ISRAELE
Il dialogo tra Chiesa e Israele ha ricevuto un notevole contributo attraverso la lenta – e non sempre progressiva – ricezione del Vaticano II che attesta, in proposito, una «mutua conoscenza e stima» tra ebrei e cristiani (NA 4). Molto si deve anche alla riscoperta, da parte cattolica, delle radici giudaiche della fede cristiana e del significato storico-salvifico dell’annuncio del Regno da parte di Gesù e della missione affidata agli apostoli. Inoltre, la medesima coscienza dell’unità dei due Testamenti (l’Antico e il Nuovo, o anche il Primo e il Secondo, cf. DV 14-15) ha permesso di valutare lo specifico della proposta cristiana in ordine al tema della salvezza e rispetto alla funzione d’Israele come popolo eletto, la cui alleanza non è stata mai revocata da parte di Dio. La dichiarazione conciliare NA, al n. 4, riconosce un vincolo spirituale con il quale il popolo del NT è legato con la stirpe di Abramo, e anche un grande patrimonio spirituale comune tra cristiani ed ebrei.
Oggi abbondano altresì le letture giudaiche circa la messianicità di Gesù (profeta “da Israele”), come pure gli studi storico-critici a proposito del carattere ebraico della sua condizione socio-politica ed etico-religiosa (messia “di Israele”). Si è oramai consapevoli, però, anche del rapporto di discontinuità nella continuità (“relazione asimmetrica”) tra Israele e Chiesa. Tuttavia, Israele resta, sul piano storico, un signum electionis, con il privilegio di essere tutto il popolo eletto (cioè solo per Israele vi è una speranza collettiva di salvezza come popolo); mentre, sul piano escatologico, Israele non ha alcun vantaggio rispetto agli altri popoli (cf. Rm 9,4). Gli esegeti si preoccupano di recuperare anche il significato salvifico degli eventi narrati nelle Scritture ebraiche – per il popolo d’Israele e per le situazioni proprie del tempo storico – e di non rileggere esclusivamente l’AT in prospettiva del NT. Un’interpretazione totalmente tipologica e allegorica del Primo Testamento svuoterebbe di significato storico-teologico lo stesso percorso d’Israele e le esperienze concrete che il popolo eletto ha vissuto con la fede nel Dio unico. La dichiarazione conciliare NA tiene presente queste diverse prospettive, anche se a volte solo in nuce. Sono stati gli studi e le iniziative dialogiche successive a tale documento ad ampliare la riflessione teologica.
1. Partire da Auschwitz
Da un punto di vista esclusivamente storico-critico, è necessario affermare che il dialogo tra ebrei e cristiani è maturato a motivo delle sollecitazioni ricevute dai fatti tragici e drammatici del Novecento, il secolo più violento della storia. È in questa prospettiva che va collocata la redazione della dichiarazione conciliare NA. Il riferimento è al male provocato, a più di sei milioni di ebrei, a causa delle deportazioni naziste e dell’Olocausto (Shoah). La storia diviene il luogo teologico mediante il quale rileggere i tempi del male e gli interventi di Dio. I sopravvissuti ad Auschwitz sono divenuti gli interlocutori privilegiati del mondo e della stessa Chiesa cattolica. Anche il modo di fare teologia è cambiato – deve necessariamente mutare – dopo la Shoah (J.B. Metz). Così, sullo sfondo storico della compilazione della dichiarazione conciliare Nostra aetate è presente proprio la questione ebraica e il bisogno di esprimere la chiara condanna dell’antisemitismo. Certamente, gli abissali interrogativi sollevati dalla Shoah non possono ridursi a semplici occasioni per riproporre le verità bibliche circa il rapporto popolo eletto-Chiesa.
Prendere sul serio Auschwitz significa confrontarsi radicalmente con il problema del male e gli spazi ambigui della libertà. Il dialogo tra ebrei e cristiani, dunque, avviene passando per la storia: la visione cristiana degli ebrei è maturata nel tempo, passando per le conseguenze catastrofiche della seconda guerra mondiale e la lenta ricezione del Vaticano II, come pure mediante il riconoscimento dello Stato d’Israele da parte della Chiesa cattolica e dell’Onu. Dalla condanna dell’antisemitismo si è poi arrivati a esprimere la profonda solidarietà con il popolo ebraico, fino a riconoscere le proprie colpe e responsabilità – anche da parte cristiana – per l’Olocausto.
