadagno

Il vivere è Cristo e il morire un guadagno

(Fil 1,21)

1. L’esperienza di Paolo

Prigioniero di Cristo: Paolo non solo appartiene a Cristo, come uno schiavo, ma si sente immedesimato con Cristo (cf. Gal 2,20). Egli è un prigioniero di speranza, della Parola. Anche se la morte lo conduce alla vera vita in Cristo pienamente realizzata, per il bene dei suoi figli, egli è disposto ad accettare questa vita con tutte le sue sofferenze. Paolo ha compiuto il suo cammino: non ha più pensieri uomini o preoccupazioni. Egli è rivolto completamente al Signore.

In Fil 1,21-24 troviamo una pagina del diario dei sentimenti di Paolo. Sono sentimenti che passano nel suo animo di prigioniero. Vita e morte sono messe a confronto e di entrambe sono valutati i vantaggi e gli svantaggi. Paolo parla di sé tenendo lo sguardo rivolto verso Cristo. Il discorso di regge su una serie di parallelismi: morire-andare; vivere nella carne-rimanere nella carne; frutta lavoro-per il vostro bene; essere con Cristo-vivere Cristo. Vivere+Cristo: vivere è soggetto, Cristo è predicato. L’accento è posto sul predicato: Cristo è già la vita, ma in una forma imperfetta; morire è entrare nella pienezza della vita di Cristo. La frase: vivere è Cristo prepara essere con il Cristo. La prima fase riguarda il presente; la seconda il futuro. La morte è concepita come un aumento, una maggiorazione, un di più in quanto Cristo è causa della vita. Per Paolo, dunque, vita e morte non sono un’alternativa: prevalga l’una o l’altra il risultato non muta.

Filippi è stata la prima città europea evangelizzata da Paolo su diretta sollecitazione dello Spirito che lo ha orientato verso la Macedonia (cf. At 16,6-7), nel nord dell’attuale Grecia. Paolo giunse a Filippi nel suo secondo viaggio, verso l’anno 50. Ebbe contatti con la sinagoga e poi incontrò la gente per strada, nelle piazze. Paolo ebbe buoni rapporti (cordiali e fraterni) con questa comunità.

In questa lettera Paolo parla con molta spontaneità. Paolo dà notizie alla comunità di Filippi della sua prigionia ed esorta a una vita cristiana dominata dalla carità, il che suppone tanta umiltà. Esorta a vivere nella gioia del Signore e a superare i precetti della Legge mosaica. Forse era prigioniero a Roma nel periodo 61-63 d.C. Nelle lettere dalla prigionia (Fil, Ef, Fm, Col) Paolo si presenta impedito di predicare il Vangelo e parla di catene che trascina per amore di Cristo (cf. Fil 1,7.12-17). Gli Atti dicono che Paolo fu incarcerato almeno tre volte: a Filippi insieme a Sila durante il secondo viaggio missionario (49-50) per una sola notte (cf. At 16,23); in Palestina, prima a Gerusalemme (cf. At 21,33ss), poi a Cesarea (cf. At 23,33ss.), dove fu trattenuto per due anni (cf. At 24,27) dal 58 al 60 d.C.; infine a Roma, dove fu condotto da Cesarea e dove rimase in libertà vigilata (cf. At 28,16.30).

2. Il vissuto di fede

Cristo è la vita di Paolo. Al centro del suo cuore e della sua vita vi è la Parola della Croce, l’Evangelo. Egli ha sperimentato la grazia del Vangelo, la giustificazione. Si è sentito amato da Cristo. Paolo scrive, forse, la lettera ai Filippesi dalla città di Efeso (?). Egli è prigioniero non per delitto comune bensì a causa del Vangelo. Il titolo di Prigioniero diventa il suo secondo nome (cf. Ef 3,1; Fm 1,10). Comunque, il timore di non vedere più Filippi è forte nell’apostolo. Il cuore della lettera ai Filippesi è sia lo stupendo inno cristologico sia la giustificazione per fede. Paolo invita i cristiani a vivere nella gioia che il Cristo ha arrecato con la sua presenza in mezzo agli uomini. La lettera ai Filippesi sarà stata scritta verso il 53-54. Tra il prigioniero e la comunità macedone lo scambio è forte e sincero, costante.

