Il sacro testo del Corano
Storia, esegesi e teologia
Per capire il significato storico, giuridico, teologico, religioso e culturale del Corano è conveniente lasciar parlare il testo stesso. Un bel numero di sure (i capitoli in cui il libro del Corano si divide, sono ben 114) lo presenta come il libro sacro che viene da Dio (cf. sure 3,4.7; 4,82; 6,114.155-157; 7,2; 18,1; 20,2-4; 21,50; 29,46-49; 32,2; 38,1-8; 40,2; 41,2.41-42; 42,17; 45,2; 46,2). In alcuni passi, poi, il sacro testo del Corano viene presentato come la “Madre del Libro”, cioè il prototipo (o meglio, in arabo, matrice) del Corano che è già presso Dio, quasi una sorta di Parola eterna che viene da Dio, l’Unico (cf. sure 13,39; 43,4; 56,77-78; 80,13-16; 85,21-22). Addirittura, si trovava già nei libri sacri degli antichi (cf. sura 26,196). Esso, infatti, conferma i libri precedenti, cioè l’AT e il NT (cf. sure 10,37; 12,111; 16,44).
Il Corano stesso, poi, offre altri elementi per descrivere il valore unico e sacro di questo testo che non appare rivelato o ispirato da Dio, bensì consegnato direttamente al profeta Maometto. È bene chiarire questo dato fin dall’inizio: nella visione islamica, non si parla di ispirazione né si riconosce l’autore umano, né si riduce il testo sacro a un’opera letteraria che è in qualche modo legata al genio dell’autore umano, all’artista-poeta o scrittore. Maometto, il sigillo dei profeti, lo ha ricevuto e trasmesso attraverso la recitazione orale e un processo di memorizzazione costante. Perciò, il Corano è, per eccellenza, “il Libro” composto da versetti sapienti e chiari (cf. sura 11,1) e fu rivelato per mezzo dell’angelo Gabriele (cf. sure 2,97; 26,210-211; 53,4-12). Non è inventato da Maometto né da altri (cf. sure 10,37; 11,13.35; 16,103; 25,4; 32,3; 46,8; 69,44-47). Anzi, Maometto, il lodato e bene amato, non ha mai recitato né copiato alcun altro libro religioso o considerato divino (cf. sura 29,48).
Per il suo carattere sacro, non è possibile che alcun essere umano cambi qualche parola o significato del Corano stesso (cf. sure 10,15; 18,27). Questo testo sacro svolge un ruolo fondamentale nella conoscenza di Dio, nella pratica del culto e nell’atteggiamento pratico del fedele musulmano. Infatti, il Corano non solo è luce e libro chiarissimo (cf. sure 5,15; 11,1; 12,1; 15,1; 26,2; 27,1; 28,2; 31,2; 45,20), e ancora sublime e glorioso (cf. sure 15,87; 50,1), ma è anche il criterio del bene e del male (cf. sure 3,4; 25,1), ed è la guida di Dio (cf. sure 7,203; 39,23). Per questo, il Corano contiene vari argomenti e ogni sorta di esempi affinché gli uomini se ne servano per la riflessione (cf. sura 17,41.89). Addirittura, il sacro Corano contiene tutti i segreti del cielo e della terra (cf. sura 27,75) ed è donato al credente per la recitazione e la sua memorizzazione (cf. sure 7.204; 16,198; 39,23; 73,4.20). La recitazione permette al credente di rifugiarsi in Dio e il suo ascolto intenerisce la pelle e il cuore al ricordo stesso di Dio. La recitazione esprime l’essenza del Corano e rinvia all’ascolto profondo della Parola divina. I musulmani affermano con insistenza il carattere sacro del Corano appellandosi alla bellezza dello stile e ai suoni che ne derivano dalla recitazione in arabo classico o antico.
Da queste semplici testimonianze del Corano ex-sese si comprende che accostarsi a questo testo sacro è possibile solamente accogliendo quella visione culturale e religiosa che è propria della cultura araba classica e poi della nascita dello stesso islam. Oggi è poco praticata, ad esempio, un’esegesi coranica più attenta al dato storico-critico e al senso letterale del testo. Anche se alcuni riformatori dell’islâm auspicano un tipo di studio esegetico sensibile ai contesti storico-culturali del tempo e alle analisi narrative del testo. Ciò per favorire un dialogo più proficuo e allo stesso tempo sereno con la modernità e con le scienze della filologia e dell’antropologia. Come pure per superare leggi e decreti che oggi non hanno più motivo d’essere rispetto alla società beduina che è alle origini dell’islâm e, perciò, dello stesso Corano. A volte, infatti, alcune interpretazioni fondamentaliste e fuori tempo del Corano dipendono da un certo irrigidimento di prospettive normative del testo sacro o di analisi lessicografiche per niente integrate con il contesto storico-culturale e socio-politico, nonché etico-religioso, in cui un detto, una sura, un passo del Corano è stato formulato[1].
1. La struttura
Il Corano è il frutto d’una recitazione più che della semplice compilazione scritta. I racconti al suo interno sono più attenti ai fatti pratici, agli eventi, e non alle loro interpretazioni oggettive e sistemiche. C’è un contenuto, poi, che è meno speculativo di quello che può sembrare: l’ortoprassi, l’etica e il modo d’agire in una determinata situazione costituiscono lo stile di fondo del testo coranico, il suo contenuto. Realtà e pensiero, eventi e parole, fatti e decisioni, formano l’essenza che trova forma in un linguaggio simbolico, a volte apocalittico, carico di metafore, suggestivo, allegorico. La stessa parola del Corano vuole descrivere ma soprattutto annunciare: è una realtà, un fatto, un’energia, una potenza.
1.1. I capitoli o sure
Il Corano si compone di 114 sure o capitoli (sûra). Questi, poi, sono suddivisi in versetti (âyât) abbastanza variabili; è possibile rintracciare una qualche unità tematica nelle sure più brevi – quelle più antiche – mentre risulta molto complesso ogni tentativo d’ordinare i messaggi delle sure più lunghe. Aprendo il testo sacro, ci s’accorge subito che le sure sono sparse in ordine decrescente: dalle più lunghe a quelle più brevi, ad eccezione della prima che è l’aprente. Forse, questo sistema di catalogazione è stato favorito dal fatto che le sure lunghe sono le più difficili da ricordare a memoria e, quindi, occorreva trascriverle all’inizio.
Gli studiosi hanno trovato utile la suddivisione cronologica, distinguendo tra sure meccane e sure del periodo medinese (anche se non tutti i versetti d’una sura sono dello stesso periodo). Oggi, la critica occidentale riprende le più diverse teorie per il raggruppamento delle sure.
In linea generale, si tende a seguire questa suddivisione cronologica: sure rivelate alla Mecca dall’inizio della missione di Maometto verso il 610 d.C. fino all’egira del 622 (età del pellegrinaggio o migrazione dalla Mecca a Medina); sure rivelate a Medina negli ultimi dieci anni della sua vita, fino al 632. S’intravedono, poi, altre classificazioni.
Le sure del primo periodo meccano (610-614), sono circa venti, le più brevi, presentano versetti sincopati, ritmati, e invitano alla penitenza, annunciando il castigo e il giorno del giudizio (abbondano i riferimenti alle minacce per gli empi), e proclamano l’unità e l’unicità di Dio[2]. Oltre a descrivere i tormenti per l’inferno, sono narrate anche le delizie per chi vivrà in paradiso[3].
Le sure del secondo periodo meccano (615-616) insistono sull’ora della risurrezione e del giudizio e accentuano la polemica con i miscredenti[4].
La sura 27, denominata “Le formiche” (An-Naml), dopo una breve introduzione che riafferma l’autenticità del Corano (vv. 1-6), e la ripetizione delle storie dei personaggi e dei profeti antichi, biblici e leggendari, nonché in seguito alla riflessione sulla potenza di Dio, ripropone il tema del giudizio finale ai vv. 59-93. S’afferma il carattere imprevedibile dell’ora del giudizio finale e si descrive la bestia apocalittica.
Le sure del terzo periodo meccano (617-620) sviluppano il tema dell’unità-unicità-onnipotenza di Dio, offrendo precisazioni circa la preghiera rituale, la decima, le interdizioni alimentari[5]. Ritorna anche il tema dell’accusa verso i miscredenti[6]. Per esempio, la sura 42 (“La consultazione”), dopo aver riproposto nella prima parte un concetto fondamentale della fede coranica – il fatto cioè che esiste una sola vera religione, l’islâm –, si sofferma sull’ora del giudizio, sulla bontà e giustizia divine, sulla condotta dei credenti e sulla punizione dei miscredenti.
Le sure medinesi hanno un tono molto diverso da quelle meccane: in esse prevale l’aspetto giuridico, normativo, legislativo, nonché le questioni rituali e amministrative[7]. È il caso, ad esempio, della dichiarazione dell’illiceità, così come recita la sura 66 (“Interdizione” o At-Taḥrîm). I primi cinque versetti di questa sura riprendono il caso d’un intrigo nell’harem del Profeta. Il personaggio chiave è una delle mogli del Profeta, Ḥafṣa bint ‘Umar. Costei, entrando nella propria stanza, trovò Maometto insieme a una ragazza d’origine copta donatagli dal governatore d’Egitto. La giovane si chiamava Maria. Ḥafṣa protestò e Maometto le giurò che non avrebbe avuto più legami con Maria. Tuttavia, il Profeta si fece promettere di non parlarne con le altre mogli. Invece, in poco tempo, tutto l’harem seppe dell’accaduto. La minaccia d’un divorzio generale è contenuta al v. 5 e diventa un modo per tutelare la pace e l’ordine nell’harem, fra le donne del Profeta. Si ha un vero e proprio caso di scioglimento di giuramenti.