In maniera più sistematica, è lecito riconoscere quattro fasi nella storia del dialogo ebraico-cristiano: dall’orrore innanzi alla Shoah e alle sue gigantesche dimensioni (in cui si richiamano anche le colpe e le responsabilità non solo dell’Occidente ma pure dei cristiani) al tempo della benevolenza e dell’interesse sincero per gli ebrei (la loro storia, le origini, gli sviluppi, le Scritture); l’interesse teologico per la comprensione dei fondamenti del dialogo ebraico-cristiano (in questa fase è notevole la produzione di documenti e di studi biblico-teologici); un nuovo interesse per gli scambi teologici orientati a riconoscere la dignità messianica d’Israele; il riconoscimento della dipendenza che la storia di fede dei cristiani ha nei confronti degli ebrei o verso il dialogo che avviene sul piano della identità religiosa di ciascuno (è il tentativo di definire se stessi senza andare contro gli ebrei o escludendo questi ultimi). Certamente, ancora oggi, il dialogo – tra cristiani ed ebrei e non solo – appare complesso e avviene a più livelli: teoretico, pragmatico, etico, socio-politico, filosofico, etc…
Non mancano, comunque, sia da parte cristiana che giudaica, critiche e tensioni, nonché resistenze. Inoltre, si insiste molto sulla collaborazione tra ebrei e cristiani per la pace, la giustizia, la salvaguardia del creato, il rispetto della libertà religiosa. Sembra prevalere, da parte ebraica, l’interesse per le questioni etiche e sociali, come pure la necessità di sostegno socio-politico per la difficile situazione della Palestina e per il revival nazista tra gruppi estremisti europei e fanatici islamici. Da questo punto di vista, il dialogo ebraico-cristiano è ancora troppo ecclesiale-sinagogale e troppo poco pro mundi salute. In occasione della pubblicazione del messale di Pio XII e del motu proprio data Summorium pontificum (circa l’uso della liturgia romana anteriore alla riforma effettuata nel 1970), si sono riscontrate alcune tensioni: sia in ambito cristiano, a proposito della riforma liturgica e circa il rischio d’intaccare l’autorità del Vaticano II, sia in ambito giudaico, per la preghiera del venerdì santo per ciò che concerne la conversione degli ebrei.
Resta fondamentale, dal punto di vista ecclesiologico, una domanda: “Come rileggere il rapporto Chiesa-Israele?”. Attraverso una teologia della sostituzione? Mediante un’interpretazione tipologica? Con il recupero della funzione originale e fontale della Chiesa già rappresentata dal popolo dell’alleanza?
2. La «santa radice» (Rm 11,16)
Il n. 4 della dichiarazione conciliare NA è dedicato esclusivamente alla religione ebraica e costituisce il cuore dell’intero documento. In tale paragrafo si afferma quanto segue: vi è un vincolo spirituale che lega il popolo del NT (la Chiesa) alla stirpe di Abramo (Israele); tutti i fedeli di Cristo, in quanto figli di Abramo, sono inclusi nella vocazione di questo patriarca; nell’esodo del popolo eletto è prefigurata la salvezza ecclesiale; si riconosce l’antica alleanza come segno di salvezza; Cristo ha riconciliato ebrei e gentili con la sua morte di croce; tale morte è segno di unità tra i due popoli; si riconoscono le radici ebraiche della Chiesa (gli apostoli); gli ebrei, pur non avendo riconosciuto Gesù come Messia, rimangono ancora carissimi a Dio (cf. Rm 11); vi è l’attesa escatologica per il riconoscimento di Cristo quale Signore; esiste un grande patrimonio spirituale che unisce cristiani ed ebrei, da qui il bisogno di promuovere e raccomandare la mutua conoscenza e stima (con studi biblici e teologici e un fraterno dialogo); la morte di Cristo non può essere imputata indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né a quelli del nostro tempo; gli ebrei non sono rigettati da Dio, anche se la Chiesa forma il nuovo popolo di Dio; si scongiura ogni forma di persecuzione e di violenza contro gli ebrei.
