CHIESA-ISRAELE
Il dialogo tra ebrei e cristiani ha ricevuto un notevole contributo attraverso la lenta – e non sempre progressiva – recezione del Concilio ecumenico Vaticano II che parla in proposito di «mutua conoscenza e stima» (NA 4). E, in modo particolare, mediante il confronto tra la Chiesa e le altre religioni. Certamente, molto si deve anche alla riscoperta, da parte cattolica, delle radici giudaiche della fede cristiana e del significato storico-salvifico dell’annuncio del Regno da parte di Gesù e della stessa missione affidata agli apostoli[1]. La medesima coscienza dell’unità dei due Testamenti (l’Antico e il Nuovo, o anche il Primo e il Secondo, cf. DV 14-15)) ha permesso di valutare lo specifico della proposta cristiana in ordine al tema della salvezza e rispetto alla funzione d’Israele come popolo eletto, la cui alleanza non è stata mai revocata da parte di Dio[2]. Oggi abbondano anche le letture giudaiche circa la messianicità di Gesù (profeta “da Israele”), come pure gli studi storico-critici a proposito del carattere ebraico della sua condizione socio-politica ed etico-religiosa (messia “di Israele”[3]).
Sicuramente, si è, oramai, preso coscienza altresì del rapporto di discontinuità nella continuità (“relazione asimmetrica”) tra Israele e Chiesa, e non solo di linearità. In tal senso, Israele resta, sul piano storico, un signum electionis, con il privilegio di essere tutto il popolo eletto (cioè solo per Israele vi è una speranza collettiva di salvezza come popolo); mentre sul piano escatologico, Israele non ha alcun vantaggio rispetto agli altri popoli[4] (cf. Rm 9,4).
Sono importanti pure i tentativi, da parte cristiana, di superare una visione esclusivista in ordine alla missione della Chiesa e di sostituzione rispetto alla storia d’Israele e della sua esperienza di Dio[5]. Gli esegeti si preoccupano di recuperare anche il significato salvifico degli eventi narrati nelle Scritture ebraiche – per il popolo d’Israele e per le situazioni proprie del tempo storico – e di non rileggere esclusivamente l’AT in prospettiva del NT. Un’interpretazione totalmente tipologica e allegorica del Primo Testamento svuoterebbe di significato storico-teologico lo stesso percorso d’Israele e le esperienze concrete che il popolo eletto ha vissuto con la fede nel Dio unico.
1. Partire da Auschwitz
Da un punto di vista esclusivamente storico-critico, è necessario affermare che il dialogo tra ebrei e cristiani è maturato a motivo delle sollecitazioni ricevute dai fatti tragici e drammatici del Novecento, il secolo più violento della storia. Il riferimento è al male provocato, a più di sei milioni di ebrei, a causa delle deportazioni naziste e dell’Olocausto (Shoah). La storia diviene il luogo teologico mediante il quale rileggere i tempi del male e gli interventi di Dio[6]. I sopravvissuti ad Auschwitz sono divenuti gli interlocutori privilegiati del mondo e della stessa Chiesa cattolica. Anche il modo di fare teologia è cambiato – deve necessariamente mutare – dopo la Shoah (J.B. Metz). Così, sullo sfondo storico della compilazione della dichiarazione conciliare Nostra aetate è presente proprio la questione ebraica e il bisogno di esprimere la chiara condanna dell’antisemitismo[7]. Certamente, gli abissali interrogativi sollevati dalla Shoah non possono ridursi a semplici occasioni per riproporre le verità bibliche circa il rapporto popolo eletto-Chiesa.
Tuttavia, prendere sul serio Auschwitz significa confrontarsi radicalmente con il problema del male, con la libertà, e rileggere la fede in Cristo – per quanti la professano – in rapporto al significato ambiguo del progresso, della tecnica, della scienza, come pure in relazione alla pianificazione politica, all’assoluta scomparsa di vincoli morali tradizionali, al senso della giustizia, alla verità assoluta. Il dialogo tra ebrei e cristiani, dunque, avviene passando per la storia, lasciandosi interpellare dagli eventi bellici del Novecento e dal bisogno di giustizia e di pace che i popoli della Terra Santa ancora anelano a soddisfare. Così, la visione cristiana degli ebrei è maturata nel tempo, passando per le conseguenze catastrofiche della seconda guerra mondiale e la lenta recezione del Vaticano II[8], come pure mediante il riconoscimento dello Stato d’Israele da parte della Chiesa cattolica e dell’Onu. Dalla condanna dell’antisemitismo si è poi arrivati a esprimere la profonda solidarietà con il popolo ebraico, fino a riconoscere le proprie colpe e responsabilità – anche da parte cristiana – per l’Olocausto[9].
In maniera più sistematica, è lecito riconoscere – in ambito cattolico – quattro fasi nella storia del dialogo ebraico-cristiano: dall’orrore innanzi alla Shoah e alle sue gigantesche dimensioni (in cui si richiamano anche le colpe e le responsabilità non solo dell’occidente ma pure dei cristiani) al tempo della benevolenza e dell’interesse sincero per gli ebrei (la loro storia, le origini, gli sviluppi, le Scritture); l’interesse teologico per la comprensione dei fondamenti del dialogo ebraico-cristiano (in questa fase è notevole la produzione di documenti e di studi biblico-teologici) che non ha come finalità quella di fare proseliti; un nuovo interesse per gli scambi teologici orientati a riconoscere la dignità messianica d’Israele; il riconoscimento della dipendenza che la storia di fede dei cristiani ha nei confronti degli ebrei o verso il dialogo che avviene sul piano della identità religiosa di ciascuno (è il tentativo di definire se stessi senza andare contro gli ebrei o escludendo questi ultimi). Certamente, ancora oggi, il dialogo – tra cristiani ed ebrei e non solo – appare complesso e avviene a più livelli: teoretico[10], pragmatico, etico, socio-politico, filosofico, etc…
Non mancano, comunque, sia da parte cristiana che giudaica, critiche e tensioni, nonché resistenze. Inoltre, si insiste molto sulla collaborazione tra ebrei e cristiani per la pace, la giustizia, la salvaguardia del creato, il rispetto della libertà religiosa. Sembra prevalere, da parte ebraica, l’interesse per le questioni etiche e sociali, come pure la necessità di sostegno socio-politico per la difficile situazione della Palestina e per il revival nazista tra gruppi estremisti europei e fanatici islamici. Da questo punto di vista, il dialogo ebraico-cristiano è ancora troppo ecclesiale-sinagogale e troppo poco pro mundi salute[11]. In occasione della pubblicazione del messale di Pio XII e del motu proprio data Summorium pontificum (circa l’uso della liturgia romana anteriore alla riforma effettuata nel 1970), si sono riscontrate alcune tensioni: sia in ambito cristiano, a proposito della riforma liturgica e circa il rischio d’intaccare l’autorità del Vaticano II, sia in ambito giudaico, per la preghiera del venerdì santo per ciò che concerne la conversione degli ebrei.