Anche se le datazioni delle sure variano da studioso a studioso, si riscontrano, in ordine logico, tematiche particolari per ogni periodo.
Il primo periodo meccano riguarderebbe soprattutto la contestazione globale dell’ordine stabilito, la rivendicazione della giustizia sociale contro i mercanti e i ricchi notabili meccani che disprezzavano i poveri, gli orfani, gli emarginati. Segue anche una denuncia per l’usura, l’agnosticismo e una predicazione a tinta escatologica come già più volte segnalata in precedenza. Si tende a parlare anche dei segni della risurrezione. La sura 96, intitolata “Il grumo di sangue”, è considerata dalla tradizione islamica come la prima rivelazione ricevuta da Maometto (vv. 1-5 o, per altri commentatori, vv. 1-8). I versetti successivi (9-19) contengono la polemica contro l’acerrimo nemico di Maometto, il notabile meccano Abû’l-Ḥakam, soprannominato dai musulmani Abû Jahl (“Padre dell’ignoranza”). La sura del grumo di sangue afferma la bontà divina e la pervicacia umana e afferma:
«Proclama [recita o leggi ad alta voce], nel nome del tuo Signore che ha creato: ha creato l’uomo da un grumo di sangue! Proclama! Nessuno infatti è generoso come il tuo Signore! È lui che ha insegnato a usar la penna [ha istruito l’uomo mediante la penna], ha insegnato ciò che l’uomo non sapeva. E l’uomo, ahimé, prevarica, appena crede d’esser ricco! Ma tutto poi ritorna al tuo Signore» (96,1-8).
Di forte impegno, per il Profeta, sarà stato il secondo periodo meccano: Maometto percorre continuamente il Paese per predicare il nuovo messaggio tra successi e rifiuti. I capitoli sono grandiosi, e si presentano con versi, prosa ritmata, metafore e parabole di sapore orientale. Invece, quelli del primo periodo meccano sono brevi, nervosi.
È sufficiente confrontare la sura 111 del primo periodo meccano con la sura 76 del secondo periodo meccano.
«Periscano le mani di Abû Lahab, e perisca anche lui! A nulla gli gioveranno i suoi beni e i suoi guadagni. Arrostirà in un fuoco fiammeggiante insieme a sua moglie, portatrice di legna, con una corda di fibre di palma intorno al collo!» (111,1-5).
«Ci fu mai nella vita d’un uomo un solo istante in cui Dio l’abbia dimenticato [in cui l’uomo è stato una cosa non ricordata?]. In verità, noi abbiamo creato l’uomo da una goccia di fluidi mescolati per metterlo alla prova e l’abbiamo dotato di udito e vista. Gli abbiamo indicato la retta via, sia egli riconoscente o ingrato. E per i miscredenti abbiamo preparato catene, gioghi e vampe di fuoco infernale» (76,1-4).
La sura 111 è intitolata “Le fibre di palma” e riceve il nome dal v. 5. Il primo versetto costituisce l’unico passo di tutto il testo sacro in cui viene citato, con tono denigratorio, il nome d’un nemico di Maometto. È lo stesso zio del Profeta, il cui vero nome non è il dispregiativo Abû Lahab (“Padre della fiamma o dell’inferno”), bensì ‘Abd al-‘Uzzâ. La moglie di ‘Abd è Umm Jamîla, nemica dichiarata di Maometto.
La sura 76 reca il titolo “L’uomo” o anche “Il tempo”. La prima parte della sura descrive il castigo dei dannati e la felicità dei beati (vv. 1-21). La seconda (vv. 22-31) insiste sul dovere della preghiera e riafferma il dominio assoluto di Dio.
Nelle sure del secondo periodo meccano, Maometto racconta innumerevoli storie di profeti e di popolazioni incredule che non li hanno accettati. Si riallaccia, poi, a una preesistente tradizione biblica dell’Antico Testamento (Adamo, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, Ismaele, Loth, Mosè, Aronne, Davide, Salomone, Elìa, Eliseo, Giobbe) e a una del Nuovo Testamento (Zaccaria, Giovanni Battista), ricordando volentieri le figure del Messia Gesù e di Maryam. Si passa dalla poesia alla diatriba violenta: le storie dei profeti servono a giustificare e a tutelare l’operato di Maometto.
È sufficiente considerare la sura 54 (“La luna”) che si colloca tra la fine del primo periodo meccano e l’inizio del secondo. Il grande prodigio della luna che si spacca permette di considerare altri segni di Dio nel passato, come nel caso di Noè, degli ‘âd, dei Thamûd, di Lot e del faraone.
«L’ora s’avvicina: s’è spaccata la luna! Ma anche se i miscredenti vedessero un prodigio, se ne allontanerebbero dicendo: “è la solita magia!”. Gridano alla menzogna e seguono le loro passioni, ma ogni cosa è fissata per sempre. Eppure, han sentito raccontare storie antiche, piene di ammonimenti e di consumata sapienza: ma a nulla servono gli ammonitori. Volta dunque loro le spalle!» (54,1-6).
La sequenza tematica è forte nelle sure del terzo periodo meccano: vere e proprie omelie troviamo nei capitoli, con esordi edificanti, parentesi, esortazioni, perorazioni minacciose, rimproveri; s’allarga anche il contenuto della predicazione.
Sicuramente i musulmani, attraverso lo studio della critica testuale e dell’ermeneutica, dovranno convincersi del fatto che dopo la morte del Profeta, l’islâm conobbe per diverso tempo recensioni raggruppate in un ordine differente da quello della nostra Vulgata e che si diceva cronologico.
L’incerta origine del vocabolo sûra viene collegata all’ebraico post-biblico sûrâh (“serie”) con il significato di “serie di versetti”. Ogni sura è stata contrassegnata dalla tradizione con un titolo (a volte alternativo con altro) tratto da una parola che individua un suo punto saliente. Per esempio, la seconda sura è denominata Della vacca: racconta dell’episodio della vacca che Mosè ordinò agli ebrei ostili e cavillosi di sacrificare (cf. vv. 17-19); mentre la sura terza è dedicata alla Famiglia di ‘Imrân in quanto, al versetto 33, si estende sui casi di questa famiglia. Al-fâtiḥa (“L’aprente o aperiente”) è il titolo della prima sura che apre il libro sacro. Escluso il testo della nona sura, quelli dei restanti capitoli sono preceduti dalla formula: “Nel nome di Dio clemente e misericordioso”. L’intero Corano è racchiuso nella Fâtiḥa, e tutta la Fâtiḥa è contenuta nella Basmala, nell’invocazione del nome di Dio, il clemente e il misericordioso. E tutta la Basmala è contenuta nella lettera bâ, e ogni cosa raccolta nel bâ è contenuta nel punto diacritico che serve per scriverlo.
Alcune delle 114 sure iniziano con lettere o gruppi di lettere di cui né i fedeli né gli studiosi orientalisti hanno saputo decifrarne il significato o valore simbolico. Ci sono, poi, quattro sure che prendono il titolo da queste misteriose notazioni: 20, 36, 38 e 50. Ogni sura è divisa in versetti o segni (âyât): sono gli stessi segni con cui Dio dà prova della sua esistenza e potenza[8]. Il Corano, quindi, è il segno prodigioso dell’onnipotenza divina. La divisione in versetti ha subito diverse variazioni, così la loro numerazione cambia anche nelle edizioni critiche del passato. Le 114 sure comprendono ben 6219 versetti: il Corano, nella sua forma attuale, è lungo circa quattro quinti del Nuovo Testamento.
Comunque, il testo coranico non obbedisce a una cronologia lineare del racconto fra la prima sura e l’ultima. Le diverse sure, infatti, sono tra loro autonome, e ciascuna corrisponde a un momento della rivelazione, e rappresenta un universo a sé. Non si può affermare che le sure raccolte da Maometto siano assolutamente autentiche a quelle che ritroviamo ora nel Corano. La configurazione delle sure è legata alla concezione che il Corano ha della scrittura. Inoltre, quasi certamente, i raccoglitori delle sure hanno cercato di sistemare il materiale lì dove ci poteva essere una continuità di fondo. Tuttavia, non è stato sempre così. Infatti, nell’aggiungere le sure a pezzi precedenti, o nell’integrare materiali in sure già ordinate, non appare un ordine logico. Resta difficile pronunciarsi sull’ampiezza delle sure e sulle relative aggiunte[9]. Per gli studiosi musulmani, poi, ogni sura fu lasciata attraverso i secoli nel posto in cui la prima composizione l’aveva collocata. Le sure più brevi potrebbero anche costituire dei frammenti di brani più lunghi andati persi e poi collocati a margine, come appendice.
Il sistema coranico, inoltre, obbedisce alla logica della narrazione mitica, fondata sull’idea dell’eterno ritorno che ne rappresenta un paradigma essenziale. Nella rivelazione, infatti, Dio ricorda spesso agli uomini che tutti un giorno ritorneranno a lui. In tal senso, il racconto mitico non è alternativo alla storia, ma ne rappresenta un suo prolungamento. Per quanti considerano il Corano una dettatura soprannaturale da parte di Dio a Maometto, non è ammissibile la traduzione di sura con capitolo, perché sura significa “disposizione armoniosa di pietre”[10]. Il Corano non è neanche un codice di leggi perché le disposizioni di carattere legislativo non superano i 228 versetti. È, il testo sacro, un crescendo che porta verso Dio.