Il paragrafo 4 della NA costituisce uno degli esiti più positivi del Vaticano II, anche se la sua redazione finale non è stata esente da ripensamenti, perplessità, esitazioni, e per tale motivo viene considerato uno testo modesto e, allo stesso tempo, innovativo. Modesto perché è alquanto isolato: infatti, la relazione tra Chiesa e Israele non appare in modo esplicito nelle quattro costituzioni conciliari, né tocca per esempio la liturgia; inoltre, si parla del rapporto con l’ebraismo all’interno del dialogo con le altre religioni, e non si accenna al dramma della Shoah. Innovativo perché prova a rileggere concretamente il rapporto tra ebrei e cristiani, e ammette una ricezione che va oltre il testo stesso. Infatti, nei commenti a NA 4 si fa notare che anche la formazione del NT deve molto alla tradizione ebraica, come pure il costituirsi della liturgia e delle prime celebrazioni della Parola e dell’eucaristia. È per mezzo del popolo eletto che alla Chiesa è stato donato un canone, una funzione propria. Il basso profilo teologico del documento NA riceve amplificazioni e contenuti nei commentari successivi alla pubblicazione della dichiarazione conciliare. Uno dei nodi centrali di NA è la funzione d’Israele rispetto alla missione della Chiesa. Tematica che nel testo resta in superficie e che crea conflitti nel momento in cui facciamo un confronto con il testo conciliare di LG 9, ove la Chiesa appare quale “nuovo e vero Israele”, seguendo, qui, una teologia della sostituzione.
Israele è il popolo eletto e svolge un ruolo decisivo per la salvezza di tutti i popoli. Perciò, la stessa Chiesa non potrà percepire la propria identità e originalità al di fuori della “santa radice” che è l’Israele di Dio (cf. Rm 11,16). L’apostolo delle genti considera la comunità dei credenti in Cristo come l’oleastro innestato sull’olivo e non, come apparirebbe naturale, la pianta buona innestata su quella selvatica. Di conseguenza, Paolo riconosce un ruolo centrale e fondamentale alla comunità giudaica in virtù della sua elezione. La comunità cristiana è, dunque, sostenuta, portata, dalla radice (cf. Rm 11,18). Vi è una priorità accordata a Israele che non può essere sottaciuta. Così, la stessa fede dei pagani è considerata quale strumento per suscitarne la gelosia, in ordine sia al ruolo che il popolo eletto continuerà ad avere nella storia, sia al futuro, escatologico innesto del popolo eletto sul proprio olivo (cf. Rm 11,24) nel tempo della finale reintegrazione dei due popoli (cf. Rm 11,25). Infatti, lo stesso rifiuto d’Israele diviene una condizione provvidenziale affinché la salvezza giunga a tutte le genti (cf. Rm 11,11). I pagani costituiranno, poi, il pungolo per l’ultima reintegrazione. È questo il misterioso disegno di Dio secondo Paolo a motivo della fedeltà all’alleanza. Perché i doni e la chiamata di Dio restano irrevocabili (cf. Rm 11,29).
Occorre, allora, riconoscere una complessa manifestazione della storia della salvezza che intreccia la vocazione di Israele con la chiamata della Chiesa e il destino di tutti i popoli della terra. Ecco, dunque, il filo di continuità tra Israele e la comunità dei cristiani: vi è la “santa radice” come punto di origine, garanzia di un futuro e alimento e sostentamento per la vita presente. Certamente, la questione sul “come pensare” la relazione tra il popolo del patto e la comunità di Gesù è questione tutt’ora aperta che ha visto impegnati santi e teologi, padri della Chiesa e uomini di pensiero d’ogni secolo e tradizione culturale. Un dato è certo fin dall’inizio: la memoria della Chiesa (la sua identità) si annullerebbe al di fuori della santa radice d’Israele. Perché Dio non ha divelto le radici dell’albero, ma ha solo tagliato alcuni rami secchi e senza vita. La radice (Israele) rimane, dunque, valida e santa (cf. Rm 11,16): essa rappresenta i patriarchi d’Israele, dai quali ha avuto inizio la storia della salvezza.