Resta fondamentale, dal punto di vista ecclesiologico, una domanda: “Come rileggere il rapporto Chiesa-Israele?”.
2. La «santa radice» (Rm 11,16)
Il n. 4 della dichiarazione conciliare NA è dedicato esclusivamente alla religione ebraica e afferma quanto segue: vi è un vincolo spirituale che lega il popolo del NT (la Chiesa) alla stirpe di Abramo (Israele); tutti i fedeli di Cristo, in quanto figli di Abramo, sono inclusi nella vocazione di questo patriarca; nell’esodo del popolo eletto è prefigurata la salvezza ecclesiale; si riconosce l’antica alleanza come segno di salvezza; Cristo ha riconciliato ebre e gentili con la sua morte di croce; tale morte è segno di unità tra i due popoli; si riconoscono le radici ebraiche della Chiesa (gli apostoli); gli ebrei, pur non avendo riconosciuto Gesù come Messia, rimangono ancora carissimi a Dio (cf. Rm 11); vi è l’attesa escatologica per il riconoscimento di Cristo quale Signore; vi è un grande patrimonio spirituale che unisce cristiani ed ebrei, da qui il bisogno di promuovere e raccomandare la mutua conoscenza e stima (con studi biblici e teologici e un fraterno dialogo); la morte di Cristo non può essere imputata indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né a quelli del nostro tempo; gli ebrei non sono rigettati da Dio, anche se la Chiesa forma il nuovo popolo di Dio; si scongiura ogni forma di persecuzione e di violenza contro gli ebrei.
Israele è il popolo eletto e svolge un ruolo decisivo per la salvezza di tutti i popoli. Perciò, la stessa Chiesa non potrà percepire la propria identità e originalità al di fuori della “santa radice” che è l’Israele di Dio (cf. Rm 11,16). L’apostolo delle genti considera la comunità dei credenti in Cristo come l’oleastro innestato sull’olivo e non, come apparirebbe naturale, la pianta buona innestata su quella selvatica. Di conseguenza, Paolo riconosce un ruolo centrale e fondamentale alla comunità giudaica in virtù della sua elezione. La comunità cristiana è, dunque, sostenuta, portata, dalla radice (cf. Rm 11,18). Vi è una priorità accordata a Israele che non può essere sottaciuta. Così, la stessa fede dei pagani è considerata quale strumento per suscitarne la gelosia, in ordine sia al ruolo che il popolo eletto continuerà ad avere nella storia, sia al futuro, escatologico innesto del popolo eletto sul proprio olivo (cf. Rm 11,24) nel tempo della finale reintegrazione dei due popoli (cf. Rm 11,25). Infatti, lo stesso rifiuto d’Israele diviene una condizione provvidenziale affinché la salvezza giunga a tutte le genti (cf. Rm 11,11). I pagani costituiranno, poi, il pungolo per l’ultima reintegrazione. È questo il misterioso disegno di Dio secondo Paolo a motivo della fedeltà all’alleanza. Perché i doni e la chiamata di Dio restano irrevocabili (cf. Rm 11,29).
Occorre, allora, riconoscere una complessa manifestazione della storia della salvezza che intreccia la vocazione di Israele con la chiamata della Chiesa e il destino di tutti i popoli della terra. Ecco, dunque, il filo di continuità tra Israele e la comunità dei cristiani: vi è la “santa radice” come punto di origine, garanzia di un futuro e alimento e sostentamento per la vita presente. Certamente, la questione sul “come pensare” la relazione tra il popolo del patto e la comunità di Gesù è questione tutt’ora aperta che ha visto impegnati santi e teologi, padri della Chiesa e uomini di pensiero d’ogni secolo e tradizione culturale. Un dato è certo fin dall’inizio: la memoria della Chiesa (la sua identità) si annullerebbe al di fuori della santa radice d’Israele. Perché Dio non ha divelto le radici dell’albero, ma ha solo tagliato alcuni rami secchi e senza vita. La radice (Israele) rimane, dunque, valida e santa (cf. Rm 11,16): essa rappresenta i patriarchi d’Israele, dai quali ha avuto inizio la storia della salvezza.
È da questi patriarchi che ha avuto inizio la storia della salvezza: essi sono paragonati alle primizie del pane che dovevano essere offerte al Signore (cf. Nm 15,17-21), comunicando così un carattere di consacrazione anche alla rimanente pasta. Tutto ciò sta a dire che, proprio in forza di questa sua comunicazione con i “ceppi” vitali della sua elezione e della sua santità, Israele rimane tuttora popolo santo. E, di conseguenza, i pagani possono diventare santi solamente se innestati sul tronco israelitico e se partecipano della radice e della pinguetidune dell’olivo (cf. Rm 11,18). Insomma, tutti ricevono qualcosa da Israele! È la radice che porta l’albero e non viceversa.