1.2. I versetti
La sura 3 divide i versetti coranici in “chiari” o “solidi” , cioè di significato ben preciso, e “oscuri” o “allegorici” che, pur essendo riconosciuti sacri, ammettono più varianti e interpretazioni personali, in quanto il loro significato è noto solo a Dio.
Il testo della sura 3,7 recita così:
«È lui che ti ha rivelato il libro: vi si trovano segni espliciti – che sono la madre del libro – e altri ambigui. Le genti, dunque, che hanno lo sviamento nel cuore, alla ricerca di dissenso e alla ricerca d’interpretazione cercano che cosa vuol dire – mentre solo Dio ne conosce l’interpretazione – e quelli che sono radicati nel sapere dicono: “Noi crediamo in esso: tutto è dal Signore”. Ma solo se ne rammentano i dotati d’intelletto».
I versetti “espliciti” (muḥkamât), “solidi”, ossia, “rinforzati”, sono precisi e chiari perché non si prestano ad ambiguità o a dubbi interpretativi. Dal radicale ḥ-k-m, da cui derivano il verbo di prima forma ḥakuma (“essere saggio o sapiente”), e i termini ḥikma (“saggezza divina” o “filosofia”, “scienza profonda”) e ḥakîm (“saggio o sapiente”, “medico”, “teosofo”); nonché i due nomi di Dio: “Il Saggio” (âl-ḥakîmu) e “Il Giudice” (âl-ḥâkamu).
Per i commentatori, in misura abbastanza generica, i versetti espliciti sono quelli che trattano i fondamenti dei riti, quelli che non implicano alcuna modificazione, quelli che abrogano versetti precedenti, e quelli che sono la base esplicita della giurisprudenza. Sono quelli che indicano ciò che è bene e ciò che è male. Altri ve ne sono che paiono incerti, e hanno bisogno di confermarsi gli uni con gli altri. I versetti “oscuri”, invece, ambigui, quelli “non chiari” (mutašâbihâ), si prestano a letture diverse. Infatti, dal radicale š-b-h, il verbo di seconda forma è šabbaha-hiya (bi): “confrontare”, “rendere qualcosa simile a un’altra”; il verbo di terza forma šabaha indica: “somigliare”; mentre quello di ottava forma ištabaha ‘alâ significa “essere oscuro” o “essere dubbio”. I versetti ambigui sono quelli relativi alle sigle iniziali, i versetti abrogati, quelli apparentemente contraddittori, quelli con termini a doppia lettura. L’affermazione esplicita secondo la quale il Corano è in parte palese e in parte oscuro ha fatto naturalmente versare molto inchiostro a teologi, filosofi, giuristi e sufi. In realtà, furono questi versetti a determinare finalmente la stesura del testo sacro affinché ci fosse un modello-tipo al quale riferirsi a proposito d’una parola o d’una lettura d’uno dei versetti ambigui.
Il Corano riprende molte storie, specie quelle di Mosè, dalla tradizione biblica. Tuttavia, non viene offerta una narrazione prolungata del genere che si trova nel libro dell’Esodo o in altri testi dell’Antico Testamento. Spesso, il Corano si dilunga sui doveri morali e legali dei credenti: tali sure sono, quasi sempre, d’un periodo tardivo rispetto alla prima rivelazione ricevuta dal profeta Maometto. Molti nuclei del Corano potrebbero anche essere interpretati come predicazioni sulla falsariga dei Vangeli, anche se la voce che parla non è Gesù bensì Dio stesso attraverso il Profeta o l’angelo Gabriele.
Una buona parte di materiale apocrifo – di natura giudaico-cristiana – è stata assorbita nelle collezioni arabe che poi hanno formato il testo sacro definitivo. Secondo la tradizione più rigida dei musulmani, il Corano non fu scritto da nessuno, neanche da Maometto: la sua originalità linguistica e letteraria ne rivela il carattere divino o soprannaturale. C’è, quindi, un Corano celeste, divino, nascosto, che diviene il modello della riproduzione in terra della rivelazione celeste o soprannaturale. È come se il Corano costituisse una sorta di Logos ab aeterno in virtù del quale ogni cosa è stata fatta e ogni rivelazione diviene possibile in forma umana.
In realtà, come vedremo più avanti, il Corano è il frutto d’una lenta rielaborazione e sistematizzazione – non solo teologica, ma pure culturale, politica ed economica – dell’esperienza religiosa maturata in seno alla comunità musulmana ai tempi dei califfi. Quando l’islâm inizia a produrre un testo scritto è segno chiaro e indiscusso dell’avvenuto passaggio dall’oralità alla sedimentazione, dal messaggio del Profeta alla tradizione sul Profeta. S’assiste a un vero e proprio cambio di paradigma: la società beduina, formata all’oralità, al senso normativo e vincolante della traditio – di per sé indiscutibile, inattaccabile –, prova a darsi un canone, a raccogliere del materiale, a formare delle collezioni, a stendere questa esperienza di salvezza e di vita comunitaria nuova, attorno alla figura del Profeta e dei suoi compagni. Entrambi, però, già inseriti nell’ottica degli imperi, delle dinastie, dei califfati. E, al di là di conflitti e tensioni di potere, qualsiasi sia la lingua dei musulmani e degli stessi califfi, la Scrittura di tutte le comunità musulmane sparse nel mondo era ed è il Corano.
2. Traduzione e linguaggio
Il testo sacro contiene il discorso divino, è parola eterna: inalterabile e insostituibile. La rigida tradizione non permette la traduzione del Corano[11]: è ammessa solamente la sua spiegazione o interpretazione fedele che mai può avvenire durante il culto. La rivelazione, nel Corano, è chiamata scrittura (kitâb) ed è in collegamento con la rivelazione ebraica e con quella cristiana. Da qui l’appellativo “gente del libro o della scrittura” (ahl al-kitâb). Nella sua essenza, la dottrina del Corano afferma l’unicità di Dio: vigorosamente difesa contro ogni pratica di culto pagano. Poi si presentano gli attributi principali di Dio: la sua potenza, la creazione del mondo, i benefici elargiti all’umanità. Seguono le enumerazioni di numerosi segni di Dio nel mondo. Per ogni questione legale e normativa è presentata una soluzione giuridica[12].
Considerando gli aspetti letterari e linguistici del Corano, ci s’imbatte, innanzitutto, nella lingua araba che costituisce la forma esteriore del testo. Il Corano afferma che Dio ha scelto la chiarezza della lingua araba per consegnare agli uomini la sua rivelazione (cf. 26,195). L’alfabeto arabo, come quello latino, deriva da quello fenicio; però, diversamente dalla scrittura latina, le lettere sono orientate verso sinistra. L’arabo, dal punto di vista demografico, è la lingua semitica più affermata nel mondo. Perché si presenta come la lingua d’una grande civiltà mondiale. La caratteristica più importante delle lingue semitiche è il sistema di radici triconsonantiche; e le tipiche radici arabe sono k-t-b e q-r’: la prima riguarda lo scrivere e la seconda il recitare. Le radici sono modificate, come per la lingua latina, mediante suffissi e prefissi. Il processo di vocalizzazione delle parole è stato abbastanza lento nella lingua araba: ciò ha costituito un motivo di tensione circa il modo di recitare il Corano.
Oggi, la maggior parte delle edizioni del Corano disponibili è abbastanza chiara dato che ha il vantaggio di essere scritta in un arabo vocalizzato. Per questo, i dubbi sulla chiarezza del diritto islamico espressi da certa dottrina – che denuncia il rischio d’esegesi sottoposte a complesse dispute filologiche –, non sarebbero troppo preoccupanti, dato che il testo del Corano riproduce il minimo dettaglio fonetico e grammaticale della lingua araba, indicando tutte le “vocali brevi” (kasra, dhamma e fatha) – oltre alle “vocali lunghe” (alif, ua e ia) – e senza tralasciare nessun raddoppiamento della consonante, né il tanuin (per un’esatta analisi logica della frase).
Nel mondo arabo si parlano tante varianti dialettali della lingua araba, spesso molto diverse tra loro. Mentre esiste un arabo ufficiale standard che viene usato per la comunicazione scritta e in situazioni formali, per la comunicazione informale sono usati sempre i dialetti. Alcuni di questi dialetti sono solo parzialmente comprensibili per arabi provenienti da regioni diverse. In particolare, i dialetti del Maghreb sono considerati molto diversi dall’arabo standard. Mentre le persone di buon livello culturale sono, in genere, capaci d’esprimersi nell’arabo ufficiale, la maggioranza degli arabi usa generalmente solo il proprio dialetto locale. Al giorno d’oggi, il dialetto egiziano è probabilmente il più conosciuto nel mondo arabo, grazie alla grande popolarità dei film e della musica egiziana. La lingua del Corano risente, invece, del dialetto meccano.
Quando si sente recitare il Corano si può notare la ritmicità della lingua. Ciò si riscontra particolarmente con le sure più brevi, ove i versetti corti permettono di seguire una certa assonanza di rima. È sufficiente considerare la sura Aprente per comprendere la ritmicità del linguaggio. Vi è un ritmo veloce, quasi affannoso. Ed è proprio il ritmo veloce che a volte riduce la realtà o un evento alla sua stessa concretezza e nudità reale. Così, nel linguaggio coranico, le realtà spazio-temporali ricevono una collocazione circolare, meta-storica. Tutto è orientato in senso protologico o in senso apocalittico.