I filippesi hanno saputo del suo arresto e hanno mandato a Paolo dei doni. Filippi dista da Efeso una settimana di cammino. Quello che ci deve colpire di Paolo è il suo vissuto di fede: Cristo è diventato la sua stessa esistenza, lo scopo della sua vita. Ma di quale Cristo l’apostolo sta parlando. È il Cristo della kenosis, dello svuotamento, della morte di croce che poi il Padre ha innalzato. È quel Gesù che pur essendo nella forma di Dio non considerò un tesoro geloso – un possesso esclusivo e chiuso – la sua uguaglianza con Dio, ma svuotò se stesso, fino alla morte di croce. La kenosis del Cristo, dunque, è il cuore del pensiero di Paolo. Questi trova il senso della vita (intesa non come bìos, cioè vita fisica, ma quale zoè, vita eterna) nella pasqua di Gesù, nella risurrezione dai morti. Per Paolo, Dio è il Dio dei viventi, della vita, che vivifica. Ecco perché afferma: <Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente (1Tm 4,10)>.

3. Annunciare il Vangelo oggi

È necessario per ogni cristiano, oggi, soprattutto per i religiosi e per i presbiteri, la testimonianza della vita: essere con il Cristo. Cioè, vivere per lui, morire per il Vangelo.

Per i religiosi è indispensabile riscoprire il senso e la qualità della vita fraterna. Perché è l’esperienza del Cristo in mezzo ai fratelli a rendere credibile la propria fede. Nel cuore della vita consacrata vi è Cristo e la contemplazione del suo volto, crocifisso e risorto. Giovanni Paolo II, in più occasioni, ci ha esortati a “ripartire da Cristo” e dalla contemplazione del suo volto, presentando la vita consacrata come un dono[1]. Ci ricorda l’istruzione Ripartire da Cristo: «Le persone consacrate sono chiamate dallo Spirito alla dimensione profetica della loro vocazione. Esse, infatti, “sono chiamate a porre la propria esistenza a servizio della causa del Regno di Dio, lasciando tutto e imitando da vicino la forma di vita di Gesù Cristo”»[2]. La vita consacrata, attraverso «un’esistenza trasfigurata, partecipa alla vita della Trinità e ne confessa l’amore che salva»[3]. Ciò potrà avvenire mediante la riscoperta del Vangelo come forma di vita e del miglioramento della vita spirituale, superando «l’insidia della mediocrità […], dell’imborghesimento progressivo e della mentalità consumistica»[4]. Da qui l’invito alla purificazione liberatrice e la necessità di una partecipazione convinta e personale alla vita e alla missione della propria comunità, per “riparare” la casa del Signore a partire da noi stessi[5].

Per i presbiteri è indispensabile riscoprire il proprio essere sacerdotale come dono e impegno, grazia e responsabilità. Si tratta di stabilire con il Signore un rapporto profondo di comunione e agire secondo una spiritualità di comunione.

Sono attualissime le sollecitazioni di Giovanni Paolo II che, nella Novo millennio ineunte, al termine del giubileo del 2000, scriveva:

«Prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell’altare, i consacrati, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità.

Spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi, e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto.

Spiritualità della comunione significa inoltre capacità di sentire il fratello di fede nell’unità profonda del Corpo mistico, dunque, come “uno che mi appartiene”, per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia.

Spiritualità della comunione è pure capacità di vedere innanzitutto ciò che di positivo c’è nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio: un “dono per me”, oltre che per il fratello che lo ha direttamente ricevuto. Spiritualità della comunione è infine saper “fare spazio” al fratello, portando “i pesi gli uni degli altri” (Gal 6,2) e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie. Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz’anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita»[6].



[1] Cf. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale Vita consecrata (25-3-1996), nn. 1; 14; Id., Lettera apostolica Novo millennio ineunte (6-1-2001), n. 16.

[2] Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, Istruzione Ripartire da Cristo. Un rinnovato impegno della vita consacrata nel terzo millennio (19-5-2002), n. 1.

[3] Ivi 5.

[4] Ivi 12.

[5] Cf. ivi 14.

[6] Novo millennio ineunte 43.

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  1. Trevor

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