Il riconoscimento di Gesù quale Messia e Signore da parte degli ebrei avverrà nel momento in cui la totalità dei pagani – la pienezza delle genti – sarà entrata nella Chiesa (cf. Rm 11,25). Questa consolante verità, carica di speranza e di tensioni, è già accennata in alcuni passi evangelici (cf. Mt 23,39; Lc 13,35), tra cui citiamo Lc 21,24: «E Gerusalemme sarà calpestata dai gentili, fino a che non siano completati i tempi delle nazioni». Il mistero (progetto di Dio) che Paolo rivela riguarda la fine: tutto Israele sarà salvo (cf. Rm 11,26). Il motivo per cui gli ebrei saranno reinseriti nel mistero di Cristo riguarda i doni e la vocazione di Dio: sono irrevocabili, cioè non soggetti ad alcun pentimento da parte di Dio. Gli ebrei, quantunque nemici di Dio perché non hanno voluto obbedire al Vangelo, sono ancora amati a causa dei padri, ai quali è legata la loro elezione.
La continuità tra la Chiesa nascente e Israele è manifesta, biblicamente, già nell’uso del linguaggio: per entrambi si riconosce l’uso dell’espressione “popolo di Dio”, “comunità radunata-convocata” (‘edah, in greco sunagôgê, e qahal, in greco ekklêsía). Il NT userà, per la comunità cristiana, il vocabolo ekklêsía per designare la comunità convocata da Dio mediante l’annuncio della fede pasquale (cf. 1Cor 1,2; 10,32; 11,16.22; 15,9; 15,9; 2Cor 1,1; Gal 1,13; 1Ts 2,14; 1Ts 1,4; 1Tm 3,5-15; At 20,28). Con i termini ebraici ‘am e gojî s’indicheranno, rispettivamente, il popolo eletto e gli altri popoli, resi in greco attraverso i vocaboli laós e éthnê, usati per qualificare il “popolo di Dio” (cf. 1Pt 2,10; Rm 9,25; 2Cor 6,16) da una parte e i pagani o le genti dall’altra. È giusto ritenere anche questo dato: il NT riconosce una certa continuità tra Israele e la Chiesa. Entrare nella Chiesa nascente significava, alle origini, partecipare della dignità d’Israele. Inoltre, come Israele, la comunità cristiana si percepirà quale popolo in cammino, in continuo esodo. La stessa scelta dei dodici diviene una realtà esplicativa e più che simbolico-formale per comprendere il rapporto tra il popolo di Abramo e i discepoli di Gesù Cristo. Vi è una continuità nell’unica alleanza tra Israele e Chiesa nascente. Entrambe le comunità sono il popolo “di Dio”.
Israele è proprietà di Dio, è il popolo che egli ha fatto e plasmato (cf. Is 43-44; Es 15,16), che ha acquistato per sé e preso per mano (cf. Ger 31,31; Eb 8,9), liberandolo dalla schiavitù d’Egitto (cf. Es 6,6; 15,13), destinandolo come sua eredità (cf. Dt 4,37). Israele è il popolo che Dio ha chiamato e separato da ogni altro popolo (cf. Lv 20,24-26), santificandolo per sé (cf. Lv 22,32-34). Vi è un rapporto singolare tra Israele e Dio ben espresso da metafore, simboli, segni, paragoni. Si tratta d’una relazione che è stata sperimentata come salvezza, liberazione, incontro, promessa, elezione, chiamata. Israele è “di Dio”, e Dio è il “Dio d’Israele”. Da qui le forti suggestioni del linguaggio biblico: Israele è il partner dell’alleanza, la vigna del Signore (cf. Is 5,1-7), il gregge (cf. Is 40,11), il servo (cf. Is 41,8), il figlio (cf. Os 11,1), la sposa (cf. Os 1-3) del Signore. Tuttavia, queste stesse immagini, sia nel NT che nella tradizione cristiana antica, saranno utilizzate per designare la Chiesa (cf. LG 6).
Da qui la profonda unità tra Israele e la Chiesa che porta molti teologi a parlare di una sola alleanza all’interno della quale s’allarga l’orizzonte storico di Gesù Cristo. Israele resta il popolo eletto, all’interno della cui alleanza si situerebbe l’evento Gesù Cristo come dilatazione dell’evento di grazia voluto da Dio nella chiamata d’Israele. Questa lettura dell’unica alleanza – secondo la quale Israele è la radice e la Chiesa l’albero con i suoi rami – presenta due grandi rischi: favorire la vecchia tesi della sostituzione (la Chiesa realizza compiutamente ciò che è implicito in Israele, e perciò ne prende il posto nel mistero della redenzione); ridurre la novità cristiana, cuore del Vangelo, a una dimensione puramente quantitativa della salvezza (Cristo è motivo dell’ingresso dei pagani nel mistero di Dio rispetto alla salvezza già avviata con Israele). La tesi dell’unicità dell’alleanza favorisce gli elementi di continuità tra la stirpe di Abramo e la comunità dei credenti in Cristo, però nega i fattori (storici, teologici, biblici, spirituali e culturali) di discontinuità dell’evento Cristo (passione, morte e risurrezione[12]).
3. Novità e complementarietà
Il cristianesimo è la persona viva di Gesù Cristo messo a morte nella carne ma reso vivo nello spirito. La Chiesa vive di questa novità, nasce dalla pasqua di Gesù, il Signore. Per cui, «ciò che l’ebraismo ha posto irrevocabilmente al termine della storia, come il momento in cui culmineranno gli eventi esterni, è divenuto nel cristianesimo il centro della storia, la quale si trova allora promossa al titolo particolare di “storia della salvezza”»[13]. Cristo è l’eschaton, la novità di Dio nella storia, ove l’hic et nunc della salvezza si completano. E mentre per Israele l’azione di Dio è manifesta solo inizialmente nell’alleanza, e attende di essere completata nella riconciliazione universale (uomo, mondo, cosmo), per il cristiano, la pienezza di questa pace messianica si è avverata completamente nella vita di Gesù Cristo. Il “non ancora” della salvezza attesa dall’umanità è anticipato nella novum di Gesù Cristo, il risorto dai morti. Gesù è il Messia atteso dalla speranza ebraica, il compimento di tutte le promesse. In tale eschaton vi è la continuità con Israele e la discontinuità: nell’umano escatologico di Gesù tutto si è compiuto, tutto viene anticipato.