In effetti, il Corano utilizza la struttura linguistica per costruire una nuova coscienza religiosa fondata su un universo di segni e simboli. È necessario entrare nel complesso sistema grammaticale arabo – tra le scienze coraniche vi è la grammatica, considerata, dunque, come una scienza sacra – per capire il senso e la partita d’una determinata affermazione coranica. Il testo, pur se tradotto, rimane inimitabile. Il Corano definisce un universo di relazioni e di sensibilità che solamente la lingua araba può rendere. Quando un musulmano ascolta la recita del Corano, si sente interpellato direttamente da Dio. L’inimitabilità (i‘jâz, cf. 10,38; 17,88) del Corano è divenuta quasi un dogma di fede tra i musulmani. È il principio dell’irrefutabilità del Corano in quanto parola divina trasmessa a Maometto dall’angelo Gabriele. Letteralmente, i‘jâz significa l’impossibilità di fare altrettanto bene, d’imitare il testo sacro. Questa inimitabilità esprime il carattere trascendente del Corano ed è una prova (borhan) che permette di distinguere tra il vero e il falso Corano. L’i‘jâz è relativa sia al contenuto del Corano che alla sua forma letteraria, come anche a profezie future e ad avvenimenti misteriosi che ancora non sono stati decifrati.
Tra i generi letterari del Corano si distinguono: gli oracoli, le visioni apocalittiche, i salmi e le preghiere, i racconti storici e leggendari, i testi legislativi e i documenti d’archivio. Il materiale più cospicuo è costituito dagli oracoli pronunciati direttamente da Dio (cf. 94,5): il credente è posto di fronte alla parola di Dio. Come già ricordato altrove, lo stile apocalittico appare nel primo periodo, durante la predicazione alla Mecca. Qui il linguaggio diviene enfatico, immaginoso, evocativo, esclamativo, e offre un contenuto oscuro e misterioso.
È, forse, il “momento acustico” dell’audizione della parola in cui s’inseriscono le pesanti immagini sul giudizio. Tipica della letteratura d’Oriente è la salmodia, mentre i racconti storici riprendo fatti accaduti a personaggi biblici e a testimoni della fede, nonché a predicatori dell’unicità divina. I testi legislativi, invece, riflettono i primi passi della comunità musulmana a Medina e riguardano la vita quotidiana, come pure il culto, le regole morali, l’amministrazione economica, norme giuridiche.
In ultimo, i documenti d’archivio non sono altro che l’insieme di testi occasionali legati ad avvenimenti della vita sociale, ad esempio, ordini militari, le strategie belliche, i proclami di guerra, etc… Alcuni critici occidentali hanno posto attenzione altresì a un altro gruppo letterario formato dalle leggende del castigo (al-mathânî) contenente sia materiale biblico che arabo non biblico. Si tratta di racconti che seguono un medesimo modello: si fa riferimento a un popolo o a una tribù a cui è inviato un profeta che resta inascoltato. Di conseguenza, quella comunità riceve il castigo divino, mentre coloro che hanno ascoltato il profeta si salvano[13].
Sicuramente, l’approccio teologico al Corano, tipicamente occidentale, non permette di comprendere molto dei contenuti della rivelazione coranica che è più attenta all’ortoprassi e non all’ortodossia. Il Corano ha una funzione pratica: orientare il credente al suo status originario, alla condizione protologica della fede. In questa prospettiva, più che rivelazione, il Corano è una comunicazione celeste che proclama la giustizia divina ed esprime l’economia dei segni di Dio. Il fedele musulmano è pervaso dall’idea che a parlare sia sempre Dio. In alcuni passi, però, è Maometto a parlare al posto di Dio. Ciò viene evidenziato dalla formula introduttiva “di” (qul). A volte Dio parla in prima persona singolare (cf. 74,11-15). Spesso, però, comunica in prima persona plurale, secondo la classica forma del plurale majestatis. Dio parla anche in terza persona. In alcuni casi, a Maometto viene rivolta direttamente la parola con l’espressione: “Voi uomini!”, “Voi figli d’Israele!”; “Voi gente dello scritto o del libro”.
3. Questioni di critica testuale
Per la tradizione, Maometto dettava ai suoi segretari le rivelazioni ricevute senza curare, però, la distribuzione d’un testo unico. Il Corano, quindi, restò affidato completamente alla memoria dei fedeli. Da qui il suo significato principale di Qur’ân (“recitazione ad alta voce”), nonché il senso primario del vero arabo qara’a, di cui qur’ân è il nome d’azione, dalla radice semitica qr’ che vale per gridare, chiamare (clamare in latino). Il più moderno significato di “leggere” è secondario perché derivato dall’essere la lettura, in origine, la recitazione a voce alta.
La tradizione considera completata la rivelazione del Corano prima della morte del Profeta avvenuta nel 632: Maometto avrebbe raccolto il materiale sparso nella comunità e dato uniformità al testo. Fu compito dei successori realizzare il passaggio dalle collezioni al testo definitivo del Corano[14]. La data definitiva della stesura letteraria s’aggira attorno al 650. Come già ricordato nel capitolo precedente, è stato sotto il periodo del califfato di ‘Uthmân che è avvenuta la raccolta definitiva delle collezioni e la stesura del testo. Forse, una prima edizione – che non vide la luce – fu iniziata dai segretari e funzionari del califfo Abû Bakr nel 633, in modo particolare da Zayd ibn Thâbit. L’edizione non fu promulgata per la morte improvvisa del califfo nel 634. In seguito al sorgere di troppe divergenze tra testi scritti e recitati, ‘Uthmân incaricò Zayd di procedere alla stesura finale con l’ausilio di altri segretari. Quindi, ufficialmente, il testo canonico del Corano è quello del califfo ‘Uthmân. Comunque, per molti anni, il testo scritto servì soprattutto come supporto alla memoria, aiuto per ricordare. Infatti, le imperfezioni della scrittura araba d’allora, nella quale i segni consonantici si confondevano tra di loro ed erano soltanto notate – e sempre parzialmente – le vocali lunghe, non le brevi, non favorivano una recitazione unitaria e serena del testo.
Le letture discordanti e le differenti recensioni, risultanti dall’insieme delle lezioni adottate da ciascuno dei capiscuola più autorevoli, determinarono una sorta di fissazione del canone o di riconoscimento ufficiale. Furono sette le recensioni ufficialmente riconosciute[15], poi ridotte solamente a due: quella di ‘Âṣîm, morto nel 774 a Kûfa, e quella di Nâfi‘, morto a Medina nel 785. La prima recensione si diffuse in Africa e prende il nome dal suo trasmettitore Ḥafṣ, morto nell’805. Su di essa è fatta l’edizione Fu’âd. Altrove prevale la recensione di Nâfi‘ trasmessa da Warsh che morì nell’812. Le piccole varianti non intaccano minimamente la sostanza. Un po’ alla volta, furono aggiunti sui manoscritti i punti diacritici e il segno di raddoppiamento per le consonanti, fino alle precisazioni grafiche per le vocali lunghe e brevi e altri segni.
Considerando il Corano come un codice o un manoscritto, sicuramente era composto di fogli di papiro o di pergamena, la carta ha sostituito progressivamente questi materiali ma con molta lentezza. La pietà popolare ha considerato sacro non solo il contenuto del Corano ma pure il testo in quanto codice scritto e rilegato. Questo, allora, non viene mai portato in mano, da un fedele, se non dopo le abluzioni e in una posizione che lo pone al di sopra della cintola. È una devozione diffusa soprattutto in Egitto: mai un vero musulmano lascerebbe il Corano al di sotto d’una pila di libri o in qualsiasi luogo della casa!
4. Abrogazione ed esegesi
Si è formata una vera e propria scienza dell’abrogazione che riguarda sia il Corano che la sunna. La quantità delle varianti è enorme e molto complicata. L’abrogazione del Corano per mezzo del Corano ha occupato, nella storia del pensiero islamico, meno spazio rispetto alle teorie e dottrine sull’abrogazione del Corano per mezzo della tradizione o della sunna per mezzo del Corano. È il tentativo di rendere sempre più armonica la rivelazione coranica e d’adattare la rivelazione ai nuovi contesti o, viceversa, di reinterpretare la situazione politica, economica, sociale, etica, religiosa e giuridica d’una comunità alla luce del testo sacro. A tal proposito, si pone un problema che richiama il limite e la fragilità del Corano stesso: le opinioni dei dottori musulmani sono, molto spesso, contrastanti circa l’abrogazione d’un determinato versetto o d’un particolare della legge. Già l’accordo circa l’interpretazione della sura 3,7, ove si parla di versetti solidi, abroganti e metaforici, non è facile da raggiungere.
Forse, paradossalmente, l’aspetto positivo della dottrina dell’abrogazione è quello di rendere più dinamico il Corano e d’introdurre al suo interno il senso della storicità. Alcune norme perdono consistenza con il cambiamento delle circostanze. Il limite potrebbe essere l’eccessiva frantumazione della rivelazione e il moltiplicarsi di norme e leggi quando è la tradizione ad abrogare o a trasformare un versetto. Si può rimanere prigionieri d’una casistica che interrompe l’unità del messaggi coranico e la sua applicazione universale e obiettiva. Sono essenzialmente due i motivi per cui la dottrina dell’abrogazione è stata introdotta: per ridurre le discrepanze tra rivelazione e diritto; per valutare le nuove circostanze storiche e sociali non contemplate nel Corano[16].
Questo modo di procedere favorisce, comunque, una lettura dinamica del testo sacro, anche se apre le strade a letture e interpretazioni fondamentaliste del Corano, come per esempio nel caso della guerra e del dialogo con i miscredenti. Infatti, mentre la sura dell’Ape, d’origine meccana, sembra favorire un clima sereno di dialogo e di confronto con i miscredenti (cf. 16,22.37) – invita a chiamare gli uomini alla via del Signore con saggezza e buone esortazioni e capacità di retorica o disputa –, la sura del Pentimento, d’origine medinese, invece, invita a combattere coloro che non credono in Dio e nell’ultimo giorno (cf. 9,29). Questo versetto della sura medinese abroga quello della sura meccana sopra citato. Così, il famoso versetto della spada (cf. 9,5: “uccidete i miscredenti ovunque li troviate”) abroga più di centoventi versetti precedenti – alcuni più pacati – a proposito dei miscredenti. Secondo alcuni studiosi, invece, il versetto 5 della sura 9 abroga se stesso.