È da questi patriarchi che ha avuto inizio la storia della salvezza: essi sono paragonati alle primizie del pane che dovevano essere offerte al Signore (cf. Nm 15,17-21), comunicando così un carattere di consacrazione anche alla rimanente pasta. Tutto ciò sta a dire che, proprio in forza di questa sua comunicazione con i “ceppi” vitali della sua elezione e della sua santità, Israele rimane tuttora popolo santo. E, di conseguenza, i pagani possono diventare santi solamente se innestati sul tronco israelitico e se partecipano della radice e della pinguetidune dell’olivo (cf. Rm 11,18). Insomma, tutti ricevono qualcosa da Israele! È la radice che porta l’albero e non viceversa.
Il riconoscimento di Gesù quale Messia e Signore da parte degli ebrei avverrà nel momento in cui la totalità dei pagani – la pienezza delle genti – sarà entrata nella Chiesa (cf. Rm 11,25). Questa consolante verità, carica di speranza e di tensioni, è già accennata in alcuni passi evangelici (cf. Mt 23,39; Lc 13,35), tra cui citiamo Lc 21,24: «E Gerusalemme sarà calpestata dai gentili, fino a che non siano completati i tempi delle nazioni». Il mistero (progetto di Dio) che Paolo rivela riguarda la fine: tutto Israele sarà salvo (cf. Rm 11,26). Il motivo per cui gli ebrei saranno reinseriti nel mistero di Cristo riguarda i doni e la vocazione di Dio: sono irrevocabili, cioè non soggetti ad alcun pentimento da parte di Dio. Gli ebrei, quantunque nemici di Dio perché non hanno voluto obbedire al Vangelo, sono ancora amati a causa dei padri, ai quali è legata la loro elezione.
La continuità tra la Chiesa nascente e Israele è manifesta, biblicamente, già nell’uso del linguaggio: per entrambi si riconosce l’uso dell’espressione “popolo di Dio”, “comunità radunata-convocata” (‘edah, in greco sunagôgê, e qahal, in greco ekklêsía). Il NT userà, per la comunità cristiana, il vocabolo ekklêsía per designare la comunità convocata da Dio mediante l’annuncio della fede pasquale (cf. 1Cor 1,2; 10,32; 11,16.22; 15,9; 15,9; 2Cor 1,1; Gal 1,13; 1Ts 2,14; 1Ts 1,4; 1Tm 3,5-15; At 20,28). Con i termini ebraici ‘am e gojî s’indicheranno, rispettivamente, il popolo eletto e gli altri popoli, resi in greco attraverso i vocaboli laós e éthnê, usati per qualificare il “popolo di Dio” (cf. 1Pt 2,10; Rm 9,25; 2Cor 6,16) da una parte e i pagani o le genti dall’altra. È giusto ritenere anche questo dato: il NT riconosce una certa continuità tra Israele e la Chiesa. Entrare nella Chiesa nascente significava, alle origini, partecipare della dignità d’Israele. Inoltre, come Israele, la comunità cristiana si percepirà quale popolo in cammino, in continuo esodo. La stessa scelta dei dodici diviene una realtà esplicativa e più che simbolico-formale per comprendere il rapporto tra il popolo di Abramo e i discepoli di Gesù Cristo. Vi è una continuità nell’unica alleanza tra Israele e Chiesa nascente. Entrambe le comunità sono il popolo “di Dio”.
Israele è proprietà di Dio, è il popolo che egli ha fatto e plasmato (cf. Is 43-44; Es 15,16), che ha acquistato per sé e preso per mano (cf. Ger 31,31; Eb 8,9), liberandolo dalla schiavitù d’Egitto (cf. Es 6,6; 15,13), destinandolo come sua eredità (cf. Dt 4,37). Israele è il popolo che Dio ha chiamato e separato da ogni altro popolo (cf. Lv 20,24-26), santificandolo per sé (cf. Lv 22,32-34). Vi è un rapporto singolare tra Israele e Dio ben espresso da metafore, simboli, segni, paragoni. Si tratta d’una relazione che è stata sperimentata come salvezza, liberazione, incontro, promessa, elezione, chiamata. Israele è “di Dio”, e Dio è il “Dio d’Israele”. Da qui le forti suggestioni del linguaggio biblico: Israele è il partner dell’alleanza, la vigna del Signore (cf. Is 5,1-7), il gregge (cf. Is 40,11), il servo (cf. Is 41,8), il figlio (cf. Os 11,1), la sposa (cf. Os 1-3) del Signore. Tuttavia, queste stesse immagini, sia nel NT che nella tradizione cristiana antica, saranno utilizzate per designare la Chiesa (cf. LG 6).