La Chiesa sente di accogliere la speranza d’Israele e di vederne ogni realizzazione nell’umano di Gesù Cristo. Da qui la coscienza di una nuova alleanza che non rinnega la prima o l’antica, ma ne riconosce il superamento in Cristo e la piena realizzazione. La comunità dei credenti, secondo le testimonianze del NT e dei primi secoli cristiani, ha maturato una coscienza carismatica e messianica, fino a interpretarsi quale Israele di Dio (cf. Gal 6,16) in senso spirituale e non storico, contrapponendosi all’Israele secondo la carne (cf. 1Cor 10,18). L’appartenenza al popolo eletto non è storica, né giuridica, bensì spirituale. Sono figli d’Israele solo quelli della promessa (cf. Rm 9,6-8). Si assiste, così, al passaggio dal vecchio Israele, che non ha saputo riconoscere la novità sorprendente del segreto messianico, al vero Israele, aperto a ebrei e gentili, cui sarà dato il regno dei cieli.
La Chiesa reca con sé la novità della nuova alleanza che è strettamente legata alla pasqua di Gesù Cristo (passione, morte e risurrezione): «Voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce; voi, che un tempo eravate non-popolo, ora invece siete il popolo di Dio; voi, un tempo esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia» (1Pt 2,9). La nuova ed eterna alleanza è sancita nella morte e risurrezione di Gesù Cristo e, insieme, all’antico patto, costituisce il tratto distintivo dell’unica economia salvifica che Dio ha rivelato nella storia[14]. Chiesa e Israele non stanno in rapporto come il nuovo all’antico patto, né come sostituiti o antagonisti, bensì come partner di un medesimo progetto salvifico di Dio. Chiesa e Israele sono l’uno per l’altro, in un rapporto di complementarietà e di amicizia: li unisce un patrimonio spirituale immenso (cf. NA 4), nonché le Scritture e l’attesa del compimento del mondo[15]. Occorre, dunque, evitare ogni modello interpretativo dualista che esasperi il rapporto tra NT e AT, Chiesa e Israele, così come ad esempio ha sostenuto Marcione e il movimento eterodosso del II secolo. Perché il Dio di Gesù Cristo è lo stesso Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. La croce di Cristo, poi, è il motivo della riconciliazione di tutti i popoli, anche d’Israele[16].
La strumentalizzazione dell’AT e del patto tra Dio e Israele avviene pure quando si opera una lettura allegorica delle Scritture ebraiche (spiritualizzazione dei testi sacri, della Torah), come anche nel caso dell’interpretazione antologica: solo il resto d’Israele entra a far parte della nuova alleanza, costituendo il meglio che l’AT ha saputo esprimere e che è poi confluito nella Chiesa. Il carattere storico degli eventi salvifici dell’AT permane come valore in sé e per sé, prima ancora di ogni forma di tipologizzazione e di allegorismo. Si può sostenere, dunque, un’interpretazione complementare a proposito della relazione tra Chiesa e Israele.
Il Primo Testamento ha un valore strutturale: costituisce l’identità d’Israele e della stessa messianicità di Gesù, e offre anche una concezione del mondo e della storia che ha assunto rilievi nuovi nell’esperienza di Gesù Cristo. Questi completa la rivelazione e il senso escatologico di quell’economia salvifica che ci è stata donata nella storia a partire dalle prime alleanze tra Dio e l’uomo insieme al suo mondo. «Gesù di Nazaret è vissuto, ed egli continua a vivere, non solo nella sua Chiesa, che si rifà a lui (più realisticamente: nelle molte Chiese, e sette che si rifanno al suo nome), ma anche nel suo popolo, del quale egli personifica il martirio. Il Gesù sofferente e morente, irriso sulla croce, non è forse divenuto un simbolo per il suo popolo intero, il quale, frustato a sangue, è stato continuamente appeso alla croce dell’odio antisemita? E il messaggio pasquale della sua risurrezione non è forse divenuto un simbolo per l’ebraismo oggi nuovamente risorto, il quale si risolleva, acquistando nuova figura, dalla più profonda umiliazione e dal più profondo disonore dei dodici anni più oscuri della sua storia?»[17].
Per meglio comprendere il rapporto di complementarietà tra Chiesa e Israele, AT e NT, ci vengono in aiuto le parole e i messaggi del grande filosofo ebreo del Novecento Franz Rosenzweig. A questo autore, attento alla ricerca della Verità, che si dà delle forme non assolute nella storia, è premuto sottolineare il fatto che la rivelazione è rivelazione innanzitutto ad Adam, il cui nome rivelato è nome proprio e concetto insieme. La rivelazione è ad Adam che non è pagano né ebreo né cristiano, ed è l’uscita dell’uomo dal mutismo del sé e che può finalmente avere l’accesso al linguaggio. La rivelazione è primariamente rivelazione del Nome e, quindi, di tutti i nomi, cioè legittimazione del linguaggio che fa la sua comparsa alla creazione del mondo. È a questo linguaggio rivelato che l’uomo viene ammesso a partecipare. La rivelazione del Nome divino è la legittimazione di qualsiasi altro nome e di tutte le parole del mondo e dell’umano. Tutti i nomi del linguaggio umano e delle forme religiose torneranno al silenzio originante lì dove avviene il passaggio dalla rivelazione alla redenzione. Quando la redenzione sarà compiuta, Dio stesso sarà redento: non solo dalla sua opera alla creazione, ma pure dal suo stesso Nome rivelato. Alla fine, insomma, non vi sarà più il dialogo, né un monologo, ma lo stupore, l’incanto, l’adorazione silente! Le parole sono scritte sul misterioso portico di Dio, il santuario celeste. Oltre la porta vi è la Verità che risplende, cioè il volto divino, la Vita che ora ci è partecipata. E la santa radice d’Israele non fa altro che partecipare a questa Verità, come nucleo infiammante della stella.