Per altro, in modo più critico, alcuni sostengono che il Corano medinese può subire abrogazioni da parte del Corano meccano e non viceversa. Questo perché le sure più antiche – quelle meccane – contengono il messaggio eterno rivolto da Dio agli uomini, mentre i capitoli del periodo medinese riprendono un messaggio contingente rivelato da Dio al Profeta per la gestione della nuova comunità. È la tesi di Tâhâ, secondo il quale la parte più recente del Corano non può abrogare la parte più antica[17]. Si tratta del tentativo di fare una lettura storico-critica del Corano, di distinguere, cioè, tra il fatto coranico e il fatto islamico, processo indispensabile per meglio interpretare e attualizzare il Corano alla luce del suo messaggio profetico genuino. L’aspetto più universale del messaggio coranico è nelle sure meccane che costituiscono il cuore o il nucleo essenziale del Corano che è di tutti i musulmani monoteisti (qui l’islâm si presenta come religione naturale secondo la sura 30,30).
Le sure medinesi costituiscono il Corano dei credenti, di coloro che appartengono alla comunità islamica. Gli eredi di questo messaggio devono annunciare la fede islamica nella sua originalità: perché i versetti antichi furono abrogati – cioè sospesi – in relazione alla legislazione che prendeva forma per il bene della comunità, per la sua formazione. Ora che la comunità è costituita si deve ritornare al centro del Corano. Di là della non condivisibiltà di questa tesi da parte delle autorità fondamentaliste e tradizionali dell’islâm, si evince un dato di fatto: la necessità di realizzare un approccio storico-critico e contestualizzato al testo sacro.
L’esegesi moderna e post-moderna – a partire dal metodo semiotico, o dall’analisi narrativa e dalla retorica[18] – offre buone possibilità di ricerca e d’indagine. Gli ampi successi dell’ermeneutica sono a conoscenza di tutti, non solo in Occidente, ma pure nei centri culturali e nelle università orientali. Di fatto, il cuore del Corano – l’esperienza centrale del Profeta – è e resta l’unicità di Dio che trascende qualsiasi nazionalismo arabo o religioso o anche militare e morale. Il Corano meccano è stato riletto, quindi, giustamente, come una rivoluzione o riforma delle coscienze e delle credenze. Questa riforma è la premessa a qualsiasi altro cambiamento d’ordine etico e socio-politico o economico-culturale e religioso. Qualche studioso fa notare che il Corano meccano è fondato sulla fede e non sulla legge, anche se il fatto legislativo ritorna di riflesso nell’esperienza religiosa di Maometto.
L’essenza del messaggio profetico alla Mecca è racchiusa nella parola ‘ibâda (“adorazione”): consiste nella volontà inflessibile di non servire che Dio e nell’interdizione di servire altri che lui. L’aspetto combattivo e violento del Corano appartiene soprattutto al periodo medinese dove l’interesse è per la costituzione e lo sviluppo della comunità musulmana quale luogo di solidarietà e centro d’accoglienza e d’unità di fede per il mutuo soccorso. Ciò obbliga a un commento dinamico e vivo del Corano e a scoprire nuovi sensi della scrittura sacra per i fedeli musulmani[19]. Anche se il tentativo di realizzare un vero e proprio commentario scientifico al Corano ha determinato la nascita e lo sviluppo di nuove discipline, dando il via alle teorie più complesse, resta evidente un principio pratico: nel Corano è stato individuato un corpo normativo e legislativo che storicamente appartiene a un periodo particolare della comunità musulmana che deve permettere, a sua volta, l’affermazione di nuove potenzialità di significati del testo sacro durante lo scorrere del tempo.
Così, il materiale legislativo, militare e propagandistico emergente nel Corano medinese non ha più motivo di essere: occorre determinarne nuovi valori o sensi prossimi alla storicità del momento. Tale dato non è irrilevante, anzi è determinante per l’approccio critico al testo sacro, anche se l’esegesi moderna non è sufficientemente adeguata per la valutazione complessa del Corano come textus receptus e opera ritenuta autentica e oggettiva per la verità a cui rimanda e da cui proviene.
Non è solamente importante capire quale ruolo occupa il Corano nella vita dei credenti musulmani, ma anche e soprattutto come realizzare un approccio quanto più totale, complesso e allo stesso tempo armonico con il messaggio genuino del Profeta alla Mecca. Solo la ricerca d’un sensus plenior permetterà il superamento di qualsiasi forma di strumentalizzazione (politica, ideologica, etica, economica, sociale e culturale) dei versetti sacri e del loro contenuto divino. È pur vero che un testo ha una sua storia in quanto è portatore di un’alterità che trascende il medesimo senso letterale come anche il significato che ne deduce il lettore. Tuttavia, un’oggettività di fondo permane in qualsiasi composizione stilistica. Ciò rivela l’autenticità del testo, specialmente di quelli sacri o considerati tali. In effetti, il Corano è un testo autentico perché raccoglie le esperienze del Profeta e della sua comunità nel giro d’un ventennio dalla morte dello stesso Maometto.
I filtri, le interpolazioni, le revisioni, le rielaborazioni e le glosse rientrano nel processo di recezione del contenuto del messaggio orale del Profeta. È lo spessore storico del testo che ne rende viva e visibile la forma attraverso uno stile letterario ben determinato, situato. La conoscenza di queste forme e di questi stili favorisce l’emergere del contenuto verace del Corano. È ingenuo sostenere, come fanno alcuni esperti islamici di esegesi, che il Corano è giunto a noi direttamente da Maometto come Parola rivelata senza revisioni, quindi nella forma d’un dettato verbale (verbatim) che non ammette glosse o manipolazioni.
Si può sostenere o difendere l’idea della rivelazione verbale del Corano. Tuttavia, come afferma lo studioso pakistano Fazlur Rahman, morto negli Stati Uniti il 1988, i racconti resi ortodossi e standardizzati della rivelazione coranica danno un’immagine meccanica ed esternalizzata della relazione tra il Profeta e il Corano. Rahman sostiene che il Corano è interamente la parola di Dio nella misura in cui è infallibile e totalmente scevro da menzogna, o in quanto è giunto nel cuore del Profeta e poi sulla sua lingua. Si tratta di recuperare il senso d’una rivelazione dinamica rispetto al carattere verbale della rivelazione coranica. Maometto stesso ha avuto un ruolo attivo nella rivelazione divina in quanto destinatario. Solo così si può rendere possibile un rinnovamento (tajdîd) e una vera riforma all’interno della comunità musulmana.
Il Corano dev’essere affrontato nella sua totalità (visione del mondo insita al testo) e storicità (individuare l’emergere dei temi particolari), evitando frammentazioni ed estrapolazioni. Inoltre, l’aspetto etico (la teoria del bene e del male) è centrale nel Corano stesso. Rahman, diversamente dagli autori antichi e tradizionali, si è chiesto in che modo lo spirito del Profeta è riuscito ad entrare in contatto con la rivelazione divina. All’opposto, l’ortodossia musulmana era solo preoccupata d’affermare che la parola di Dio non è giunta al Profeta solamente sotto forma d’ispirazione, ma in maniera tale che le parole stesse del Corano sono da considerarsi rivelate. La tradizione afferma che in Dio la Parola è unica, così il Corano è uno.
Per Rahman, il Libro è stato inviato al cuore del Profeta, il quale lo ha espresso, di quando in quando (per ben ventitrè anni), nella sua lingua, secondo i suoi idiomi, le espressioni e lo stile che erano già i suoi. Il Corano porta, come testo scritto, questo patrimonio del Profeta! Nella percezione mistica vi è sempre l’elemento cognitivo che permette di dare forma a un’idea o all’intuizione. Anzi, la percezione si esprime in un’idea che è l’aspetto temporale di ciò che è in temporale. Vi è una relazione organica tra percezione e idea. È bene prendere sul serio la dimensione psicologica della rivelazione coranica, di considerare il processo creativo della mente. La Parola del Corano è rivelata perché la fonte risiede fuori di essa. Poiché l’intero processo s’è prodotto all’interno stesso della mente del Profeta, è altresì parola del Profeta. La Parola è passata dal cuore del Profeta[20]. Tuttavia, il carattere ispirativo e divino del Corano non si può ridurre a un processo mentale. Il segno soprannaturale sta nella sua forza etica, negli slanci morali che rendono la rivelazione unica. La legge morale è immutabile ed è il comandamento di Dio che l’uomo può compiere o rifiutarsi d’assolvere.
È irrilevante pensare che la superiorità del Corano, rispetto alla Bibbia, consista nel fatto che la trasmissione del messaggio coranico non è distorta, mentre quella giudaico-cristiana lo è, almeno potenzialmente, perché soggetta a passaggi, trasmissioni. Non si può sostenere – scientificamente – che il Corano non abbiamo vissuto, in quanto testo scritto e compilato, una fase di trasmissione orale prima della sua stesura. Ed è veramente troppo ingenuo – apologeticamente superato – lo sforzo di coloro che sostengono la stesura delle parti del Corano nel momento stesso in cui queste sono state pronunciate.