La profonda unità tra Israele e la Chiesa porta alcuni teologi a parlare d’una sola alleanza all’interno della quale s’allarga l’orizzonte storico di Gesù Cristo. Israele resta il popolo eletto, all’interno della cui alleanza si situerebbe l’evento Gesù Cristo come dilatazione dell’evento di grazia voluto da Dio nella chiamata d’Israele. Questa lettura dell’unica alleanza – secondo la quale Israele è la radice e la Chiesa l’albero con i suoi rami – presenta due grandi rischi: favorire la vecchia tesi della sostituzione (la Chiesa realizza compiutamente ciò che è implicito in Israele, e perciò ne prende il posto nel mistero della redenzione); ridurre la novità cristiana, cuore del Vangelo, a una dimensione puramente quantitativa della salvezza (Cristo è motivo dell’ingresso dei pagani nel mistero di Dio rispetto alla salvezza già avviata con Israele). La tesi dell’unicità dell’alleanza favorisce gli elementi di continuità tra la stirpe di Abramo e la comunità dei credenti in Cristo, però nega i fattori (storici, teologici, biblici, spirituali e culturali) di discontinuità dell’evento Cristo (passione, morte e risurrezione).
3. Novità e complementarietà
Il cristianesimo è la persona viva di Gesù Cristo messo a morte nella carne ma reso vivo nello spirito. La Chiesa vive di questa novità, nasce dalla pasqua di Gesù, il Signore. Per cui, ciò che l’ebraismo ha posto irrevocabilmente al termine della storia, come il momento in cui culmineranno gli eventi esterni, è divenuto nel cristianesimo il centro della storia, la quale si trova allora promossa al titolo particolare di “storia della salvezza”. Cristo è l’eschaton, la novità di Dio nella storia, ove l’hic et nunc della salvezza si completano. E mentre per Israele l’azione di Dio è manifesta solo inizialmente nell’alleanza, e attende di essere completata nella riconciliazione universale (uomo, mondo, cosmo), per il cristiano, la pienezza di questa pace messianica si è avverata completamente nella vita di Gesù Cristo. Il “non ancora” della salvezza attesa dall’umanità è anticipato nel novum di Gesù Cristo, il risorto dai morti. Gesù è il Messia atteso dalla speranza ebraica, il compimento di tutte le promesse. In tale eschaton vi è la continuità con Israele e la discontinuità: nell’umano escatologico di Gesù tutto si è compiuto, tutto viene anticipato.
La Chiesa sente d’accogliere la speranza d’Israele e di vederne ogni realizzazione nell’umano di Gesù Cristo. Da qui la coscienza d’una nuova alleanza che non rinnega la prima o l’antica, ma ne riconosce l’ampliamento (o superamento?) in Cristo e la piena realizzazione. La comunità dei credenti, secondo le testimonianze del NT e dei primi secoli cristiani, ha maturato una coscienza carismatica e messianica, fino a interpretarsi quale Israele di Dio (cf. Gal 6,16) in senso spirituale e non storico, contrapponendosi all’Israele secondo la carne (cf. 1Cor 10,18). L’appartenenza al popolo eletto non è storica, né giuridica, bensì spirituale. Sono figli d’Israele solo quelli della promessa (cf. Rm 9,6-8). Si assiste, così, al passaggio dal vecchio Israele, che non ha saputo riconoscere la novità sorprendente del segreto messianico, al vero Israele, aperto a ebrei e gentili, cui sarà dato il regno dei cieli.