La verità è lo splendore del volto divino: ne forma i raggi della stella che si propagano nell’universo. Perché ciò che è eterno è divenuto figura nella verità. Questa non è una figura che si libra libera autonomamente, bensì è soltanto il volto luminoso di Dio. Ed è una luce che risplende verso l’uomo, sul suo volto: la verità non si lascia esprimere altrimenti. Anche il cristianesimo, nel suo Logos, è, per il nostro autore, portatore dell’eterna Verità, come i raggi restano legati al cuore, al nucleo della stella.
«Davanti a Dio dunque, entrambi, ebreo e cristiano, sono lavoratori intenti a una stessa opera. Egli non può fare a meno di nessuno dei due. Tra i due egli ha posto inimicizia in ogni tempo e tuttavia li ha legati l’uno all’altro reciprocamente nel modo più stretto. A noi egli diede la vita eterna, accendendo nel nostro cuore il fuoco della stella della sua verità. I cristiani li ha posti sulla via eterna, facendoli inseguire i raggi di quella stella della sua verità in ogni tempo fino alla fine eterna. Noi la contempliamo nel nostro cuore, la fedele immagine della verità, ma in cambio ci distogliamo dalla vita nel tempo e la vita del tempo si distoglie da noi. Loro invece camminano seguendo la corrente del tempo, ma hanno la verità soltanto dalle loro spalle; vengono, è vero, guidati da essa, poiché seguono i suoi raggi, ma non la vedono con i loro occhi. La verità, la verità intera, non appartiene quindi né a loro né a noi. Infatti anche noi che la portiamo, è vero, dentro di noi, se la vogliamo però vedere, dobbiamo tuffare lo sguardo innanzitutto nel nostro intimo, e qi noi vediamo sì, la stella, ma non i raggi […]. E così entrambi abbiamo soltanto parte alla verità intera. Ma sappiamo però che è essenza della verità essere parte ed essere partecipata, e che una verità che non fosse fatta parte a nessuno non sarebbe verità; anche la verità “intera” è verità soltanto perché è parte di Dio»[18].
Chiesa ed Israele, allora, più che essere la verità, sono posseduti dall’unica Verità, il Dio unico che, per noi cristiani, si è rivelato nel volto storico di Gesù Cristo, il Figlio unigenito del Padre, la Verità crocifissa. Si parte dalla convinzione che l’elezione del popolo ebraico fa parte del mistero dell’agire di Dio nella storia.
4. La ricezione storico-teologica di NA 4
La Nostra aetate costituisce l’inizio di un cammino nuovo incentrato su due diverse direttrici: le relazioni cristiano-ebraiche e il dialogo interreligioso. La Santa Sede ha avviato il dialogo sistematico con il mondo ebraico dopo il Concilio Vaticano II, cioè a partire dal 1965. Da parte degli ebrei, nel 1970 è stato fondato l’International Jewish Committee on Interreligious Consultations. È un’organizzazione che comprende quasi tutte le agenzie più importanti degli ebrei impegnate nel dialogo interreligioso. Dal 1970 al 2008, sono stati organizzati 20 incontri a livello internazionale. L’ultimo è avvenuto a novembre 2008 in Ungheria (a Budapest) con il congresso internazionale sul tema: La società civile e la religione, prospettive cattoliche ed ebraiche. Il motivo principale alla base di questo convegno a Budapest è quello di vedere la situazione del dialogo tra cattolici ed ebrei nei Paesi dell’Europa dell’Est. È stata scelta la città di Budapest sia per la presenza in urbe d’una comunità ebraica abbastanza grande sia perché in questo Paese il dialogo ha compiuto molti progressi. Da qui, allora, la necessità di rileggere le applicazioni di NA 4 non soltanto in chiave teologica ma anche e soprattutto in ordine alla prassi, alla storia, al vissuto socio-politico delle rispettive comunità (cristiane ed ebraiche).
A partire dall’inizio del dialogo ufficiale della Chiesa cattolica con il mondo ebraico sono state percorse tante tappe importanti. Per esempio, Giovanni Paolo II è stato il primo papa a visitare una sinagoga, a pregare ad Auschwitz per le vittime della Shoah, ad andare in Israele. Ha pregato al Muro del Pianto, ha visitato Yad Vashem, il monumento e il museo per l’Olocausto. Quindi, d’importante non esiste solo il documento Nostra aetate ma anche i testi pubblicati dalle diverse Conferenze episcopali. Ma ancora più importanti sono i testimoni vivi. Dopo sei settimane dalla sua elezione, Benedetto XVI ha ricevuto la prima delegazione ebraica; poi dopo quattro mesi ha visitato la sinagoga a Colonia; dopo un anno ha visitato, quindi, Auschwitz per pregare per le vittime della Shoah.
In un’intervista del 31 ottobre 2005, Ángel Kreiman, gran rabbino del Cile dal 1970 al 1990, allora vicepresidente internazionale del Consiglio Mondiale delle Sinagoghe, sostenne, in un atto commemorativo per i 40 anni della pubblicazione della dichiarazione Nostra aetate, “che siamo giunti a una nuova tappa del rapporto tra giudei e cristiani”. A quaranta anni dalla Nostra aetate stiamo entrando in una terra promessa, nella quale per i vescovi e i sacerdoti cattolici la predicazione, l’insegnamento del giudaismo di Gesù, e il giudaismo di Pietro e Paolo, degli apostoli e la vita giudea dei primi cristiani, è un “fondamento teologico”. Dal 1994, il rabbino Kreiman presiede una fondazione per il dialogo interreligioso e lo studio congiunto ebraico-cristiano intitolata alla moglie Susy, assassinata nell’attentato terroristico di quello stesso anno contro l’Ufficio centrale della comunità ebraica per il lavoro, a Buenos Aires.