Ci sono diverse strategie adottate dalle civiltà per la conservazione d’un testo. Innanzitutto, la sua stesura definitiva e completa in modo continuativo e permanente. Segue la possibilità d’affidare il testo a più copisti del futuro con il rischio maggiore di refusi, glosse, rimaneggiamenti anche a motivo d’incompetenza. Il testo può subire anche delle variazioni importanti. Si riconosce, al Corano, la mancanza di errori essenziali durante il corso della trasmissione. La fedeltà è dimostrata dal fatto che anomalie molto antiche del testo sono state preservate fedelmente.
La trasmissione orale – la traditio – risultava essere, anche dopo la morte del Profeta, la forma propria della comunicazione e della conservazione dell’identità della fede o di un’esperienza rilevante, come nel caso di quella religiosa. Fino a quando non si supererà il gap provocato dalla teoria che considera il Corano scritto al tempo in cui è stato proferito – e che i suoi testi contengono letteralmente le parole pronunciate dal Profeta – ogni tentativo di dialogo con la modernità è vano e resta inconcludente, inefficace, bloccato. Ci si può appellare, invece, a una tradizione orale forte ed efficace, capace di rafforzare la trasmissione scritta. I punti discordanti nelle diverse collezioni del testo coranico riguardano soprattutto la recitazione e la fissazione delle vocali. Generalmente, però, le variazioni toccano le singole lettere.
H. Hanafî si è posto a favore dell’istantaneo passaggio dalla tradizione orale alla scrittura[21].
Un tentativo di riforma all’interno delle scienze dei commentari del Corano è stato intrapreso, non senza limiti e blocchi, dal movimento della salafiyya nato nella seconda metà dell’Ottocento. Jamâl ad-Dîn al-Afghânî (1839-1897) ne è stato l’iniziatore. Questi auspicava: un ritorno alle fonti dell’islâm (Corano e Sunna), il rinnovamento etico, il recupero della storicità per i musulmani attraverso l’impegno socio-politico e civile. Ciò che a volte non ha favorito l’idea d’una certa flessibilità storica del Corano e del messaggio del Profeta è stato il riferimento statico alla tradizione e il passaggio per la razionalità intesa come principio ermeneutico fondante ogni commento. Non mancano, oggi, interpretazioni più attuali che si soffermano sull’aspetto narrativo o pedagogico del Corano, come anche sulla storicità del messaggio.
Non è assente, purtroppo, un’interpretazione fondamentalista e radicale che fa del Corano un pensiero unico. È avviato pure un processo d’ermeneutica filosofica al testo sacro – di per sé importante perché è un motivo di dialogo con la modernità – ma risultante a volte troppo verboso, razionale, lontano dal senso della storicità e dal senso interiore.
Oggi si è tentato anche di studiare il Corano alla luce dei moderni metodi della critica letteraria, mettendo in crisi il concetto di rivelazione coranica come tanzîl (“discesa” d’un testo preesistente presso Dio). Il cercare nel Corano dei meccanismi letterari comuni ad altri testi scritti da mano umana, per i fondamentalisti, sembrerebbe arrecare danno alla trascendenza divina. Ciò fa presupporre che la rivelazione s’impossesserebbe delle culture umane e parlerebbe attraverso di esse. Attualmente, la critica letteraria invita a distinguere tra la causa principale (Dio) e la causa strumentale (i profeti). Tornando indietro nel tempo, si scoprono personaggi di grande rilievo all’interno della tradizione musulmana che hanno provato a costruire un dialogo tra il Corano e l’esegesi. È il caso di Muḥammad ‘Abduh (1849-1905), buon conoscitore dell’opera d’Al-Jurjânî.
I dati conclusivi della critica testuale sono i seguenti: è forte il contrasto tra la tesi di chi riconosce un nucleo centrale del Corano già esistente – appena formato – ai tempi del Profeta e chi invece insiste sulle collezioni tardive del Corano. Un elemento può esser utile: l’aspetto canonico del Corano, il suo riconoscimento ufficiale, avvenne in tempi molto brevi rispetto al canone biblico. Durante la vita del Profeta, il Corano rappresentava soprattutto una fonte orale visto che la rivelazione ricevuta da Maometto era tale. Forse si può ritenere esatta l’affermazione che vede nei primi interventi un lavoro più conservativo sul Corano e non d’interpolazione, come anche quella che riconosce un intervento tempestivo ed essenziale sulla revisione del testo scritto[22]. Sfogliando, però, opere antiche del Corano – codici, manoscritti, copie – si evince la difficoltà circa l’ambiguità di molte parole. Tale stranezza riguarda pure coloro che hanno una familiarità con la lingua araba. Il Corano è pieno d’una serie di enigmi linguistici non risolvibile[23].
5. Il messaggio
Così recita la sura aprente che costituisce anche la preghiera più solenne dell’islâm, nonché segno d’invocazione inaugurale e di benedizione:
«Nel nome di Dio clemente e misericordioso. Lode a Dio, Signore dei mondi, il clemente, il misericordioso, sovrano del giorno del giudizio. Te adoriamo, te invochiamo in soccorso, guidaci al retto sentiero, al sentiero di coloro a cui tu hai largito la tua grazia, non di coloro che sono incorsi nella tua ira né di coloro che sono fuorviati» (1,1-7).
Un detto del Profeta appella il Corano con il titolo di “banchetto di Dio” e l’islâm come la “tenda di Dio”. Il banchetto e la tenda sono per tutti gli uomini: il Corano ci dice che Dio vuole parlare con gli uomini, ma nessuno è obbligato a rispondere. In tal senso, il Corano s’apre con una sura a carattere cosmico, l’Aprente, e si chiude con una sura a carattere antropologico, gli Uomini. Mentre l’Aprente (al-Fâtiḥa) è una resa di grazie al Signore dell’universo e una richiesta di guida per tutti gli uomini, l’ultima sura, gli Uomini (an-Nâs), afferma che Dio è l’unico e vero rifugio del credente. L’Aprente ci ricorda della lode e della gratitudine dovute a Dio per i suoi attributi d’infinita bontà e misericordia che contano molto di più nel giorno del giudizio. Dio è colui che ha potere su tutte le cose (cf. 19,96). Perché è l’Onnipotente. I fedeli, quindi, devono temerlo. Allâh è con chi lo teme. Tramite il timore di Dio, le azioni e le forze dei musulmani sono rivolte completamente ad Allâh. Da qui il senso dell’unicità e unità di Dio (tawḥîd). La parola “unico” ricorda ai musulmani che i loro cuori devono essere consacrati all’unico Dio che non ha posto nel corpo di nessun uomo due cuori (cf. 33,4). Dio è assoluto e, quindi, la devozione a lui dev’essere totalmente sincera. Allâh non ha associati[24].
L’immagine di Dio nel Corano è innanzitutto quella della luce e della speranza. È Dio che ha insegnato al Profeta la sapienza e la parola, e annuncia di essere lui stesso colui che la spiegherà. Dice Dio nel Corano: «Muḥammad, non muovere la lingua con essa per affrettarti. Certo a noi riunirlo e recitarlo. Seguine la recitazione quando noi lo recitiamo, poi spetta a noi spiegarlo» (75,16-20).
Il contenuto della dottrina coranica riguarda essenzialmente il Dio unico: Allâh. Questi è il Dio supremo in senso monoteistico. Si è già accennato, a proposito delle tappe rivelative di Maometto, dei caratteri fondamentali della divinità: la bontà-misericordia (la clemenza) e l’onnipotenza. La bontà di Dio è rapportata alla sua funzione di Creatore: egli conosce la nostra debolezza strutturale, ontologica. L’uomo è debole, fragile, perché tende a moltiplicarsi, a frantumarsi: perché il suo essere è diviso. L’originaria creazione del mondo non è rappresentata con particolari, né Adamo è inserito all’interno dei sei giorni biblici della creazione divina.
Una descrizione più dettagliata della creazione è presente in 41,9-12: mai, però, in modo sistematico e continuativo. Adamo è stato creato dalla terra, da un grumo di sangue (cf. 3,59). Dio crea per libera decisione, per volontà (cf. 40,68). Importante è il riferimento all’azione creatrice permanente di Dio: rivela la sua onnipotenza. Dio, poi, agisce anche attraverso le azioni umane (cf. 8,17); lo stesso potere umano, la volontà, è nelle mani d’Allâh (cf. 37,96; 76,30). Queste affermazioni, tuttavia, non permettono di elaborare un piano teologico o antropologico esaustivo e sistematico: perché concezioni diverse appaiono nel Corano. L’uomo, infatti, è libero e pure non lo è: Allâh lo guida se egli si lascia guidare, però lo porta anche dove vuole. Allâh, infatti, non guida coloro che non vogliono credere ai segni (cf. 16,104). Ci sono verità complementari nel Corano a proposito della responsabilità dell’uomo dinanzi a Dio e dell’onnipotenza divina. Il senso di azioni predestinate è tipico della mentalità beduina pre-islamica. Allâh è colui che governa direttamente il mondo e non mediante cause secondo. Gli stessi fenomeni naturali e quelli dovuti all’attività dell’uomo diventano tutti segni d’Allâh.
Alla domanda “Chi è Dio veramente?”, si può rispondere con la sura 2,21-22.163:
«O uomini! Adorate il vostro Signore che ha creato voi e quelli che furono prima di voi, e così forse diventerete timorati di Dio. È lui che vi ha fatto della terra un tappeto e del cielo una volta; è lui che dal cielo fa scendere l’acqua per far nascere dalla terra i frutti che vi sostentano. Non adorate dunque altri dèi insieme a lui, voi che conoscete la verità! […]. Il vostro Dio è un Dio unico. Non c’è divinità all’infuori di lui, il Clemente, il Misericordioso».