La Chiesa reca con sé la novità della nuova alleanza che è strettamente legata alla pasqua di Gesù Cristo (cf. 1Pt 2,9). Chiesa e Israele non stanno in rapporto come il nuovo all’antico patto, né come sostituiti o antagonisti, bensì come partner di un medesimo progetto salvifico di Dio. Chiesa e Israele sono “l’uno per l’altro”, in un rapporto di complementarietà e di amicizia: li unisce un patrimonio spirituale immenso (cf. NA 4), nonché le Scritture e l’attesa del compimento del mondo. La strumentalizzazione dell’AT e del patto tra Dio e Israele avviene quando si opera una lettura allegorica delle Scritture ebraiche (spiritualizzazione dei testi sacri, della Torah), come anche nel caso dell’interpretazione antologica: solo il resto d’Israele entra a far parte della nuova alleanza, costituendo il meglio che l’AT ha saputo esprimere e che è poi confluito nella Chiesa. Il carattere storico degli eventi salvifici dell’AT permane come valore in sé e per sé, prima ancora d’ogni forma di tipologizzazione e di allegorismo. Si può sostenere, dunque, un’interpretazione complementare a proposito della relazione tra Chiesa e Israele.
Il Primo Testamento ha un valore strutturale: costituisce l’identità d’Israele e della stessa messianicità di Gesù, e offre anche una concezione del mondo e della storia che ha assunto rilievi nuovi nell’esperienza di Gesù Cristo. Questi completa la rivelazione e il senso escatologico di quell’economia salvifica che ci è stata donata nella storia a partire dalle prime alleanze tra Dio e l’uomo insieme al suo mondo. Gesù di Nazaret è vissuto, ed egli continua a vivere, non solo nella sua Chiesa, che si rifà a lui (più realisticamente: nelle molte Chiese, e sette che si rifanno al suo nome), ma anche nel suo popolo, del quale egli personifica il martirio.
Il rapporto tra Israele e la Chiesa, in NA 4, viene esplicato con un triplice linguaggio: di origine (lì dove si afferma che la Chiesa di Cristo riconosce gli inizi della sua fede e della sua elezione nella storia dei patriarchi); di prefigurazione o tipologia (quando si afferma che la salvezza della Chiesa è misticamente prefigurata nell’esodo del popolo eletto); d’innesto (in rapporto alla radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico). Oggi si rinuncia a una lettura esclusivamente tipologica dell’AT e della funzione d’Israele, anche se l’orientamento teologico di fondo della NA è sostitutivo. Certamente, crea disagio parlare del nuovo popolo d’Israele in riferimento alla Chiesa. Alcuni teologi preferiscono parlare di un solo popolo di Dio sia pur diviso. Si parte dalla convinzione che l’elezione del popolo ebraico fa parte del mistero dell’agire di Dio nella storia che trova nella Chiesa un’esperienza nuova che non esclude la salvezza operata in precedenza.
4. La ricezione storico-teologica di NA 4
La Nostra aetate costituisce l’inizio di un cammino nuovo incentrato su due diverse direttrici: le relazioni cristiano-ebraiche e il dialogo interreligioso. La Santa Sede avviò il dialogo sistematico con il mondo ebraico a partire dal 1965. Da parte degli ebrei, nel 1970 venne fondato l’International Jewish Committee on Interreligious Consultations, un’organizzazione che comprende quasi tutte le agenzie più importanti degli ebrei impegnate nel dialogo interreligioso. Dal 1970 al 2008, sono stati organizzati 20 incontri a livello internazionale. L’ultimo è avvenuto a novembre 2008 in Ungheria (a Budapest) con il congresso internazionale sul tema: La società civile e la religione, prospettive cattoliche ed ebraiche. Il motivo principale alla base di questo convegno a Budapest è quello di vedere la situazione del dialogo tra cattolici ed ebrei nei Paesi dell’Europa dell’Est. È stata scelta la città di Budapest sia per la presenza in urbe d’una comunità ebraica abbastanza grande sia perché in questo Paese il dialogo ha compiuto molti progressi.