Secondo l’esponente ebraico, il sostegno della Chiesa cattolica al giudaismo non è come quello di un Paese con un altro Paese, basato sul potere materiale. Il sostegno dei cristiani al giudaismo è una forza spirituale religiosa. Facendo un bilancio di questi ultimi quattro decenni, il rabbino riconobbe “che sono stati 40 anni molto fruttuosi e positivi”. Sono cresciute tanto le relazioni tra giudei e cattolici che i rapporti tra Santa Sede e Israele. Forse, come critica, il rabbino notò che, da parte cristiana, l’unico limite è stato quello d’indicare il dialogo con i giudei importante, ma non urgente. Mentre ora è chiaro che il dialogo con gli ebrei “non è un’opzione” bensì “un dovere”, ed esige, da parte cristiana, d’accettare il popolo d’Israele come il segno dell’“alleanza originale”. Kreiman individuò un “limite” nel fatto che in questi 40 anni non si è parlato di “teologia nel dialogo” nell’ambito della predicazione e nella catechesi. È una questione che tocca anche gli ebrei, i quali devono comprendere che è importante il dialogo con i fratelli minori, i cristiani, con cui condividono la fede in un Dio unico, conosciuto nel mondo universale. Da NA 4 emerge non solo che il dialogo deve continuare tra ebrei e cristiani e con tutti i popoli della terra e tra le tradizioni religiose, ma, in prospettiva giudaico-cristiana, deve riguardare i laici, le famiglie, ogni tipo di associazione aperta alla cultura, alla vita, al senso della giustizia, alla solidarietà. Il dialogo giudaico-cristiano diviene un modo per esprimere, nel vissuto, l’appartenenza alla stessa radice di fede e di grazia.
Per i rabbini osservanti è il tempo di cominciare a pensare che la Chiesa cattolica non è nemica d’Israele ma anzi il suo “miglior alleato”. In questo dialogo “non si tratta solamente di dire che cristiani ed ebrei sono amici”, che gli ebrei “non sono accusati di deicidio”, ma si tratta di dire che giudaismo e cristianesimo sono il fondamento della lotta contro il paganesimo. Così si riconosce che non è raro nella vita che un progetto o un’iniziativa assumano, con il passare del tempo, un andamento diverso dal previsto. Circostanze e ripensamenti sono in grado di modificare il disegno originario. Questi casi si possono verificare anche in relazione a progetti di legge o altri documenti: l’iter può condurre là dove non si era immaginato di giungere. Qualcosa di simile vale anche per la dichiarazione Nostra aetate.
Giovanni XXIII si convinse – anche in virtù di un memorabile colloquio avuto con lo storico ebreo francese Jules Isaac – dell’opportunità che il Concilio emanasse un documento sugli ebrei volto, innanzitutto, a condannare l’antisemitismo e a scagionare gli ebrei dalla falsa accusa di deicidio. L’inedita impresa fu affidata a una commissione presieduta del cardinale tedesco Agostino Bea: bisognava predisporre i vari schemi da sottoporre al dibattito conciliare. Il cammino fu lungo e pieno di sorprese. Si pensò dapprima a un paragrafo da inserire all’interno di un altro testo, poi a un piccolo documento a se stante e così via. Alla fine nacque la Nostra aetate. Per comprendere i contenuti del testo basta guardare al suo sottotitolo: Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa cattolica con le religioni non cristiane. L’orizzonte si era improvvisamente ampliato. Ci si occupava non solo di ebrei, ma di tutte le altre religioni. La dichiarazione divenne perciò composta di cinque paragrafi; il primo e l’ultimo si presentano come introduzione e conclusione generali, il secondo è dedicato alle religioni primitive, all’induismo e al buddismo, il terzo ai musulmani, il quarto, il più ampio, alla religione ebraica. Questo allargamento conteneva delle ambiguità. Il trascorrere degli anni le ha rese più evidenti: l’ebraismo è qualificabile davvero solo come una religione non cristiana? L’eventuale esistenza di rapporti particolari, anzi unici, tra cristiani ed ebrei che incidenza ha sulle relazioni della Chiesa con le altre religioni? In quattro decenni – la dichiarazione fu approvata il 28 ottobre 1965 – ci si è resi sempre più conto che la NA costituisce l’inizio di un cammino nuovo incentrato su due diverse direttrici: le relazioni cristiano-ebraiche e il dialogo interreligioso.
Dal punto di vista più strettamente teologico, la dichiarazione conciliare NA esprime due convincimenti importanti.
Il primo afferma la perennità dell’alleanza tra Dio e il popolo ebraico. Israele non deve essere in alcun modo considerato rigettato dal suo Signore, che anzi gli riserva un amore che non conosce pentimento (cf. Rm 9-11). Vanno poi evidenziati sia la comune eredità di tutti i figli di Abramo sia il fatto che Gesù, sua madre e gli apostoli sono ebrei. In altri termini, il testo pone al centro quanto si è soliti definire la radice ebraica del cristianesimo.
La seconda affermazione si trova nella denuncia dell’odio, delle persecuzioni e della manifestazioni di antisemitismo rivolte da chiunque e in ogni tempo nei confronti degli ebrei.
Viene perciò rigettata l’errata convinzione che sugli ebrei pesi la colpa atavica per quanto avvenuto nel corso della passione e morte di Gesù.
Il principale nodo teologico emerso dalla ricezione della NA è stato espresso di recente con molta efficacia dal cardinale Walter Kasper (attuale presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani). Ed È formulato in veste di domanda: «Come si può conciliare la tesi del perdurare dell’alleanza [tra Dio e il popolo d’Israele] con l’unicità e l’universalità di Gesù Cristo, costitutive entrambe, nel cristianesimo, della nuova alleanza?». È convinzione interna alla fede cristiana tanto credere che Gesù Cristo è salvatore universale quanto affermare che i doni e la chiamata di Dio riservate al popolo ebraico sono senza pentimento anche a prescindere dell’adesione esplicita degli ebrei alla fede in Gesù Cristo.