In 3,18 è ribadita l’unicità di Dio:
«Dio stesso è testimone che non c’è divinità all’infuori di lui, e ne sono testimoni anche gli angeli e chi possiede la vera scienza. Essi dicono: “Dio governa con giustizia. Non c’è divinità all’infuori di lui, il Potente, il Saggio!”».
Allâh è il Dio unico che si eleva al di sopra degli altri idoli. Qui il monoteismo coranico riprende quello ebraico e si spinge più avanti, in polemica con la visione cristiana di Dio. Non vi è la possibilità di riconoscere in Allâh una funzione procreativa, o di paternità. Il tema delle figlie d’Allâh (banât Allâh) permette di scagliarsi contro gli idolatri meccani per negare con la stessa alterigia disdegnosa che egli abbia potuto avere figli. Il medesimo nome d’Allâh rende inammissibile il plurale “divinità” (âliha), salvo che per stigmatizzare l’inanità degli dèi che i pagani o gli oppositori s’ostinano a invocare. La sura del “culto sincero”, nominata anche “dell’Eterno” o “dell’Unità divina”, rafforza il mistero dell’unicità di Dio. La tradizione dichiara di essere stata rivelata in risposta a una domanda di alcuni ebrei sulla natura divina. Il contenuto è decisamente antitrinitario: «Di’: “Egli Dio, è uno! Dio, l’Eterno! Non generò né fu generato, e nessuno gli è pari!» (112,1-4).
Il senso del verbo “generare” è “fisico”, “carnale”, come risulta chiaro anche dalla sura 6,100-102. C’è un modo errato d’intendere la paternità divina e la filiazione. Di là del problema strettamente dialogico, ci preme sottolineare il senso dell’unicità divina (tawḥîd) nell’islâm, visto che la sura 112 è un po’ il cuore della dottrina coranica. I musulmani la definiscono come la sura “della purezza” o anche “della fede pura”. È ritenuta rivelata alla Mecca ed è ventiduesima nell’ordine cronologico. Il suo nome âl-îkhlâṣ deriva dal radicale kh-l-ṣ e riprende il verbo di prima forma khalaṣa: “essere sincero”, “puro”, “leale”, “fedele”. La professione di fede monoteista è una scienza: la sincerità ne è la base e la fedeltà, invece, ne costituisce la condizione. In effetti, la fede in Allâh come “Dio unico e uno” è il primo articolo della professione di fede islamica (la šahâda). Dio appare, così, come la somma grandezza cosmica e non può essere colto da nessuna speculazione filosofica o teologica. Egli è unico nella sua essenza: non si divide, né si moltiplica[25]. Per cui, nulla e nessuno gli può essere pari. Egli stabilisce il corso della vita e delle cose nel mondo: in lui si fondono vita e potenza, unità e unicità. Non essendo generato, non è nemmeno mortale, né debole. Egli regna di eternità in eternità e fa tramontare e di nuovo rinascere. Allâh è infinitamente perfetto perché possiede in misura piena tutte le buone qualità. È immutabile, giusto, saggio, amorevole, onnipresente, onnisciente, onnipotente, veritiero in sommo grado. È l’unico ideale infallibile, che non delude alcun uomo e non arreca tormenti all’anima. Allâh non assomiglia né alla natura viva né a quella morta. Né l’occhio né la mente lo possono cogliere. Tuttavia, all’uomo è più vicino delle arterie (cf. 50,15).
Il Corano riporta i 99 bei nomi di Dio che sono propriamente le sue qualità: un solo nome non permetterebbe di cogliere la sua potenza né l’essenza. Allâh agisce secondo il principio della giustizia. S’afferma, perciò, un rigido monoteismo a sfondo etico: Dio ripaga secondo le proprie azioni. Un simbolo con cui il Corano presenta il mistero d’Allâh è quello della luce. Dio è luce del cielo e della terra (cf. 24,35): chi ha fede tende a questa luce cosmica, e rivestirsi delle qualità divine significa rendersi degno rappresentante di Dio sulla terra. L’unicità di Dio ha degli effetti molto pratici sul credente: esige l’abbandono, la fiducia in lui. Il senso della vita, secondo la dottrina islamica, consiste nell’avvicinare quanto più possibile la perfezione relativa dell’uomo alla perfezione assoluta di Dio. In virtù della sua unicità, Allâh non subisce le nostre azioni. Il tema del pathos, tipicamente biblico, è assente dal Corano. Non si conosce neanche il fine ultimo della creazione. Si sa che Dio ha creato senza stancarsi (cf. 10,3; 20,5), e ha voluto gli uomini e gli jinn per la sua lode (cf. 51,56). Continua, inoltre, a creare cose nuove (cf. 16,8; 35,1; 55,29), ed è perfetto nelle sue opere (cf. 67,3). I caratteri più importanti di Dio riguardano la sua onnipotenza, onniscienza e misericordia.
[1] A partire dal primo paragrafo, i riferimenti in nota o nel testo tra parentesi riguardano sempre i capitoli del Corano o sure. Per l’edizione critica del Corano, si considerino almeno queste traduzioni e i seguenti commentari: Al-Qur’ân al-karîm, Beirut [decima edizione 1407-egira]; Der Koran. Einführung – Texte – Erläuterungen, T. Nagel (cur.), München 1983; Il Corano, introduzione, traduzione e commento di A. Bausani, Milano 1988; Il Corano, introduzione, traduzione e commento di F. Peirone, I-II, Milano 1989; The Qur’ân. A new Interpretation, textual exegesis by M.B. Behbûdî, English Translagion by C. Turner, London 1997.
[2] In proposito, la sura 109 (“I miscredenti” o Al-Kâfirûn), considerata lo statuto della tolleranza religiosa nell’islâm, afferma: «Di’: “O miscredenti, io non adoro ciò che adorate voi, né voi adorate ciò che adoro io. Io mai adorerò ciò che adorate voi, né voi mai adorerete ciò che doro io. Tenetevi la vostra religione: io la mia!» (109,1-6). È, così, bandito ogni possibile compromesso o accordo tra il Profeta e i miscredenti della Mecca. Su questo punto, cf. anche la sura 53,19-23. Una della più antiche sure meccane (“I Coreisciti” o Qurayš), rivolta ai coreisciti, da cui proveniva Maometto in quanto appartenente al clan minore degli Hašemiti, ordina – il tono è imperativo – di adorare il Signore della Ka‘ba che li ha nutriti salvandoli dalla fame e li rassicurò da ogni timore (cf. 106,1-4).
[3] La proposta di Th. Nöeldeke, Geschichte des Qorans, Leipzig 1860, permette di ordinare così le sure del primo periodo meccano: 96; 74; 111; 106; 108; 104; 107; 102; 105; 92; 94; 93; 97; 86; 91; 80; 68; 87; 95; 103; 85; 101; 99; 82; 81; 53; 84; 100; 79; 77; 88; 89; 75; 83; 69; 51; 52; 56; 70; 55; 112; 109; 113; 114; 1.
[4] Sono da considerare le seguenti sure: 54; 37; 71; 76; 44; 50; 20; 26; 15; 19; 38; 36; 43; 72; 67; 23; 21; 25; 17; 27; 18.
[5] Le sure di questo periodo sono: 32; 41; 45; 16; 30; 11; 14; 12; 15; 28; 39; 29; 31; 42; 10; 34; 35; 7; 46; 6; 13.
[6] Cf., per esempio, la sura 46,1-3: «Ḥâ. Mîm. Questo Libro è rivelato da Dio, il Potente, il Saggio. Non abbiamo creato i cieli e la terra e quanto è in mezzo ad essi se non con verità d’intento e fino a un termine fisso. Ma quelli che non credono non si curano dell’ammonimento che vien loro dato». La sura 46 porta il nome Al-Aḥqâf (“Le dune” del deserto) e si riferisce a quella regione dell’Arabia meridionale abitata anticamente dagli ‘âd. I versetti sopra citati presentano l’accusa ai miscredenti, segue la predicazione del profeta Hûd al popolo degli ‘âd (vv. 21-28). Interessanti i riferimenti alle norme di pietà filiale verso i genitori e il curioso episodio della conversione d’un gruppo di jinn (vv. 29-32).
[7] Cf. queste sure: 2; 98; 64; 62; 8; 47; 3; 61; 57; 4; 65; 59; 33; 63; 24; 58; 22; 48; 66; 60; 90; 49; 9; 5.
[8] Sull’evoluzione del termine âyât è stato fatto notare che inizialmente tale parola indicava le rime, i versi. Ogni verso termina con una rima o un’assonanza, e così la suddivisione in versi corrisponde a un naturale ritmo nel senso delle frasi. Da ciò la diversa numerazione dei versi. Esistono due sistemi di numerazione. Il primo è delle edizioni europee di Gustav Flügel e Gustav Redslob. Il secondo dell’edizione standard egiziana. Gli studiosi occidentali si sono soffermati molto sul significato dei “segni”. Questi, probabilmente, hanno costituito un primo materiale per il Corano, una specie di corpus (sign-passages) indipendente dal resto del materiale coranico. Questo corpus insisteva soprattutto sull’onnipotenza di Dio e sui benefici per il credente. I temi del giudizio escatologico e della giustizia furono aggiunti successivamente. La ripetuta menzione dei “segni” aveva diverse finalità: incitare alla fede, all’adorazione, a vincere l’idolatria. Secondo questa teoria, i segni non indicano semplicemente i versi del Corano, bensì i segni, cioè i fatti accaduti in cui Dio agisce. È la prospettiva di R. Bell, Introduction to the Qur’ân, Edimburgo 1970.