A partire dall’inizio del dialogo ufficiale della Chiesa cattolica con il mondo ebraico sono state percorse tante tappe importanti. Per esempio, Giovanni Paolo II è stato il primo papa a visitare una sinagoga, a pregare ad Auschwitz per le vittime della Shoah, ad andare in Israele. Ha pregato al Muro del Pianto, ha visitato Yad Vashem, il monumento e il museo per l’Olocausto. In un discorso rivolto alla comunità ebraica di Magonza nel 1980, affermò che l’alleanza con Israele non è stata mai revocata. Ciò significa che Israele deve continuare ad esistere nella sua particolarità e la sua elezione diviene testimonianza innanzi a tutti i popoli della terra. Dopo sei settimane dalla sua elezione, Benedetto XVI ha ricevuto la prima delegazione ebraica; poi dopo quattro mesi ha visitato la sinagoga a Colonia; dopo un anno il viaggio ad Auschwitz per pregare per le vittime della Shoah. In un’intervista del 31 ottobre 2005, Ángel Kreiman, gran rabbino del Cile dal 1970 al 1990, allora vicepresidente internazionale del Consiglio Mondiale delle Sinagoghe, sostenne, in un atto commemorativo per i 40 anni della pubblicazione della dichiarazione Nostra aetate, “che siamo giunti” a una “nuova tappa” del rapporto tra giudei e cristiani, pronti ad “entrare in una terra promessa” nella quale – per i cristiani – il carattere giudaico della predicazione di Gesù e degli apostoli ha un “fondamento teologico”. Il sostegno dei cristiani al giudaismo è una forza spirituale religiosa che cresce di luogo in luogo. Oramai è chiaro che il dialogo con gli ebrei “non è un’opzione” bensì “un dovere”, ed esige, da parte cristiana, d’accettare il popolo d’Israele come il segno dell’“alleanza originale”. Giudaismo e cristianesimo sono uniti contro il paganesimo e professano la fede nel Dio unico.
Ci si accorge, allora, che i risultati della NA trascendono i contenuti e le proposte di coloro che ne progettarono la redazione finale. Giovanni XXIII si convinse – anche in virtù di un memorabile colloquio avuto con lo storico ebreo francese Jules Isaac – dell’opportunità che il Concilio emanasse un documento sugli ebrei volto, innanzitutto, a condannare l’antisemitismo e a scagionare gli ebrei dalla falsa accusa di deicidio. L’inedita impresa fu affidata a una commissione presieduta del cardinale tedesco Agostino Bea: bisognava predisporre i vari schemi da sottoporre al dibattito conciliare. Il cammino fu lungo e pieno di sorprese. Si pensò dapprima a un paragrafo da inserire all’interno di un altro testo, poi a un piccolo documento a se stante e così via. Alla fine nacque la Nostra aetate. Per comprendere i contenuti del testo basta guardare al suo sottotitolo: Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa cattolica con le religioni non cristiane. L’orizzonte s’era improvvisamente ampliato. Ci si occupava non solo di ebrei, ma di tutte le altre religioni. In quattro decenni – la dichiarazione fu approvata il 28 ottobre 1965 – ci si è resi sempre più conto che la NA costituisce l’inizio di un cammino nuovo incentrato su due diverse direttrici: le relazioni cristiano-ebraiche e il dialogo interreligioso.
La NA esprime due convincimenti importanti: la perennità dell’alleanza tra Dio e il popolo ebraico; la denuncia dell’odio, delle persecuzioni e della manifestazioni di antisemitismo rivolte da chiunque e in ogni tempo nei confronti degli ebrei. Il nodo teologico emerso dalla ricezione della NA è stato espresso di recente con molta efficacia dal cardinale Walter Kasper: “Come si può conciliare la tesi del perdurare dell’alleanza [tra Dio e il popolo d’Israele] con l’unicità e l’universalità di Gesù Cristo, costitutive entrambe, nel cristianesimo, della nuova alleanza?”. L’interrogativo è netto, le risposte ancora incerte. Si tratta di un tema nevralgico per la coscienza che la Chiesa cattolica ha di se stessa. Inoltre, dal modo in cui si risponderà a questa domanda deriveranno conseguenze decisive in relazione ai rapporti tra la Chiesa e tutte le altre religioni.
Voci correlate
Oikonomia, salvezza, religioni, Chiesa universale, Ekklesia (terminologia biblica), ricezione, Ecclesia ab Abel, indole escatologica, popolo di Dio, appartenenza, pace (Chiesa e).
Bibliografia essenziale
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