L’interrogativo è netto, le risposte si muovono ancora a tentoni (cf. At 17,27). Eppure, si tratta di un tema nevralgico per la coscienza che la Chiesa ha di se stessa. Né è difficile comprendere che dal modo in cui si risponderà a questa domanda deriveranno conseguenze decisive in relazione ai rapporti tra la Chiesa e tutte le altre religioni. Sicuramente, un po’ come per tutto l’evento conciliare, il senso profetico e innovativo della dichiarazione NA è davanti a noi, cioè è ancora da scoprire.
[1] In proposito, cf. D. Flusser, Jesus, Paideia, Brescia 1977; E.P. Sanders, Jesus and Judaism, SCM, London 1985; K. Haacker, Jesus, Messias Israels?, in Evangelische Theologie 51 (1991) 444-457; Ephraïm, Gesù ebreo praticante, Ancora, Milano 1993;
[2] Cf. Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana (24-5-2001), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001: EV 20,733-1150. Nella conclusione generale di questo documento viene ribadito quanto segue: il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture occupano nella Bibbia cristiana un posto di estrema importanza; senza l’AT, il NT sarebbe un libro indecifrabile, una pianta privata delle sue radici e destinata a seccarsi; il NT riconosce l’autorità divina delle Sacre Scritture del popolo ebraico e si appoggia su questa autorità; il NT aggiunge che queste Scritture si sono effettivamente compiute nella vita di Gesù, nella sua passione e risurrezione, così come nella fondazione della Chiesa aperta a tutte le nazioni; il compimento comporta anche, inevitabilmente, un aspetto di discontinuità su alcuni punti, perché, senza di questo, non ci sarebbe progresso; l’elezione d’Israele si è concretizzata nell’alleanza del Sinai e le istituzioni ad esse collegate, soprattutto la Legge e il santuario; il NT si situa in rapporto di continuità con questa alleanza e queste intuizioni; la nuova alleanza annunciata da Geremia e fondata nel sangue di Gesù ha portato a compimento il progetto di alleanza tra Dio e Israele, etc… Si considerino pure i seguenti studi: N. Lohfink, Der niemals gekündigte Bund. Exegetische Gedanken zum christlich-jüdischen Dialog, Verlag Herder, Freiburg im Breisgau 1989; E. Zenger, Il Primo Testamento. La Bibbia ebraica e i cristiani, Brescia 1997; Id., (ed.), Introduzione all’Antico Testamento, Brescia 2004.
[3] Circa la lettura giudaica di Gesù, cf. almeno G. Vermes, Gesù l’ebreo, Cittadella Editrice, Città di Castello (Perugia) 1983; S. Ben Chorin, Fratello Gesù. Un punto di vista ebraico sul Nazareno, Morcelliana, Brescia 1985; J. Isaac, Gesù e Israele, Marietti, Genova 2001. Ottimo lo studio esplorativo di G. Castello (cur.), Volti del Messia. Gesù di Nazaret e il dialogo ebraico-cristiano, ECS, Napoli 1999. Circa l’ebraicità di Gesù, cf. l’opera monumentale di J.P. Meier, Un ebreo marginale, I-III, Queriniana, Brescia 2002-2004.
[4] Cf. E. Grässer, Il patto antico nel uovo, Paideia, Brescia 2001, pp. 45-46. Per questo autore, le prime comunità cristiane non intendevano sostituirsi al vero Israele, ma rappresentarlo. A questo si sapevano chiamate in nome di Gesù, e per questo si rifacevano alla Scrittura. Soltanto nel contesto delle antiche speranze profetiche e apocalittiche era possibile comprendere chi Gesù è, nel presente e nel futuro, quale Messia, Figlio dell’uomo, Signore.
[5] L’interesse per il dialogo ebraico-cristiano è manifesto, oggi, non solo dalla Chiesa cattolica ma, in generale, da tutte le chiese cristiane. Significativa la dichiarazione conclusiva di una delle prime importanti conferenze interreligiose svoltasi nel lontano 5 agosto 1947 in Svizzera, a Seelisberg. Molti dei punti conclusivi di tale dichiarazione hanno costituito, nel tempo, la base di tanti altri documenti ecumenici e interreligiosi, tra cui, per il dialogo con l’ebraismo, vanno ricordati questi punti: 1. Ricordare che è lo stesso Dio vivente che parla a tutti noi nell’Antico come nel Nuovo Testamento. 2. Ricordare che Gesù Cristo è nato da madre ebrea, della stirpe di Davide e del popolo d’Israele. 3. Ricordare che i primi discepoli, gli apostoli, e i primi martiri, erano ebrei. 4. Ricordare che il precetto fondamentale del cristianesimo, quello dell’amore di Dio e del prossimo, promulgato già nell’AT e confermato da Gesù, obbliga cristiani ed ebrei in ogni relazione umana senza eccezione alcuna. 5. Evitare di sminuire l’ebraismo biblico nell’intento di esaltare il cristianesimo. 6. Evitare di usare il termine “giudei” nel senso esclusivo di “nemici di Gesù”. 7. Evitare di presentare la passione in modo che l’odiosità per la morte inflitta a Gesù ricada su tutti gli ebrei o solo sugli ebrei. Etc…
[6] Cf. Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah (16-3-1998), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998: EV 17,522-550.