[9] Molte ipotesi sono state formulate a proposito del carattere enigmatico di alcune lettere arabe poste all’inizio di alcune sure. Forse appartengono al testo originale e non sono state aggiunte nel corso della raccolta al tempo dei califfi. In ben 29 sure, la basmala è immediatamente seguita da una lettera o da un gruppo di lettere che non formano una parola e vengono lette semplicemente come lettere dell’alfabeto arabo. Forse potrebbero essere interpretate come contrazioni di parole o con valore numerico simbolico. Altri studiosi ancora sostengono che le lettere misteriose si riferivano al possessore del codice utilizzato dai copisti. Chi, invece, le riconosce come proprie di Maometto, afferma che queste lettere indicavano già un criterio di compilazione.
[10] Cf. M. Talbi, Universalità del Corano, Milano 2007, 17-20.
[11] In effetti, le numerose traduzioni del testo coranico nelle lingue occidentali rispecchiano i metodi e i criteri operativi scelti nell’affrontare il testo, in particolare il criterio filologico. Quest’ultimo non è il criterio più difficile. La stesura in lingua occidentale dovrebbe avvenire non solo considerando l’apparato critico-filologico, ma pure la lettura interiore della parola divina. Così, alla complessità linguistica del Corano s’accompagna anche quella strutturale del testo. Per gli esperti, ciò rappresenta il difficile rapporto tra Dio e l’uomo. Per la conoscenza del linguaggio coranico, cf. G. Rizzardi, Il linguaggio religioso dell’islâm, Milano 2004, 15-25. Si consideri pure l’articolo di J.-M. Gaudeul, Vers une nouvelle exégèse coranique?, in Chemins de Dialogue 19 (2002) 49-83.
[12] Cf. M.M. Moreno, Introduzione, in Il Corano, a cura di M.M. Moreno, Torino 1967, 3-16.
[13] Così è, ad esempio, per la storia di Noè che il Corano presenta come messaggero inviato ai suoi contemporanei: egli si salva insieme ai credenti che lo hanno ascoltato. Situazione simile vive la tribù degli ‘Âd, famosi costruttori: a questa popolazione fu inviato il profeta Hûd. Gli ‘Âd non ascoltarono questo profeta e morirono a causa del vento forte (cf. 69,6-8). Si salvarono solamente le loro opere architettoniche. Si ripete lo stereotipo per la popolazione dei Talmud. A questa gente fu inviato il profeta Ṣâliḥ che restò inascoltato. Gli abitanti furono puniti con un terremoto (cf. 7,78) o da un tuono (cf. 41,17), o da un unico grido (cf. 54,31). Le storie si moltiplicano sulle vicende d’Abramo, come pure sulla città di Lot (cf. 11,77-83; 15,57.74). La punizione, nel caso di Lot, avviene mediante una tempesta di sabbia. Il profeta Su‘ayb, invece, fu inviato alla gente di Midian (cf. 11,94). Seguono i racconti di altri castighi (Mosè e il faraone, etc…).
[14] In effetti, gli accenni del Corano a uno scritto o libro di Maometto possono riferirsi a una stesura alquanto sommaria. Un riferimento implicito allo scritto potrebbe esserci lì dove Maometto riceve il comando di ricordarsi nello scritto di Maria, d’Abramo e di altri (cf. 19,16.41.51.54.56). Sicuramente, all’inizio, Maometto e i suoi compagni conservarono nella memoria i passi rivelati, procedendo in un secondo momento a una prima stesura. Alcune parti del Corano furono scritte in epoca relativamente precoce, ma sempre con la mediazione della comunità e, quindi, d’una tradizione.
[15] La tradizione vuole che, secondo un detto del Profeta, Gabriele recitò a Maometto il Corano in sette aḥruf (“lettere”). Da qui il riferimento a sette lezioni o gruppi di varianti per il Corano. È quanto segnalò lo studioso Ibn Mujâhid (839-935) nella sua opera intitolata Le sette lezioni, rinunciando al tentativo di assemblare in modo unitario le varianti del Corano. Questo autore identificò ben sette dotti che avrebbe composto le sette lezioni del Corano fissando per il testo le vocali. In realtà, le sette lezioni accettate da Ibn Mujâhid erano quelle usate in centri urbani molto importanti, tra cui Medina, Kûfa, Damasco, Bassora, Mecca. Il sistema delle sette lezioni, pur se confermato dai giudici sotto vari aspetti, non trovò facile accoglienza tra gli studiosi musulmani. Alcuni riconobbero altre tre lezioni successive oltre alle sette, per un totale di dieci varianti. Le sette varianti canoniche non sono state considerate più di tanto nelle edizioni coraniche occidentali.
[16] Cf. D. Powers, The Exegetical Genre «nâsikh al-Qur’ân wa mansûkhuhu», in A. Rippin (ed.), Approaches to the History of the Interpretation of the Qur’ân, Oxford 1988, 117-138. Per approfondimenti, cf. R. Hawting – A. Shareef, Approaches to the Qur’ân, London 1993; S. Wild (ed.), The Qur’ân as Text, Leiden 1993; F. Sharif, A Guide to the Contents of the Qur’ân, Reading 1995; A. Merad, L’Exégèse Coranique, Paris 1998; M. Abdel Haleem, Understanding the Qur’ân, London 1999; A. Rippin (ed.), The Qur’ân: Formative Interpretation, Ashgate 1999; Id. (ed.), The Qur’ân: Style and Contents, Ashgate 2001; Id., The Qur’ân and its Interpretative Tradition, Ashgate 2001; I.J. Boullata (ed.), Literary Structure of Religious Meaning in the Qur’ân, Richmond 2000; M. Draz, Introduction to the Qur’ân, London-New York 2000; N. Robinson, Discovering the Qur’ân: a Contemporary Approach to a Veiled Text, London 2003; M. Campanini, Il Corano e la sua interpretazione, Bari-Roma 2004.
[17] Cf. M. Tâhâ, The Second Message of islâm, New York 1987, 36-38.
[18] Sull’analisi retorica applicata al Corano, merita attenzione lo studio e il lavoro esegetico di Michel Cuypers, apprezzato ricercatore dell’Istituto domenicano per gli studi orientali (Cairo). L’arte della composizione del testo, che ha segnato la cultura occidentale e anche l’esegesi biblica, permette d’individuare le simmetrie del testo (parallelismi, chiasmi) e di dividere il testo stesso in unità semantiche e di evidenziarne la struttura che ne orienta a sua volta l’interpretazione. Lo scopo finale di questa tecnica è la comprensione del testo. È il tentativo di superare la lettura discontinua, atomistica, frammentaria, delle sure. L’analisi retorica offre una lettura contestuale e la riduzione del livello di frammentarietà del Corano. Spesso gli esperti islamici spiegano i versetti difficili e isolati ricorrendo ad elementi esterni al testo, alle “occasioni della rivelazione” (aneddoti, detti del Profeta, fatti, leggende), veri espedienti letterari costruiti post eventum per spiegare le ombre del testo. Ciò permetterebbe di rivedere pure la teoria sui versetti abroganti e sui versetti abrogati. Spesso, nelle letture fondamentaliste, non si perde occasione per abrogare i versetti più antichi e più miti con quelli più recenti e più rigidi in ambito giuridico, etico o militare. Per arrivare al cuore del Corano occorre, oltre all’analisi retorica e alla contestualizzazione d’un brano, anche la lettura ipertestuale d’un versetto. Cf. l’intervista realizzata da Francesco Strazzari a fratel Michel Cuypers apparsa su Il Regno-Attualità 4 (2007) 96-100.
[19] È la prospettiva seguita da O. Carré, Mystique et politique. Lecture Révolutionnaire du Coran par Sayyid Qutb, Paris 1984, 45-49.
[20] Cf. F. Rahman, Islamic methodology in History, Islamabad 1965; Id., Islâm, Chicago 1966; Id., Major Themes of the Qur’ân, Minneapolis 1980; Id., Islâm and Modernity, Chicago 1984; Id., La religione del Corano, Milano 2003.
[21] Cf. H. Hanafî, Religious Dialogue and Revolution, Il Cairo 1977.
[22] Cf. la critica di M. Cook, Il Corano, traduzione di A. Martini, a cura di R. Tottoli, Torino 2001, 125-148.
[23] Cf. M. ‘Abduh, Rissalat al-Tawhid. Exposé de la religion musulmane, Geuthner 1984.
[24] I contenuti del Corano non riguardano solamente l’unicità di Dio, ma anche il giorno del giudizio, la missione del Profeta, l’etica, l’esistenza delle realtà spirituali, etc.. Per maggiori approfondimenti, cf. B. Naaman – E. Scognamiglio, Islâm-Îmân. Verso una comprensione, Padova 2009.
[25] Nel Corano, l’unità di Dio è segno della sua autosufficienza ed è interpretata come unità numerica. Solo successivamente, per l’influenza della filosofia, è interpretata come unità di semplicità. Da qui l’accusa di politeismo e d’idolatria rivolta ai cristiani che adorano la Trinità. Cf. O. Loretz, L’unicità di Dio. Un modello argomentativo orientale per l’«Ascolta, Israele!», Brescia 2008, 125-128. Circa i caratteri della teologia islamica, cf. il contributo di J. Jomier, Introduction à l’islâm actuel, Paris 1964; Id., L’islâm aux multiples aspects, Kinshasa 1982; Id., Pour coinnaître l’islâm, Paris 1988; P. Branca, Introduzione all’islâm, Cinisello Balsamo (Milano) 1995. Sempre utile il lavoro di L. Gardet, L’islâm, religion et communauté, Paris 1967.
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