[7] In proposito, cf. P. Stefani, Chiesa, ebraismo e altre religioni. Commento alla «Nostra aetate», Messaggero, Padova 1998, pp. 7-68; G. Castello, Antico Testamento e rapporto con gli ebrei. Una rilettura del capitolo IV della Dei Verbum, in Asprenas 50 (2005) 79-104; Id., Le relazioni tra Chiesa cattolica ed ebraismo. A quarant’anni dalla Nostra aetate, in Asprenas 53 (2006) 319-348. Per l’aggiornamento bibliografico internazionale, cf. H.H. Henrix, Dialogo ebraico-cristiano, in P. Eicher (ed.), I concetti fondamentali della teologia. I. A-D, Queriniana, Brescia 2008, 400-428.
[8] Cf. J. Stern, Il dialogo con il popolo ebreo, in R. Fisichella (cur.), Il Concilio Vaticano II. Recezione e attualità alla luce del Giubileo, II, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, pp. 700-715. Si consideri pure R. Neudecker, Chiesa cattolica e popolo ebraico, in R. Latourelle (cur.), Vaticano II: bilancio e prospettive venticinque anni dopo (1962-1987), Cittadella Editrice-PUG, Assisi-Roma 1988, pp. 1300-1334.
[9] In proposito, restano indiscusse le parole di Giovanni Paolo II pronunciate al muro del pianto: «Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il tuo Nome fosse portato alle genti: noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli, e chiedendoti perdono vogliamo impegnarci in un’autentica fraternità con il popolo dell’alleanza. Per Cristo nostro Signore. Amen. Gerusalemme, 26 marzo 2000» (Giovanni Paolo II, Preghiera al Muro occidentale, in Il Regno-Documenti 7 [2000] 222). Sulla richiesta di perdono per le colpe del passato, cf. anche Commissione Teologica Internazionale, Documento Memoria e riconciliazione. La chiesa e le colpe del passato (7-3-2000), in Il Regno-Documenti 5 (2000) 137-152.
[10] Merita maggior attenzione l’analisi del contributo ebraico al dialogo e all’alterità. È sufficiente citare autori del calibro di E. Lévinas e F. Rosenzweig che hanno saputo intraprendere itinerari etici abbastanza impegnativi circa l’accoglienza dell’altro, la scoperta dell’alterità come dono e risorsa, nonché la responsabilità verso il prossimo. Sul dialogo, poi, merita attenzione anche l’impegno di M. Buber.
[11] Cf. J.B. Metz, Al cospetto degli ebrei. La teologia cristiana dopo Auschwitz, in Concilium 5 (1984) 50-65; C. Thoma, Die theologischen Beziehungen zwischen Christentum und Judentum, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1989, p. 29. Sulla collaborazione pratica tra cristiani ed ebrei è sufficiente citare qualche dichiarazione congiunta a favore della famiglia, del rispetto delle Sacre Scritture, dell’educazione religiosa e morale dei giovani: «Esortiamo le nostre comunità, scuole e famiglie, a vivere in reciproco rispetto e comprensione e a immergersi nello studio e nell’insegnamento delle nostre comuni Scritture Sacre, per l’elevazione dell’umanità, per la pace e la giustizia. Così si compiranno le parole del profeta: “Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci, un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra” (Is 2,4)» (Commissione per il Dialogo ebraico-cattolico in Israele, Dichiarazione congiunta [Gerusalemme, 8 Kislev 5764/3-12-2003], in P.F. Fumagalli [cur.], Fratelli prediletti. Chiesa e popolo ebraico. Documenti e fatti: 1965-2005, Mondadori, Milano 2005, p. 124).
[12] Per approfondimenti, cf. E. Scognamiglio, La Trinità nella passione del mondo. Approccio storico-critico, narrativo e simbolico, Paoline, Milano 2000, pp. 107-219; Id., Ecco, io faccio nuove tutte le cose. Avvento di Dio, futuro dell’uomo e destino del mondo, Messaggero, Padova 2002, pp. 447-607.
[13] G. Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo, Marietti, Genova 1986, 107-108.
[14] Cf. E. Scognamiglio, Testimoni del Risorto. Lectio divina sulla prima Lettera di Pietro, Paoline, Milano 2006, pp. 81-142.
[15] Cf. H. de Lubac, Meditazioni sulla chiesa, Jaca Book, Milano 1993.
[16] «Una speciale comunione ci lega al popolo d’Israele, con il quale Dio ha stipulato una eterna alleanza. Sappiamo nella fede che le nostre sorelle ed i nostri fratelli ebrei “sono amati (da Dio), a causa dei Padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!” (Rm 11,28-29). Essi posseggono “l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne …” (Rm 9,4-5). Noi deploriamo e condanniamo tutte le manifestazioni di antisemitismo, i “pogrom”, le persecuzioni. Per l’antigiudaismo in ambito cristiano chiediamo a Dio il perdono e alle nostre sorelle e ai nostri fratelli ebrei il dono della riconciliazione. È urgente e necessario far prendere coscienza, nell’annuncio e nell’insegnamento, nella dottrina e nella vita delle nostre Chiese, del profondo legame esistente tra la fede cristiana e l’ebraismo e sostenere la collaborazione tra cristiani ed ebrei. Ci impegniamo: § a contrastare tutte le forme di antisemitismo ed antigiudaismo nella Chiesa e nella società; § a cercare ed intensificare a tutti i livelli il dialogo con le nostre sorelle e i nostri fratelli ebrei» (Conferenza delle Chiese Europee – Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee, Charta oecumenica. Linee guida per la crescita della collaborazione tra le Chiese in Europa [Strasburgo, 22 aprile 2001], in Il Regno-Documenti 9 [2001] 318). Per approfondire tale testo, cf. S. Numico – V. Ionita (curr.), Charta oecumenica. Un testo, un processo, un sogno delle chiese in Europa, LDC, Leumann-Torino 2003; W. Kasper, Non ho perduto nessuno. Comunione, dialogo ecumenico, evangelizzazione, EDB, Bologna 2005, 75-94; 107-109.
[17] Ben-Chorin, Fratello Gesù, p. 48.
[18] F. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, Netherlands 1981 [La stella della redenzione, a cura di G. Bonola, Genova 1992, pp. 444-445].
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